Qualche settimana fa, durante una mia rara visita a un negozio di abbigliamento, una donna anziana è entrata, si è guardata intorno, e vedendo gli altri clienti ha esclamato: “Esseri umani!”. È stato un insolito momento di vicinanza tra sconosciuti.

Dopo un anno in cui siamo rimasti a un metro di distanza praticamente da chiunque, ci siamo tutti abituati a trattare le altre persone come potenzialmente tossiche. Ora che sono cominciate le vaccinazioni, possiamo permetterci di sperare che un giorno usciremo dall’ibernazione. Come sarà socializzare? E come affronteremo il fatto di ritrovarci insieme?

Gli psicologi che studiano i detenuti in isolamento o chi è costretto a vivere in solitudine, come i ricercatori nelle stazioni dell’Antartico, avvertono che le persone possono diventare ipersensibili dopo aver passato tanto tempo in compagnia di se stesse o con pochi altri. Per la maggior parte di noi l’esperienza del lockdown non è stata così estrema. Ma la pandemia ha cambiato la nostra risposta al mondo.

La mia pazienza si è sicuramente ridotta. Sono arrivata ad apprezzare le chiamate su Zoom perché posso ficcarmi nella vasca da bagno pochi minuti dopo aver cliccato “fine della riunione”. Qualche settimana fa, quando è venuto a trovarmi un amico per una rara cena in compagnia a distanza di sicurezza, mi sono resa conto che, nelle due ore successive, ogni volta che lui diceva qualcosa avrei dovuto rispondergli. Ancora e ancora. Ero in trappola.

Altri hanno perso la pazienza con me. Ho smesso di chiedere agli sconosciuti di allontanarsi se sono troppo vicini nella fila all’ufficio postale. Sbuffano per la mia “paranoia” oppure schizzano germi dichiarando ad alta voce che sicuramente non sono malati.

E abbiamo smarrito la percezione di cosa è interessante. Un’amica continua a chiedermi di fare una passeggiata con lei per potermi raccontare della sua colonscopia. Cerco di non pensare a quante ore ho passato inseguendo online l’impermeabile perfetto, trascinando i miei familiari in questa ricerca.

Sappiamo tutti che le nostre competenze sociali si sono deteriorate, e questo è di per sé un’altra fonte di angoscia. Sono ormai abituata a ricevere scuse subito dopo aver visto qualcuno, soprattutto se si tratta di persone che vivono da sole e temono di aver rovinato una preziosa occasione di contatto umano. Un amico che aveva passato buona parte della nostra passeggiata del sabato pomeriggio scagliandosi contro la politica degli Stati Uniti mi ha mandato un messaggio qualche ora dopo: “Spero di non essermi accalorato troppo. Non ne avevo parlato veramente con nessuno, solo messaggi”.

L’isolamento sociale a qualcuno piace più che ad altri, soprattutto per il lavoro. Conosco persone che sperano di non tornare più a condividere un ufficio. “È la cosa migliore che mi sia mai successa, perché la mia porta resta sempre chiusa”, ha confessato un dirigente d’azienda statunitense. Ora si è trasferito in un altro stato, lontano dai suoi clienti, e non prevede di tornare. Durante le videochiamate dice ancora “mi piacerebbe poterti vedere a pranzo” perché non vuole sembrare respingente o scortese. Ma almeno a breve termine, mi dice, “non dovrò mai farlo”.

Un’altra categoria di persone uscirà dalla pandemia socialmente più forte dal momento che, grazie a una miscela di generosità e istinto di sopravvivenza, ha irrobustito i legami locali. Una ragazza madre di Parigi dice di aver cominciato a fare visita a una signora anziana del suo palazzo per un nuovo sentimento di buon vicinato. È anche più gentile con i negozianti del quartiere, ma questo perché la Francia ha imposto un coprifuoco alle sei di pomeriggio, ed “è nel mio interesse, se voglio che mi facciano entrare alle sei meno un quarto”. Le persone come lei e come la donna che ha gridato “esseri umani!” nel negozio, probabilmente staranno benone. E anche un amico francese, che ha cominciato a firmare le sue mail con bonne fin du monde, buona fine del mondo.

Ma per molti di noi con ogni probabilità è una fortuna che il ritorno alla vita sociale avverrà gradualmente. Posso fantasticare di andare a un rave sovraffollato o almeno in un locale pieno di gente sudata. Ma in pratica sarà difficile tornare a immergersi gioiosamente in uno sciame di gente. Non passeremo direttamente dallo starcene a casa da soli allo strofinarci con degli sconosciuti in discoteca (io mi accontenterei di una festa di compleanno di media grandezza con un bel po’ di vino).

Sarà un sollievo socializzare seduti, al coperto, mangiando, invece di andare per due ore a passeggiare e chiacchierare nel freddo pungente. Sarei perfino contenta di cenare da sola in un ristorante animato. Ma mi mancherà avere il covid-19 come scusa per non andare alle recite scolastiche o a un matrimonio. E anche se il virus di per sé è una minaccia, essere sigillati in casa ha avuto dei benefici esistenziali. Riducendo le opzioni, ci ha offerto una tregua dall’ansia di perderci qualcosa e di chiederci ossessivamente se stiamo ottimizzando il nostro tempo sulla Terra.

Come molti altri, ne uscirò tecnologicamente più preparata. Ho imparato che Zoom può soddisfare in parte il mio desiderio d’incontrare gente nuova. Negli ultimi sei mesi ho conosciuto via video cinque o sei persone che oggi definirei quasi amici. Alla fine potrei anche consumare alcune di queste relazioni di persona. Ma come giornalista, sarei restia ad attraversare la città per intervistare qualcuno che forse non mi dirà niente di utile. E probabilmente neanche loro avrebbero voglia d’incontrarmi.

Saranno in molti a conservare questi nuovi espedienti salvatempo. Mio marito un tempo frequentava conferenze in tutto il mondo, ora si limita per lo più ad ascoltare podcast culturali mentre lava i piatti. Un docente universitario che conosco ha detto che durante la pandemia la sua vita personale si è sicuramente inaridita, però ha lanciato una newsletter, pubblicato articoli e finito un libro.

Sospetto che usciremo da questo anno con il desiderio che la nostra vita sociale somigli a un armadio ordinato secondo il metodo di Marie Kondo: meno interazioni, ma di qualità superiore. Dopo aver lottato per sconfiggere il virus, una socializzazione distratta e le chiacchiere banali sembrano uno spreco. Le conversazioni intime e oneste ci appaiono preziose.

Anche se non sono ancora pronta ad affrontare di nuovo tanti esseri umani tutti insieme, provo affetto per l’umanità in generale. Nel momento del pericolo, ci siamo uniti per proteggere i vulnerabili e inventare i vaccini. Quando finalmente ci ritroveremo di persona, spero che sapremo ricordarci quanto siamo veramente legati. Ma per favore non parlatemi della vostra colonscopia. ◆ gc

Pamela Druckerman è una giornalista di 1843, bimestrale pubblicato dall’Economist. Il titolo originale di questo articolo è What if we’ve forgotten how to socialise?

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Questo articolo è uscito sul numero 1404 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati