Gli uccelli hanno lasciato la Baviera il secondo martedì di agosto. Sono partiti da un campo di volo, hanno improvvisato alcuni cerchi approssimativi e poi, come per magia, hanno cominciato a seguire un velivolo ultraleggero come se fosse uno di loro. L’apparecchio – una specie di deltaplano a motore – s’impennava e poi scendeva bruscamente mentre il pilota, un biologo tirolese in tuta verde oliva e occhiali sportivi dalle lenti ambrate, strattonava la cloche. Sul sedile posteriore una giovane donna con i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo incitava gli uccelli in tedesco con un megafono. Mentre il velivolo e il suo seguito di uccelli svanivano verso ovest nella foschia, un convoglio di auto e camper si è lanciato al loro inseguimento.

Gli uccelli, poco più di una trentina, appartenevano alla specie dell’ibis eremita settentrionale: buffo, totemico e quasi estinto. Gli esseri umani erano un’équipe di scienziati e volontari, per lo più austriaci e tedeschi, che hanno dedicato i due mesi successivi – per alcuni di loro, in realtà, era la missione di una vita – all’obiettivo di reintrodurre in natura questi uccelli, quattro secoli dopo la loro scomparsa dal continente europeo.

La donna con il megafono è Barbara Steininger, detta Babsi, una delle due madri adottive degli uccelli, che si è presa cura di loro fin dalla schiusa delle uova quattro mesi prima. Il pilota è il capo del progetto, Johannes Fritz, scienziato di 57 anni e pifferaio magico.

Da vent’anni, quasi ogni agosto guida uno stormo di giovani ibis nella migrazione autunnale per insegnargli come e dove spostarsi. Quello era il primo giorno di viaggio. Li aspettavano sette settimane e più di 2.700 chilometri di volo – sempre che tutto andasse bene – prima di arrivare alla costa meridionale della Spagna, dove avrebbero svernato.

Un vecchio campo

Io li ho raggiunti ventidue giorni dopo nelle campagne spagnole. Sono stato invitato da un gruppo di documentaristi che vogliono filmare la migrazione: un’impresa folle quanto quella di Fritz, perché hanno il divieto assoluto di avvicinarsi agli uccelli. L’équipe di ornitologi e la troupe cinematografica sono accampate a una certa distanza l’una dall’altra, in un vecchio aeroclub, una fattoria con una pista di stoppie vicino al villaggio catalano di Ordis, un’ora e mezzo a nordest di Barcellona. Arrivo al campo di volo un’ora prima dell’alba. Sono già tutti indaffarati, con le torce frontali accese, e bisbigliano per non disturbare gli uccelli. Fatta eccezione per le madri adottive, nessuno può avvicinarsi agli ibis. I furgoni degli ornitologi e la tenda che hanno adibito a mensa formano una barriera tra lo stormo e il resto del campo. Il primo filo di luce a est illumina la loro voliera mobile: una grande impalcatura circondata da una rete grande come un fienile, con qualche decina di uccelli appollaiati di profilo, come se fossero geroglifici.

Fritz fa scorrere la porta di un hangar di lamiera ondulata e comincia a spingere il deltaplano verso la pista. È alto e molto magro, va a correre due volte al giorno. È appena tornato dopo aver fatto un giro intorno alla pista in mutande, nel buio. Ora indossa la tuta di volo. “Ce l’ho da vent’anni”, dice. “Emana carisma. Mi trasforma in un pilota”. Sotto Fritz ha un tubo collegato a una sacca di drenaggio, nel caso la giornata vada per le lunghe.

Quando siamo sul campo mi descrive il velivolo in inglese, con un accento che ricorda quello del regista tedesco Werner Herzog. “Potrebbe non sembrare sicuro, ma lo è”, spiega. “Abbiamo avuto incidenti, atterraggi di fortuna, tutto quanto, ma nessuno si è mai ferito”.

L’ha modificato circondando l’elica con una gabbia, per impedire che gli uccelli ci finiscano in mezzo e siano fatti a pezzi. A pieno carico, con settanta litri di carburante e due passeggeri, pesa intorno ai 385 chili e può volare per più di quattro ore, raggiungendo una velocità massima (senza vento a favore) di cinquanta chilometri orari. Un paracadute extralarge garantisce la portanza e la resistenza desiderate. “Mi piace volare piano”, dice.

Stende sull’erba il paracadute, più di 55 metri quadrati di tessuto giallo. Tyler Schiffman, il regista del documentario, mi ha spiegato che gli ibis sono stati addestrati a seguire il colore giallo. Le madri adottive vestono di giallo, ma a tutti gli altri è vietato. “È l’unica regola importante”, dice lanciandomi una rapida occhiata di controllo. Non indosso niente di giallo per fortuna.

Dietro di lui, a una quindicina di chilometri, il mar Mediterraneo scintilla sotto i primi raggi del sole. Schiffman e il direttore della fotografia Campbell Brewer riprendono i preparativi, che sullo sfondo di quella luce dorata sembrano avvenire in un paradiso o in un film di Terrence Malick. Hanno installato una videocamera sul telaio del velivolo e possono controllarla a distanza da un furgone.

Helena Wehner, la seconda madre adottiva, fa uscire gli uccelli dalla voliera cantando come la Maria von Trapp di Tutti insieme appassionatamente. Mi dirigo verso un elicottero lontano qualche centinaio di metri. I documentaristi l’hanno noleggiato per una settimana, con tanto di pilota, e hanno ingaggiato un operatore di riprese aeree, Simon Werry, un inglese chiacchierone. Ha una videocamera rotante montata sotto la cabina di pilotaggio, e la manovra con un joystick. Brewer prende posto sul sedile anteriore con un’altra videocamera mentre io raggiungo Werry nel retro.

“Ieri mi sono beccato una bella strigliata da una delle madri adottive perché mi ero avvicinato troppo agli uccelli”, racconta. “In elicottero dobbiamo restare a trecento metri di distanza”.

Dopo mezz’ora i due aeromobili sono ancora fermi nel campo mentre gli uccelli beccano la terra. “Ecco la luce che aspettavamo”, esclama Brewer. “Che peccato!”.

La torre di controllo del traffico aereo locale non ha ancora dato l’autorizzazione al decollo. Ogni fase ha una marea di complicazioni. In Francia un aereo per la disinfestazione dei campi – giallo acceso, ovviamente – era passato a pochi metri dal deltaplano. Il giorno prima, mentre cercavano di attraversare i Pirenei, il pilota dell’elicottero aveva chiesto via radio il permesso di decollare ai controllori francesi, che avevano risposto: “Andate affanculo, voi e le vostre papere”.

Il via libera arriva alle 7.49. Nove minuti dopo, l’ultraleggero e l’elicottero sono già in volo, e così gli uccelli. La voce di Fritz arriva via radio: “Più lontani dagli uccelli”. L’elicottero si ritrae.

Sotto di noi sfilano campi e fienili di pietra, boschetti e torrenti. Sorvoliamo un campo da golf con intorno un complesso di ville, ognuna con la sua piscina.

“Maledetta Spagna”, borbotta Werry. Che poi aggiunge: “Oh, ecco gli uccelli!”

“Sembra che oggi si siano decisi a volare”, commenta Brewer.

Fritz vola in cerchio sul campo di volo, nel tentativo di far mettere in fila gli uccelli dietro di lui. Da quella distanza è difficile capire cosa succede e tutti guardano i monitor.

Brewer: “Aspetta, gli uccelli sono dietro di lui?”.

“Non riesco a vederli”.

“Credo che li abbia persi”.

Johannes Fritz, Ordis, 2024 (Mathias Depardon)

“Forza, seguitelo, stronzetti”, dice Werry. “I bastardi sono tornati indietro. Oggi non ne hanno voglia”.

Gli uccelli sono tornati sul campo, e dopo qualche tentativo atterra anche Fritz. Sono le 8.55. Per quanto riguarda il volo, la giornata è finita.

La devastazione della natura causata dagli esseri umani è così vasta e profonda che invertirne gli effetti, su qualunque fronte, comporta spesso sforzi così meticolosi e donchisciotteschi da sfiorare il ridicolo. Condor o merluzzo, prateria o ghiacciaio: facciamo quello che possiamo, ma i buchi nella diga sono più numerosi dei pollici disponibili per chiuderli.

Il velivolo di Fritz fa pensare all’arca di Noè, a parte il fatto che ospita un’unica specie sopravvissuta nella nostra era dell’estinzione. L’impegno, l’ingegnosità e lo spirito di sacrificio necessari per cercare di salvarne anche una sola dimostrano quanto è catastrofica la situazione oggi. Ma l’impresa è anche il simbolo di un’ostinata speranza, una caratteristica umana quanto la tendenza a distruggere. Passione di fronte all’inutilità: che altra scelta abbiamo? Questa in ogni caso è l’idea alla base del progetto di Fritz per salvare l’ibis eremita settentrionale. Se è quello che serve, tanto vale darsi da fare.

Il messaggero

Il passato della specie è più illustre del suo presente. Millenni fa questi uccelli dimoravano sulle alture a est del Nilo, un luogo associato al sorgere del sole e quindi alla vita e alla rinascita. E per questo, si dice, diventarono il modello per il geroglifico egizio akh, che può rappresentare la persistenza dello spirito nel regno dei morti. In Turchia e in Medio Oriente appaiono nel folclore come messaggeri della primavera e guide per i pellegrini. Si racconta che furono le prime creature, insieme a due colombe, a scendere dall’arca di Noè.

La specie un tempo prosperava anche in Europa centrale. Il primo a scriverne in modo particolareggiato fu probabilmente Conrad Gessner, il medico, naturalista e linguista svizzero del cinquecento, considerato il primo europeo ad aver descritto il porcellino d’India, il tulipano e la matita. Secondo Gessner gli ibis eremiti erano molto gustosi, avevano la carne tenera e ossa morbide. I piccoli erano particolarmente apprezzati dall’aristocrazia e dal clero che, come emerge dalle ricerche di Fritz, avevano emanato decreti per vietarne la caccia alle persone comuni, tenendoli tutti per sé. Ma fu inutile: assediato dai cacciatori e, con ogni probabilità, dal clima rigido della piccola era glaciale (un periodo di temperature molto fredde che interessò l’Europa dal quattordicesimo al diciannovesimo secolo), l’ibis eremita non ebbe scampo. All’inizio del seicento era già scomparso dal continente.

E proprio la sua sparizione gli diede uno status mitico: le immagini di ibis si possono trovare in vecchi disegni e pale d’altare. Invece in Turchia, Siria, Algeria e Marocco erano sopravvissute alcune colonie. Intorno all’ottocento alcuni ornitologi europei si accorsero che erano gli stessi uccelli che fino a quel momento avevano visto solo nei quadri.

Barbara Steininger ed Helena Wehner, Ordis, 2024 (Mathias Depardon)

Negli anni cinquanta del novecento uno zoo di Basilea importò alcuni giovani esemplari dal Marocco. Nei decenni successivi si riprodussero, non solo in Svizzera, ma anche in altri zoo europei. E avevano acquisito anche un nome latino: Geronticus eremita, eremita anziano. È un nome azzeccato. Il Geronticus eremita ha delle zampette da pollo, un dorso nero e untuoso, una testa rossa da macaco, un lungo becco ricurvo e un ciuffo di piume alla Einstein rivolto all’indietro che lascia completamente calvo il resto del capo.

Fino a qualche anno fa i discendenti degli esemplari trapiantati in Europa non avevano bisogno di volare. Non migravano e svernavano oziando negli zoo. Nel frattempo in Nordafrica e Medio Oriente stavano scomparendo anche le ultime popolazioni di ibis eremiti selvatici a causa della caccia, della distruzione dell’habitat, dei pesticidi e dei cavi dell’elettricità. Nel 2002 un ecologo italiano scoprì sette ibis eremiti migratori in Siria. L’ultimo scomparve nel 2014. “Quell’anno si sono estinti come specie migratoria”, afferma Fritz.

All’inizio degli anni novanta Fritz, che è cresciuto in una fattoria tra le montagne tirolesi vicino a Innsbruck, lavorava con i corvi in una stazione di ricerca nella valle del fiume Alm, con il patrocinio dell’Istituto Konrad Lorenz per la ricerca sull’evoluzione e la cognizione (Kli). Allevava pulcini applicando alcune delle tecniche di imprinting messe a punto da Lorenz, uno dei fondatori dell’etologia. Per la tesi di dottorato studiò le oche selvatiche, la specie protagonista dei lavori più famosi di Lorenz.

“Addestravo gli anatroccoli ad aprire delle scatoline”, racconta Fritz. “Volevo vedere se riescono a imparare alcune regole”. Era particolarmente interessato a capire come le abilità apprese si diffondevano all’interno della popolazione. L’idea era che un umano può insegnare agli animali un comportamento che poi viene trasmesso alle generazioni successive. I suoi colleghi, aggiunge, oggi addestrano i corvidi a usare computer dotati di touch­screen: sempre scatoline, ma più insidiose.

La stazione di ricerca si era procurata una piccola colonia di ibis eremiti. Una mattina d’inizio agosto i ricercatori andarono a controllare i trespoli e videro che gli esemplari giovani erano scomparsi. Tutti. Un’aquila? Un gufo? Ma poi cominciarono ad arrivare telefonate di persone che li avevano avvistati. Ne ricevettero anche da posti lontani come la Polonia e i Paesi Bassi.

Gli ibis erano volati verso nord, e per questo forse all’inizio nessuno pensò che l’improvviso desiderio di mettersi in viaggio potesse essere l’espressione di un istinto migratorio latente.

“Erano andati nella direzione sbagliata”, dice Fritz. Ma l’anno dopo successe di nuovo con una seconda covata di ibis eremiti: una mattina d’agosto, i trespoli erano vuoti. Quella volta le segnalazioni arrivarono anche dall’Ungheria e da San Pietroburgo. “Capimmo che gli uccelli erano mossi da una specie d’irrequietezza migratoria”, spiega Fritz.

La voliera degli ibis a Ordis, 2024  (Mathias Depardon)

Questo colpì la sua immaginazione. Verso il 2001 Fritz stava cominciando a lavorare per il post-dottorato, seguendo il percorso di chi si avvia a diventare un ricercatore serio. Ma allo stesso tempo si chiedeva se poteva addestrare quegli uccelli vagabondi. Cominciò a prendere lezioni di volo vicino a Vienna.

L’idea gli venne da L’incredibile volo, un film del 1996 che le persone di una certa indole ed età potrebbero considerare una pietra miliare. Una ragazzina di tredici anni, interpretata da Anna Paquin, perde la madre in un incidente automobilistico in Nuova Zelanda e va a vivere nella provincia canadese dell’Ontario insieme al padre, uno scultore e inventore interpretato da Jeff Daniels. La ragazza trova sedici uova di oca abbandonate e le accudisce di nascosto. Dopo una serie di complicazioni, padre e figlia decidono di aiutare le oche a migrare in un’area protetta del North Carolina, negli Stati Uniti. Il padre costruisce un ultraleggero, ma gli uccelli sono convinti per imprinting che la loro madre sia il personaggio interpretato da Paquin, e si rifiutano di seguirlo. Allora il padre insegna alla figlia a volare.

Il film si basa sulla storia vera di un artista e inventore canadese, Bill Lishman, che viveva in una fattoria vicino al lago Scugog, nell’Ontario. Aveva costruito una casa in cima a una collina ma scavata nel terreno, una serie di strutture circolari a cupola collegate tra loro, in modo da ridurre al minimo la necessità di riscaldamento e aria condizionata. Lishman, tra le altre cose, era un pioniere del volo con il deltaplano a motore e fin da bambino sognava di volare con gli uccelli. Alla fine degli anni ottanta, quando aveva più di cinquant’anni, lui e i suoi figli, sotto la guida di un seguace di Lorenz, allevarono alcune oche e le addestrarono a seguire prima una moto e poi un deltaplano a motore. Nel 1993 guidò la sua prima migrazione di oche dalla fattoria alla Virginia. Realizzò un documentario (C’mon geese!, “Forza oche!”), pubblicò un’autobiografia (Father goose, “Papà oca”), e comparve perfino come controfigura di Jeff Daniels nel film L’incredibile volo.

Ci fece un servizio anche il programma 20/20 dell’emittente statunitense Abc, in cui uno dei conduttori, Hugh Downs, commentò: “Secondo me questa è la storia più bella che abbiamo raccontato in quindici anni di trasmissione”.

Lishman fu anche cofondatore di Operation migration, un’iniziativa per introdurre abitudini migratorie e creare popolazioni autosufficienti in specie come le gru americane, ma non andò molto bene.

Le vette più alte

Nel 2001, a 34 anni, Fritz cominciò ad allevare gli ibis eremiti per addestrarli a volare. “Non era una decisione logica e sensata”, dice. “Pensavo di farlo per un paio di anni, e poi tornare a un lavoro serio. Ma venticinque anni dopo sono ancora quello che cerca di volare con questi uccelli completamente pazzi”.

Dai documenti storici non era chiaro dove migrassero gli ibis eremiti settentrionali europei, e così Fritz scelse la Toscana: era la regione più vicina all’Austria con un clima mite e c’erano alcune aree dove svernavano gli uccelli migratori.

Il primo volo degli uccelli fuori della voliera è stato un caos. Si sono ingarbugliati in una trentina di direzioni diverse

“All’epoca non avevamo preso in considerazione le Alpi”, osserva l’ornitologo.Tra il 2004 e il 2022, per quindici volte Fritz ha guidato dei giovani ibis verso sud, dalla Baviera all’Italia, lungo un percorso che evita le vette più alte e i venti più insidiosi. Alla fine molti uccelli, come aveva sperato, hanno cominciato a compiere il viaggio annuale di ritorno a nord. Nel 2024 i discendenti di quarta generazione di uccelli addestrati da Fritz hanno fatto il viaggio verso la Toscana da soli. Nei primi quindici tragitti Fritz ha portato 280 ibis in Italia. Il primo gruppo ha cominciato ad accoppiarsi e a migrare nel 2011, e da allora sono nati 383 piccoli allo stato selvatico. Non l’ha fatto solo perché ci si era affezionato: gli ibis migratori hanno un tasso di sopravvivenza compreso tra due o tre piccoli per nidiata, quasi il triplo di quello delle popolazioni non migratorie.

Ogni anno un numero crescente di uccelli lasciava la Germania e l’Austria, ma non riusciva a superare le Alpi. Gli autunni, resi più caldi dal cambiamento climatico, spingevano gli ibis a rimandare il viaggio. Poi, però, quando raggiungevano le montagne, si smarrivano o erano uccisi dal maltempo invernale. L’anno scorso un numero record di quarantadue ibis nati dall’esperimento toscano non è riuscito a superare le Alpi.

Nel 2022, mentre Fritz stava accompagnando ventotto esemplari attraverso le montagne dell’Alto Adige, uno è scomparso. Si chiamava Ingrid, anche se era un maschio perché agli uccelli viene dato un nome prima di conoscerne il sesso. Ingrid, dotato di gps, aveva scelto una rotta alternativa, attraverso la parte settentrionale della Svizzera, la Francia, poi scendendo a sud lungo il Rodano fino al Mediterraneo, al di sopra dei Pirenei e ancora giù fino a Malaga, sulla costa meridionale della Spagna. Un viaggio stupefacente, una lunga e pericolosa improvvisazione da solista.

Da quelle parti, a Cadice, c’è una popolazione di ibis eremiti settentrionali non migratori, monitorata dall’organizzazione Proyecto eremita, che ha accolto Ingrid.

Forse questo ibis sapeva qualcosa più degli altri. Senza dubbio sarebbe stato meglio per Fritz evitare di attraversare le Alpi. Inoltre, come ha scoperto in seguito, i paleontologi avevano trovato prove della presenza dell’ibis eremita a Gibilterra venticinquemila anni fa e nei dintorni di Valencia due milioni e mezzo di anni fa.

La conclusione di Fritz è stata che per milioni di anni l’ibis eremita settentrionale aveva seguito quel corridoio per migrare. “Ingrid è stato il primo a far rinascere questa tradizione dopo quattrocento anni”, conclude. “È incredibile, no?”

Seguendo Ingrid

Nel 2023 Fritz ha seguito per la prima volta il percorso di Ingrid, guidando gli ibis nel sud della Spagna invece che in Toscana. È stato un viaggio più lungo, più difficile e più costoso ma, sostiene, migliore per la sopravvivenza a lungo termine della specie.

Quella stessa estate il regista Schiffman, che aveva appena realizzato un documentario per il National Geographic sul trasferimento di alcune giraffe, ha letto un articolo del New York Times (pubblicato su Internazionale 1531) che raccontava di Fritz, del progetto Waldrapp, dal nome tedesco della specie, e della prima migrazione in Spagna. Il padre di Schiffman era un tecnico informatico e audiovisivo che aveva lavorato per Matt Damon. Insieme al collega Ben Affleck, l’attore statunitense ha fondato una casa di produzione, la Artists Equity, che ha accettato di finanziare il viaggio in Spagna. Schiffman aveva raggiunto gli uccelli migratori vicino a Roquetes. Era rimasto sbalordito: “Mi prendete in giro? Non riesco a credere che funzioni davvero!”.

Alla fine Fritz ha accettato di collaborare con Schiffman. Il problema per il regista era capire come filmare un soggetto a cui non poteva avvicinarsi. Per la nursery dei piccoli ibis, che si trova in un container, Schiffman e il suo team hanno progettato una parete dotata di un vetro insonorizzato in modo unidirezionale e hanno trovato un vetraio austriaco che fosse capace di realizzarlo. Ogni nido è quindi una scatola illuminata come un palcoscenico. Il lato a specchio è rivolto verso l’interno, ma sembra che gli uccelli non si riconoscano. C’erano nove nidi, con cinque piccoli ciascuno. All’esterno la troupe ha sistemato dei binari per far scorrere la telecamera da un nido all’altro. Ma riprenderli in volo è tutta un’altra storia.

Due madri

Il viaggio del 2024 è cominciato sulle montagne della Carinzia, nell’Austria meridionale, dove il principe Emanuele del Liechtenstein possiede e gestisce uno zoo all’aria aperta sul terreno di un vecchio castello. Una colonia di circa trenta ibis eremiti settentrionali nidifica in una voliera accessibile da una finestra aperta. Sono considerati “selvatici” – volano liberi, tranne in inverno – ma per lo più sono sedentari, cioè non migrano.

All’inizio di aprile si sono schiuse le prime uova. Dopo pochi giorni la guardiana dello zoo, Lynn Hafner, è passata da un nido all’altro per selezionare i piccoli più sani. Li ha tolti dal nido dei genitori – un processo straziante ma necessario per il bene della specie, si ripetono gli esseri umani – e li ha trasferiti in un container dove sono stati affidati alle cure delle madri adottive, che praticamente vivono là dentro. Di nido in nido, tengono compagnia agli uccelli cantando e parlando con loro, gli sputano sul cibo per dare agli uccelli un enzima digestivo contenuto nella saliva. Per questo le madri adottive devono rinunciare a caffeina, tabacco e alcol.

Cinque settimane dopo, quando gli uccelli erano pronti per prendere il volo, il team li ha trasportati in un nuovo sito a nord del confine austriaco, una fattoria biologica nella campagna bavarese. Il primo volo degli ibis fuori della voliera è stato un caos. Si sono ingarbugliati in una trentina di direzioni diverse, mentre i gheppi piombavano all’attacco. Alcuni si sono schiantati al suolo, un paio si sono allontanati scomparendo per ore. Le madri adottive li avevano già fatti familiarizzare con il suono del deltaplano usando una cassa bluetooth e poi con lo stesso ultraleggero. Gli uccelli hanno poi visto per la prima volta il paracadute, e successivamente hanno seguito goffamente le madri sul velivolo che volava in circolo intorno a un campo.

Ovviamente il giorno prima del mio arrivo è stato il migliore, sia per gli uccelli sia per le riprese. L’intero accampamento è ancora in fermento. Schiffman mi racconta la scena davanti a un caffè.

La prima settimana gli uccelli hanno affrontato tre lunghe tratte in volo, ciascuna durata ore, per raggiungere il confine tra la Germania e la Francia. Ma poi il tempo si è guastato e sono rimasti a terra per tre giorni. Il quarto giorno, mentre entravano in Francia, un quarto dello stormo ha invertito la rotta ed è tornato al punto di partenza. La madre adottiva che li seguiva con il furgone – le due donne si alternano alla guida e in volo – è dovuta tornare indietro e ha passato ore sotto il sole cocente per radunare gli uccelli nelle casse, salire di nuovo sul furgone e guidare per riunirsi con gli altri. Le due settimane successive, mentre scendevano a sud attraversando la Francia, sono state massacranti. Gli ibis non possono sentire altre voci umane, perciò, una volta che viaggiava con loro, Schiffman è dovuto restare in silenzio nel furgone per sette ore di fila. Non proprio un’occasione per fare grande cinema.

Nessuno pensò che l’improvviso desiderio di mettersi in viaggio potesse essere l’espressione di un istinto migratorio latente

Quando hanno raggiunto Narbona, sul versante francese dei Pirenei, erano tutti stremati. Il morale di ciascun gruppo era a terra, per non parlare di quello degli uccelli, che nessuno sapeva intuire. Gli ibis non potevano essere trasportati oltre i Pirenei nelle loro casse. Secondo la logica di Fritz, era l’unica tratta che dovevano assolutamente fare in volo, per addestrare la loro bussola interna al viaggio di ritorno. “Devono sapere attraversare le montagne”, diceva.

Dopo tre giorni e un tentativo fallito, nonostante il pericolo di temporali e l’elicottero in ritardo, hanno deciso di riprovare. Sono partiti alle sette e mezza del mattino. Gli uccelli si sono allineati dietro al deltaplano e hanno volato verso il Mediterraneo, per evitare le città e le zone soggette a controllo del traffico aereo.

“Per favore dimmi che hai un piano per attraversare i Pirenei”, ha chiesto Schiffman a Fritz via radio.

“Abbiamo una probabilità del cinque per cento di farcela”, gli ha risposto Fritz. “Deciderò durante il volo”.

Ha cominciato a piovere. Le gocce imbrattavano l’obiettivo della videocamera montata sull’elicottero.

“Johannes, hai intenzione di attraversare i Pirenei?”.

“Ci sto pensando”.

Sulle cime incombevano nuvole nere. La squadra a terra era diretta verso un tunnel che passava sotto il valico verso il quale Fritz si stava dirigendo.

“Ci provo”, ha comunicato Fritz via radio. “Passiamo i Pirenei”.

Schiffman mi racconta tutta la storia, il giorno dopo, con gli occhi umidi. È un californiano dallo sguardo vivace e con l’aria giovanile, posato e irrefrenabile; lo potresti immaginare come il favorito in un reality di sopravvivenza.

“Poi la pioggia è peggiorata”, continua. “L’obiettivo era tutto bagnato. Eravamo vicinissimi al valico! Ho pensato: ‘Non puoi farmi questo, obiettivo!’. Allora avevamo deviato dal percorso, e il pilota ha accelerato al massimo in modo che l’aria asciugasse la lente”.

Quando l’elicottero è tornato sulla rotta fissata, Fritz gli è volato accanto con gli uccelli al seguito in formazione perfetta e in controluce, e poi ha superato la vetta. “Avevo la mia scena madre”, dice Schiffman.

Sul versante spagnolo lo stormo si è fatto trasportare dalle correnti ascensionali e ha seguito Fritz fino alla pista d’atterraggio di Ordis, dove ci troviamo ora.

“È stato il volo più sorprendente degli ultimi vent’anni”, conferma Fritz. Le madri adottive chiacchierano e ridono con gli uccelli, rimpinzandoli di vermetti. La voliera viene montata e gli uccelli, esausti e, chissà, forse perfino gratificati, non tergiversano per ore come fanno di solito. La troupe allestisce un banchetto a base di vino e formaggio. Il campo di volo ha una piscina d’acqua salata e Fritz in mutande si tuffa. Poi, asciugandosi: “Voliamo domani?”.

Gli uccelli mangiano tarme della farina. Le madri adottive le spargono sulla pista ogni volta che gli ibis completano un volo

Prima sì, voliamo, e poi no. A quanto pare, migrare somiglia un bel po’ a fare cinema: corri e aspetta.

“Ogni teoria su perché decidono di volare o no viene smentita”, mi dice Schiffman. “L’ultima è che si erano acclimatati troppo in questa o quella tappa. Be’, è una spiegazione che non regge”.

Altre riguardano l’ora del giorno o i cambiamenti nella composizione del mangime, o varie distrazioni. Gli uccelli “ribelli” – come Fritz chiama i più recalcitranti – sono sempre gli stessi o la ribellione si propaga nello stormo come un virus? Fritz e la sua squadra, come allenatori in crisi, cercano d’individuare dei modelli nell’indisciplina. Si chiedono se una delle due madri adottive ha più successo dell’altra, ma è un’ipotesi dai risvolti delicati.

“Sarei potuto diventare professore universitario, e invece volo con questi uccelli pazzi”, dice Fritz. È seduto all’ombra su una sedia pieghevole, a un centinaio di metri dalla voliera. “Ma sono convinto che il mio metodo è utile e valido, e lo sarà anche per altri progetti di conservazione”.

Tra ottimismo e pessimismo

Per i primi dodici anni, il programma ha potuto contare sui fondi di istituzioni e donatori privati. Negli ultimi dieci ha ricevuto sovvenzioni dell’Unione europea. L’ultimo finanziamento ammonta a circa un milione di euro all’anno, che copre circa il 60 per cento dei costi. La sola migrazione verso la Spagna costa 350mila euro. Buona parte delle iniziative, e delle risorse, è destinata alla prevenzione della caccia di frodo, responsabile di un terzo delle morti di ibis eremiti in Italia.

L’idea dell’imprinting, e più in generale quella di intervenire sulla natura, oggi è accolta più favorevolmente dagli esperti di conservazione ambientale. “Dieci anni fa era considerata una pratica troppo intrusiva, ma ora la parola d’ordine è ‘a qualunque costo’”, osserva Schiffman. Secondo Fritz gli scienziati che insistono solo sulla protezione degli habitat naturali sono fermi al passato. “È troppo tardi per limitarsi a preservare un territorio”, commenta. “Ora dobbiamo salvare gli animali in modo che possano vivere con noi”.

Fritz oscilla tra ottimismo e pessimismo. “Essere pessimisti spesso è solo una scusa per non fare niente”, dice. “Ma l’altra faccia della medaglia è che, dopo vent’anni di lavoro per quest’unica specie, gli ibis sono ancora in pericolo a causa dei cambiamenti climatici. Se fai passare solo l’idea che c’è speranza, sono tutti contenti, ma è una visione ingenua. Non è tutta la verità”.

Sopra di noi c’è un’improvvisa esplosione di cinguettii. “Oh, gruccioni!” esclama Fritz. “Coloratissimi! Migrano anche loro. Viaggiano con noi ogni anno”. Restiamo ad ascoltare. Più tardi arriva uno stormo di cicogne che volteggia in alto seguendo le correnti. L’accampamento si riunisce per osservarle.

“È una sensazione magnifica essere sulla rotta di questa migrazione e sapere che milioni e milioni di uccelli stanno viaggiando con te, ja, perciò siamo esattamente dove dovremmo essere, ja?”, dice. “Ma forse sarebbe meglio essere insieme a uccelli che non devono essere spinti a migrare!”.

La troupe del film e buona parte del gruppo degli ornitologi dormono in furgoni o automobili, ma una decina di volontari ha montato le tende nel cortile di una cappella di pietra di cinquecento anni fa sul terreno della vecchia fattoria. Io trovo un angolino di ghiaia dove piantare la mia tenda, senza considerare il concerto di cerniere, russamento e flatulenze che mi farà compagnia tutta la notte. Dall’altro lato della cappella c’è la piscina, circondata da alberi di fichi e di prugne, una recinzione ricoperta di viti e una sorta di loggiato che si affaccia sulle colline ai piedi dei Pirenei.

La troupe del film ha una chef di Barcellona, Francesca Baixas, che quasi ogni giorno si procura ingredienti freschi a prezzi ragionevoli nei mercati locali. Mangiano intorno a un tavolo da picnic vicino all’aeroclub, e Baixas non propone mai due volte lo stesso menu. Questa sera ci sono salsicce botifarra e ceci, con uno sformato di cavolo e patate. A una cinquantina di metri di distanza, la squadra degli ornitologi, abituata o filosoficamente incline a uno stile di vita più semplice, segue una dieta vegana e senza glutine. La loro devozione alla causa e il rigido stampo centroeuropeo della loro esistenza bohémien possono sembrare una sorta di culto, innocuo e benevolo. Ogni tanto, l’odore della carne grigliata proveniente dal tavolo della troupe cinematografica raggiunge quello degli ornitologi, e alcuni si lasciano tentare. Una sera passa anche Fritz. “Buona sera”, dice. “Questo tavolo diventa sempre più grande. Temiamo che cominciate a dominarci”.

Per quanto riguarda gli uccelli, una buona parte della loro dieta migratoria è a base di carne, preparata dallo zoo di Vienna, che collabora al progetto.

“Mettono in un frullatore ratti morti, con la coda rivolta all’insù”, mi racconta un membro del team. “Oppure pollo e cuori di bovino tagliati a pezzi e mischiati a formaggio”. Non spetta certo a un umanista in visita, tra tanti biologi esperti, cercare di comprendere la mente di un volatile, ma si potrebbe ipotizzare che una dieta del genere qualche volta faccia perdere la motivazione a volare.

Gli uccelli mangiano anche tarme della farina. Le madri adottive le spargono sulla pista ogni volta che gli ibis completano un volo per non farli andare via di nuovo. Durante il giorno Christine Schachenmeier, la proprietaria della fattoria biologica tedesca dove i piccoli hanno imparato a volare, e Gunnar Hartmann portano fuori delle cassette di tarme, ciascuna contenente migliaia di larve su un letto di segatura e cartoni per le uova. Le selezionano a mano, eliminando quelle morte e i bozzoli.

“È molto strano”, dice Fritz. “Non chiedetemi per quale motivo si comportano così. Ci servirebbe un seminario”

Hartmann è il coordinatore del percorso: calcola le distanze, trova e organizza atterraggi e accampamenti, gestisce il mosaico dei permessi necessari per sorvolare o aggirare le forche caudine degli spazi aerei riservati. “L’anno scorso è stato tutto più selvaggio”, racconta. “Atterravamo sui campi, dovevamo trovare sorgenti naturali per l’acqua e non avevamo servizi igienici”.

Schachenmeier, l’anziana del campo, ha un volto granitico dall’aria serafica. Per quasi quarant’anni ha lavorato in un ospedale di Rosenheim, curando i pazienti oncologici e quelli del pronto soccorso, ma durante la pandemia di covid è andata in pensione e si è dedicata a tempo pieno alla fattoria biologica insieme al marito Frank. Oltre a bovini e galline, alleva pipistrelli e ha imparato a nutrire quelli rimasti orfani con il latte artificiale.

“La migrazione di Johannes è un’impresa molto coraggiosa”, dice. “Gli uccelli sono molto vulnerabili anche ipotizzando che il mondo rimanga così com’è, e non credo che stia migliorando”. E aggiunge: “Servono molti sacrifici. Anche per gli uccelli. Sarebbero più al sicuro in uno zoo”.

Alle cinque del mattino del giorno dopo il campo è in fermento. Le madri adottive, Babsi ed Helena, sono uscite dal furgone. Helena si pettina i capelli, Babsi si lava i denti. Tutte e due hanno pantaloncini e felpe gialle con cappuccio, e sono molto abbronzate. Babsi smonta la recinzione elettrica intorno alla voliera, attivata di notte per proteggere gli ibis dai predatori. Nel 2017 una volpe era riuscita a entrare e aveva ucciso due uccelli. Poi comincia a trascinare sacchi di mangime fino all’ingresso. Helena la raggiunge, zoppicando a causa del tutore al ginocchio che indossa per una lesione a un menisco. Alcuni ibis svolazzano per salutarla.

Il nido di Voldemort

Babsi è la figlia di un falegname della Bassa Austria, ha un forte senso dell’umorismo e il tatuaggio di un ibis sul bicipite sinistro. Ha studiato all’Istituto Konrad Lorenz, dove allevava oche selvatiche. “Ho scoperto gli ibis eremiti quando vennero a trovarmi nei boschi con la mia famiglia di oche”, racconta. È il suo secondo anno come madre adottiva, e il quinto per Helena.

Babsi elenca i nomi degli ibis, raggruppati in base ai loro nidi adottivi. Ci sono Voldemort, Fluffy, Aragog e Grindelwald (“il nostro nido Harry Potter”, spiegano); Queenie, Genti, Diva (i nomi dei cavalli di Helena); Catan, Canasta, Uno, Dixit (giochi di società); Levante, Ponente, Fernanda, Marisma (venti e amici spagnoli); Tarifa, Conil, Achille, Meniscus, Optimas (“È il mio vino preferito”).

Schnapsi è lo scalognato del gruppo. “All’inizio si riconosceva subito, era quello bianco coperto di cacca”, spiega Babsi.

Babsi ed Helena passano sei mesi di fila con la nidiata. “A mia nonna non va giù”, racconta Babsi. “Dice: ‘Non ci sei mai per la raccolta delle albicocche. Sei sempre con quegli uccellacci’”.

“Quando volano sono bellissimi”, continua. “Capisco perché la gente pensa che siano brutti, vedendoli in gabbia. Non fa niente se dicono che sono brutti. Ma non dite che sono stupidi”. Continua: “Secondo me quando siamo sotto pressione loro lo percepiscono. Abbiamo un legame forte. Sono uccelli addestrati ma non addomesticati. Seguono un aereo. A me sembra già incredibile. Ma vedere che tutti li guardano e fanno il tifo per loro senza avere il controllo… Finalmente ho capito perché alla gente piace lo sport”. “Avere l’amore e la fiducia di un’altra specie è una sorta di magia”, dice Helena. “Anche gli altri uccelli si fidano di più. Sentono la fiducia degli ibis. È come se ci avessero invitato nel mondo degli uccelli”.

Passano la maggior parte del giorno dentro la voliera, a volte dandosi il turno mentre l’altra prepara il cibo. Helena, che fa un dottorato in osservazione della Terra applicata, ogni tanto legge Harry Potter agli uccelli. Lei e Babsi si siedono sulle stuoie, circondate dagli uccelli che le schizzano di escrementi. Nessun altro può entrare o avvicinarsi alla voliera. “Anche se fosse il re d’Inghilterra non potrebbe entrare”, dichiara Helena.

Per osservarle al lavoro bisogna nascondersi dietro uno schermo montato a circa venti metri di distanza dalla struttura, accessibile solo con autorizzazione e senza farsi vedere. Da lì le guardo che danno da mangiare agli uccelli, pochi alla volta, usando contenitori di plastica. Chiacchierano, ridono e cantano, mentre gli uccelli emettono versi gracidanti.

Fritz esce dal furgone alle sei del mattino dopo aver rilasciato un’intervista radiofonica. “Non c’è verso di scappare”, dice indicando l’ovest con una brocca d’acqua, in direzione di una valle dove un gomitolo di nebbia s’intrufola nella luce dell’alba. Non aggiunge altro, come se volesse allontanarla. Sulla pista Fritz comincia a preparare il deltaplano. Schiffman e Brewer trafficano con le videocamere. Le madri adottive hanno aperto la voliera e stanno facendo uscire gli uccelli.

Mi ritiro con uno dei produttori in un tratto cespuglioso, lontano dagli uccelli e dalle videocamere. Ci sdraiamo tra le stoppie ai margini di un campo di girasoli, i capolini caduti sparsi sul suolo arido come nidi di calabroni abbandonati. Soffia una brezza leggera. Gli steli dei girasoli frusciano. Quando il sole comincia a scaldare il campo, le mosche si mettono al lavoro.

Liturgia nei campi

Le videocamere sono sistemate. Gli uccelli zampettano a papera sul campo, mentre il motore dell’ultraleggero di Fritz comincia a borbottare. L’atmosfera di attesa e timore – questo forte desiderio collettivo, un misto di speranza e rispetto – sembra quasi quella di una liturgia perché mette in comunione tutte le figure umane disseminate nei campi.

Il direttore della fotografia Campbell Brewer durante le riprese del documentario, Ordis, 2024 (Mathias Depardon)

Gli uccelli spiccano il volo mentre Helena li chiama. “Eccola che arriva”, dice il produttore. Helena comincia a correre attraverso il campo in direzione del deltaplano a falcate ampie ma irregolari, per colpa del ginocchio. Sull’ultraleggero Fritz agita le braccia come un uccello.

Helena raggiunge il velivolo, si aggiusta la coda di cavallo e poi sale sul sedile posteriore, mentre gli ibis svolazzano intorno in cerchi disordinati. Fritz accelera, il motore lancia un gemito acuto e disperato, e il deltaplano barcolla sulla pista, con la vela del paracadute che comincia a gonfiarsi.

E poi, di punto in bianco, eccolo in volo. Fritz toglie gas e per un attimo sembra appeso, quasi comicamente lento, dondolante come un piombo sotto il paracadute, prima di virare a est, dove il sole nascente scintilla sul mare.

Si sente la voce di Helena che ripete una cantilena monotona al megafono, una sorta di muezzin teutonico: “Komme, komme, waldi!”. Venite, venite, ibis! Due toni, su-giù su-giù, come una folla di tifosi allo stadio.

Gli uccelli volteggiano sopra la voliera mentre Fritz gira in cerchio. “Komme, komme, waldi”: la voce si affievolisce mentre il deltaplano si allontana, e poi torna a intensificarsi quando si riavvicina. Questo salire e scendere, avvicinarsi e allontanarsi, è insieme un incoraggiamento, una preghiera e un lamento, e suscita in me – ma in qualche modo, credo, anche negli altri– una sorta di struggimento, come la nostalgia per le persone care o il dolore nel vederle invecchiare.

L’eco lontana del motore risuona sulla lamiera ondulata dell’hangar come una sezione d’archi impazzita. Una vecchia barca a vela è appoggiata alla parete. Le rondini sfrecciano qua e là a caccia di mosche. Un aereo di linea passa silenziosamente sulle nostre teste.

Gli uccelli ondeggiano verso la pista e poi atterrano nel punto dove prima c’era il deltaplano. Non potrò dire che sono stupidi, ma di certo sono testardi. Fritz torna volando basso verso di loro e li fa alzare da terra passandoci quasi in mezzo.

Ordis, 2024 (Mathias Depardon)

Sdraiato sull’erba ingiallita, tra gli steli dei girasoli e l’assalto delle mosche, con il caldo che aumenta – l’arsura del sole, le lusinghe del motore – provo una sensazione straordinariamente intensa del nostro bisogno implacabile di piegare la natura alla nostra volontà, nel bene e nel male. Nell’aria c’è puzza di fertilizzante, degli escrementi che spargiamo per coltivare i campi. La magia del volo, il ciclo dello sterco e delle proteine, i nostri complicati tentativi di riparare i danni: che creature siamo! Fritz continua a fare giri, orbite che passano come giorni.

Con il cuore in gola

Gli uccelli si rimettono in formazione dietro l’ultraleggero. Tutti partono verso sud, allontanandosi. “Komme, komme, waldi”. Sta succedendo. Il cuore mi balza in petto. Ma dopo pochi istanti sono di nuovo qui, senza la loro scorta. Il deltaplano, quasi fuori dalla portata d’orecchio, punta verso il mare. Forse Fritz si è arreso e sta fuggendo con Helena alla volta di Ibiza. Fanculo le vostre papere. Poi torna indietro e atterra. Helena scende e conduce gli uccelli nella voliera. Entrano subito, impazienti di ritrovare il conforto della gabbia, come cani durante un temporale.

Si ricomincia a teorizzare. Erano partiti troppo tardi? Era colpa di Helena? A giudicare dalle accuse arrivate via radio, le madri adottive si erano irritate per il posizionamento di alcune videocamere e la presenza di un fotografo di un club ornitologico locale. La troupe si riunisce ai margini del campo, consapevole di essere sotto tiro. Schiffman, con il sorriso che sfodera quando è particolarmente ansioso, mi fa cenno di avvicinarmi e indica il recinto. “Ma che cazzo”, dice. “C’è una sola regola!”.

Una tenda è appesa al sole ad asciugare. La mia. Un lato è giallo acceso.

Davanti all’hangar, ancora in tuta, Fritz tira le somme. “È molto strano”, dice. “Non chiedetemi per quale motivo si comportano così. Ci servirebbe un seminario”. La squadra si riunisce nel gazebo dove si mangia. Le madri adottive, le oracole del waldi, sono nervose e, contro ogni buonsenso, in cerca di un colpevole. Uno dei produttori si scusa per il posizionamento di una videocamera: “È stato sicuramente un errore. Mi dispiace tanto”.

“Non è il motivo ma è un elemento”, dice Helena. “Si distraggono facilmente”. Nessuno accenna alla mia tenda gialla.

“No, no, non preoccupatevi”, dice Fritz alla troupe. Si rifiuta di dare la colpa a qualcuno, tranne forse a questo lotto di uccelli. “Non c’è mai un solo motivo”, mi dice. “C’è stato un cambiamento complesso nella psicologia degli uccelli. Quelli che avevamo a Narbona sembravano altri esemplari. Ora sono cambiati di nuovo. È un esempio molto affascinante di dinamica di gruppo in un contesto sociale”. Pensa che negli uccelli, come negli umani, le ragioni possano essere “endocrinologiche”.

La migrazione è comunque in anticipo di sei giorni rispetto all’anno scorso, perciò Fritz decreta che non approfitteremo del bel tempo per permettere agli uccelli di “resettare” la loro psicologia. “Dobbiamo lasciare che cambino. Dobbiamo fare attenzione agli aspetti nutrizionali. In passato abbiamo aumentato la quantità di insetti. Più grilli. Hanno bisogno di calcio e vitamine”. “Dobbiamo ordinare più vitamine”, conclude Helena.

Quella sera, senza volo in programma per il giorno dopo, e quindi senza sveglia prima dell’alba, alcune persone della troupe organizzano una piccola festa, con spritz all’Aperol comprati in un supermercato del vicino paese di Figueres.

Schiffman, di un umore frizzante, insiste per mettere Fly away home, la colonna sonora del film. “Questa canzone! La adoro! Eccola. Sì! Andrà tutto bene!”, dice. Dopo un po’ Helena, appena uscita dalla voliera e diretta alla doccia, ci passa accanto e comincia a fare il verso dell’ibis, un risucchio gorgogliante, una specie di sorsata in registro acuto. E loro creano un’inquadratura di Helena nel bel mezzo di una burrasca, accovacciata in un campo aperto con decine di uccelli stretti intorno a lei, come se fosse una roccia o un albero.

Cinquantuno giorni

Passa qualche settimana e dopo una faticosa traversata della Spagna, giornate di tentativi falliti e uccelli riluttanti, rischiarate da momenti di benedizione e trionfo, gli ibis arrivano in Andalusia. In tutto la migrazione è durata cinquantuno giorni, con diciannove tappe per un totale di più di 2.700 chilometri, la più lunga affrontata da Fritz e con il numero più alto di uccelli. Alcuni concedono un ultimo volo cerimoniale, un volteggio finale a favore di videocamere e autorità, come la conclusione parigina del tour de France. E poi vanno a incontrare i loro predecessori e i cugini non migratori a Cadice. Ce l’hanno fatta.

Ingrid, il loro pioniere, non è lì ad accoglierli. In primavera è partito verso nord, spinto apparentemente da quella vecchia smania migratoria. Un paio degli altri ibis trasferiti da Fritz avevano convinto alcuni non migratori di Cadice a volare con loro verso nord, proprio come lui aveva sperato, ma Ingrid era andato via da solo. Secondo il localizzatore volava per più di trecento chilometri al giorno. E poi, al quarto giorno, si era fermato.

Il suo cadavere è stato ritrovato sui Pirenei. Le analisi scientifiche indicano morte per predazione. Aviaria, non umana. Un’aquila, probabilmente. Una fine naturale. ◆ gc

Nick Paumgarten scrive per il New Yorker dal 2005. Si occupa di vari temi, dalla politica allo sport.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1625 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati