È successo nel bel mezzo della cerimonia. Anche se mia madre mi aveva obbligato a farla prima di uscire, ho sentito che mi scappava di nuovo la pipì. Conoscevo la casa, ma se andavo subito in bagno rischiavo di fare una figuraccia. Si sarebbe capito che tra me e Mojdeh c’era già stato qualcosa e avrei fatto saltare tutta la nostra montatura. Io, in teoria, l’avevo notata all’università, avevo trovato il suo numero e l’avevo dato a mia madre perché chiamasse la sua per una proposta di matrimonio. Nel pieno rispetto delle tradizioni. Così sarei stato più simpatico a suo padre, aveva detto Mojdeh. Durante quel nostro primo incontro, si fa per dire, ho tenuto la testa bassa tutto il tempo, con l’etichetta della camicia nuova che mi pungeva il collo. Mi sono permesso di alzare lo sguardo solo dopo lunghe pause di silenzio o quando veniva offerta la frutta. Poi ha cominciato a scapparmi la pipì.

Stavo avendo una delle mie precoci coliche renali per cui anche stare composto su una sedia diventava un problema. In via preventiva avevo preso tre pillole di Brufen da 400 milligrammi, che però funzionano solo per controllare il dolore, non la vescica. E il contesto era quello di una proposta di matrimonio in cui si beve un bicchiere di tè dietro l’altro. Non ho neppure mancato di arrossire timidamente e d’infondere ai miei gesti un lieve tremolio. Un magistrale sfoggio di buone maniere. Solo Mojdeh, al mio rifiuto di una zolletta di zucchero, si è lasciata sfuggire: “Lo sposo è a dieta, papà!”, che stonava parecchio in quell’atmosfera d’infiniti silenzi, cortesie e ossequi.

Mi sono trattenuto come al compleanno di Reza. Reza aveva gonfiato le labbra mentre noi eravamo disposti a semicerchio dietro di lui come si usava all’epoca, con le mani pronte ad applaudire non appena lui avesse soffiato sulle candeline. La foto doveva averla scattata suo padre. Alle nostre spalle c’erano delle modeste tende di canapa che c’entravano poco con il resto dell’ambiente popolato da cuscini ricamati, copridivano lavorati all’uncinetto e tovaglie di calicò con decori a boteh. Mi ero sfilato dall’inquadratura ed ero andato dalla madre di Reza, che era una donna dal volto impassibile ma spiritosa. Il suo aspetto era pieno di contraddizioni: per esempio, in faccia era paffutella però aveva un corpo longilineo. Indossava un vestito di cinz ricamato con violette e rametti di vite gialli e verdi che sostenevano il seno, mentre le maniche erano percorse da fili dorati. Teneva una sigaretta accesa tra le dita ed era intenta a misurare a occhio i bambini per capire se le cotolette e i piroshki sarebbero bastati per tutti. Era una donna imparziale e non aveva concesso una razione in più nemmeno a Reza. Quando aveva visto che mi dondolavo da un piede all’altro davanti a lei, era venuta a sedersi di fianco a me nascondendo la sigaretta dietro la testa. “Non vuoi fare la foto?”, mi chiese.

Girai la testa e vidi gli altri bambini che battevano le mani dentro l’inquadratura. La madre di Reza si portò la sigaretta alla bocca, strinse gli occhi per non far entrare il fumo e cominciò a battere le mani con solo due dita, come era l’abitudine in tempo di guerra. In quella foto io non ci sono, né in nessun’altra foto del compleanno di Reza Deldar-Nik.

“Devo andare in bagno”, le dissi. La mamma di Reza si alzò, lasciò la sigaretta ancora accesa con il filtro imbrattato di rossetto nel posacenere sopra la libreria e mi accompagnò in bagno. Era una villetta a schiera in un complesso con giardino. Fuori le case erano delimitate da basse recinzioni metalliche che davano sul prato. Salimmo al piano superiore e la madre di Reza aprì la porta del bagno. Era stato tirato a lucido e brillava tutto. Sulla mensola dello specchio c’era un sacchettino di pizzo pieno di fiori secchi e perfino i rubinetti, in una città come Rasht dove l’umidità fa arrugginire tutto, erano smaglianti.

“Ce la fai da solo?”, mi chiese. Le feci di sì con la testa.

“Aspetto qui dietro la porta. Chiamami se hai bisogno”.

Negli anni della recessione economica, in cui pochissime persone si potevano permettere un vestito su misura, il nonno mi aveva confezionato una giacca blu con tre bottoni. Siccome non era abituato a fare abiti maschili, la vita era stretta come un corsetto. Sulla tasca c’era cucito uno stemma che ricordava le divise di certi college inglesi, anche se io andavo in prima media alla Shahid Mostafa Karimi, una scuola statale vicino all’istituto dove insegnava mia madre. Mi lasciava a scuola mentre andava al lavoro e mi recuperava al ritorno. La mattina facevamo colazione insieme e per tutto il tragitto cercava di pigiarmi il berretto di lana fino alle orecchie. Appena si distraeva, facevo rispuntare fuori le orecchie liberandole con un dito e quando lei se ne accorgeva dicevo: “Questo berretto non è abbastanza stretto, continua a scivolare via!”.

Quel giorno ero l’unico a indossare una giacca, ma non saprei dire se lo stemma sulla tasca era un cerchio, un ovale o uno scudo, dato che non compaio in nessuna foto del compleanno di Reza. Tutti gli altri portavano dei maglioni fatti dalle loro madri (ultimi riverberi delle lezioni di economia domestica impartite alle donne degli anni settanta). La giacca era molto d’intralcio per fare pipì. Volevo rimanere in piedi, ma poi mi ricordai che la mamma di Reza era dietro la porta e probabilmente avrebbe sentito il rumore del getto che cadendo dall’alto schizzava sulle piastrelle azzurre del bagno. La madre di Reza era terribilmente pignola. Una volta si era presentata a scuola perché il figlio non si era lavato i denti. Si era infilata sciarpa e cappello, era venuta a scuola, aveva fatto irruzione in classe e gli aveva lavato i denti davanti a tutti. Senza dare spiegazioni, senza nemmeno chiedere il permesso alla maestra. Era semplicemente entrata in classe con il bicchiere a fiori arancioni che avevo visto una volta sulla mensola dello specchio a casa di Reza, aveva passato una punta di dentifricio sullo spazzolino e poi aveva preso a spazzolargli i denti proprio come ci avevano insegnato all’asilo. Prima su e poi giù, poi a destra e poi a sinistra. Infine gli aveva dato un bicchiere d’acqua per fare i risciacqui, lui aveva risputato nel bicchiere e poi lei era uscita. Avevamo fatto come se niente fosse. Noi 31 alunni più la maestra Masumzadegan. L’unica prova di quel momento era la sciarpa che la madre di Reza aveva dimenticato sul banco mio e di Arash Shafati dopo essersela sfilata perché le era d’intralcio nell’operazione.

Con la giacca raccolta tra le mani, tirai giù la zip dei pantaloni e mi accovacciai. Ero tutto concentrato a non fare rumore, quando sentii il profumo. Era un profumo che c’era anche prima, ma ero così teso per la pipì che non me n’ero accorto. Ora, nel sentire scorrere la pipì, quello si era manifestato. Qualcosa andava via e qualcosa prendeva il suo posto. Così gira il mondo. Il nulla non esiste. Il nulla, ovvero ciò che non c’è, in realtà si trova altrove. Forse non è l’esempio migliore, ma alla pipì subentrò il profumo del deodorante Trax del bagno di Reza Deldar-Nik. Il quale, dentro di me, si associò subito al concetto di ricchezza. Del resto della festa conservo un vago ricordo. O più precisamente, gli altri ricordi non contano nulla in confronto all’epifania del bagno. Quando uscii, la madre di Reza non c’era più. Era una donna severa e giusta, però non così fedele alle promesse che faceva. L’anno dopo e gli anni dopo ancora, Reza non avrebbe più dato feste di compleanno e sua madre non si sarebbe più presentata a scuola per lavargli i denti. Più tardi seppi che i suoi genitori avevano divorziato.

Non ce la facevo più, allora mi sono portato una mano al fianco e ho fatto un cenno a Mojdeh, che però non ha capito. Aveva accavallato le gambe e il suo vestitino beige era fin troppo corto e scollato per una proposta di matrimonio tradizionale. Tra i tormenti della pipì, ho pensato che forse si era messa d’accordo anche con sua madre oltre che con me. Dopo tre anni passati insieme, mi aveva messo in questa situazione per rinfacciarmi tutti i paletti che avevo fissato all’inizio della nostra relazione. Niente mazzi di fiori, niente cravatte. E non avrei fatto venire mia madre e mia sorella da Rasht apposta per conoscerla, inturbantate nella seta e fresche di manicure. Sua madre si mostrava sempre indisponente nei miei confronti. D’un tratto mi sono accorto di aver fatto tutte le cose che mi ero ripromesso di non fare. Invece Mojdeh, che una volta aveva scommesso che avrebbe indossato un mini abito decolleté alla nostra formalissima proposta di matrimonio, mi sedeva davanti vittoriosa con le gambe accavallate. Ho sentito una fitta. Non era una colica renale, era il bruciore della fregatura. Mi sono alzato, ho schiarito la voce e mi sono rivolto alla madre di Mojdeh: “Scusi, posso andare in bagno?”.

La madre di Mojdeh si è alzata immediatamente e ha indicato la strada con gentilezza. “Per di qui, figliolo”. Poi mi ha accompagnato al bagno e forse, non ricordo bene, mi ha aperto anche la porta. Assicurandomi che non ci sentisse nessuno, le ho sussurrato: “Alla fine è riuscita a fare quello che voleva”. E nel chiudere la porta le ho rivolto un sorrisetto, come per dire che presto l’avrei fatto anch’io. Almeno la pensavo così finché non ho fatto pipì e la fragranza del deodorante Trax mi ha inebriato le narici. Allora ho cambiato idea. Quel profumo cambia sempre il mio umore in meglio. Se la giornata va storta ecco la svolta, se mi alzo con le scatole girate tutto improvvisamente mi sorride. È così dal compleanno di Reza.

Chiara Dattola

“Mamma, noi siamo poveri”. Non ricordo di aver pianto. La povertà per me era una realtà fin troppo lampante. Mia madre mi aveva tolto la giacca ed esaminava le ditate di panna che Hamed Sanati mi aveva lasciato sulla schiena. “Mamma, noi siamo poveri”. Il mio tono non aveva nulla d’interrogativo, mi limitavo a informarla del fatto. “Chi te l’ha detto che siamo poveri?”, mi chiese lei. Lo dicevo io, lo pensavo io. Solo che a sette anni non si è in grado di argomentare fino in fondo le proprie idee. “Il cortile della casa di Reza è enorme, sembra quello della scuola”. Mia madre portò il dito sotto la stoffa dove c’era una macchia, poi raccolse la giacca in braccio come quando abbracciava mia sorella e uscì. La seguii. “E il loro bagno sa di buono!”.

Mia madre mi puntò il dito nascosto sotto la giacca mentre con l’altra mano versava un po’ di candeggina in una vaschetta di plastica. “La loro è una casa del governo figlio mio, la nostra invece è nostra. Siamo più ricchi”. Forse riuscivo anche ad accettare l’idea che i più ricchi eravamo noi, però può anche succedere che un bambino di sette anni non voglia credere a determinate cose o che preferisca pensare che le cose stiano come vuole lui. Così la ricchezza, dal mio punto di vista, non si giudicava in base a una casa di proprietà, allo stipendio mensile o a un impianto home theater da 64 pollici. Il vero indice di ricchezza, per me, era il deodorante Trax. Mia madre l’aveva cercato per tutto il bazar di Rasht. Nel 1986, nel bel mezzo della guerra, quando il formaggio bulgaro, il burro polacco e la carne congelata in Brasile comparivano quotidianamente sulle nostre tavole, quando giocavamo con console Atari americane e indossavamo scarpe da ginnastica cinesi, il deodorante Trax era introvabile e di conseguenza mi ero convinto che eravamo poveri. “Da loro lavora solo il capofamiglia, mentre io e il papà lavoriamo tutti e due”, disse mia madre. Ma cosa importa se lavorano entrambi i tuoi genitori quando nel tuo bagno non c’è il deodorante Trax? Mio padre era andato fino a Teheran per comprarlo. Mentre tutti scappavano dai bombardamenti, lui era rimasto tre giorni nella capitale a passare in rassegna mercati e profumerie in cerca del Trax. Era partito per comprarmi il sentore della ricchezza, ma non l’aveva trovato. Sono cresciuto povero tutta la vita. Ero convinto di essere povero e niente poteva farmi cambiare idea. È così che il profumo del Trax ha il potere di mettermi subito di buon umore, di farmi sentire ricco. La stessa sensazione che ho ritrovato nel bagno di Mojdeh mentre ero seduto a fare pipì.

All’inizio avevo in mente di andare a sedermi di fianco a suo padre e dire: “Io sono nullatenente, signor Shoeibi, però per lei farei anche il pastore!”. Era una battuta che ripetevamo spesso io e Mojdeh. Suo padre mi avrebbe concesso la figlia maggiore, Mina, solo se avessi lavorato sette anni per lui come pastore. Se volevo sposare Mojdeh, invece, avrei dovuto aggiungerne altri sette, dato che non era ancora in età da marito. Oppure pensavo di dire: “Signor Shoeibi, lei che al suo paese si divora un melograno intero con tutta la buccia, adesso come fa a sgranarlo con tanta pazienza?”. Il padre di Mojdeh ci teneva molto a come veniva servito il melograno e questo commento avrebbe rovinato irrimediabilmente la cerimonia. Ma ora questi piani erano svaniti. Sarei uscito, avrei abbassato umilmente la testa fino alla fine della cerimonia e l’avrei alzata solo una volta o due per rivolgere lo sguardo alla bocca di mio padre o del padre della sposa. Mi sarei impegnato a diventare il perfetto sposino di una famiglia che tiene il deodorante Trax nel bagno. Volevo assaporare la ricchezza almeno una volta nella vita.

Mentre mi riallacciavo la cintura, mi sono portato la mano al colletto e ho sistemato l’etichetta della camicia. Mi sono dato un’abbondante spruzzata di deodorante Trax sul petto e sono uscito. Arrivato in soggiorno ho trovato tutti già alzati che aspettavano solo me. Mia madre mi ha lanciato un’occhiata furiosa, dopo di che si è diretta alla porta seguita da mia sorella e mio cognato. Mio padre, che sbocconcellava ancora in piedi un grappolo d’uva reggendo in mano un piattino, li ha seguiti. Poi si è ricordato del piattino, lo ha appoggiato sulla mensola del telefono ed è andato a infilarsi le scarpe.

Mojdeh non c’era, suo padre era paonazzo e sua madre mi guardava spaventata. “È successo qualcosa?”, ho chiesto. Era una domanda stupida, era ovvio che fosse successo qualcosa, qualcosa stava succedendo proprio davanti ai miei occhi. Mia madre ha gridato dalle scale: “Mohammad Aqa vieni, andiamo via!”. Quando sono arrivato alla porta, mio padre, mia madre, mia sorella e suo marito non c’erano più. Mi avevano lasciato solo. Mi sono girato, ma dietro non c’era più nessuno. Né Mojdeh né suo padre, sua madre o le sue due sorelle. La porta si era chiusa non si sa come. Sono rimasto lì sulle stesse scale che una volta, scarpe in mano e pantaloncini, avevo salito fino al tetto per nascondermi dal padre di Mojdeh che era tornato senza preavviso da un viaggio a Sirjan. La luce si è spenta e sono rimasto al buio.

Sono salito di nuovo sul tetto con le scarpe in mano e con addosso i pantaloni grigi, e mi sono seduto sulla superficie di catrame. Ho appoggiato le scarpe lì a fianco e ho esalato quel che restava del Trax inalato in bagno. Non ricordo quante ore sono rimasto lì a guardare le luci di Teheran. Forse nemmeno un’ora, ma per me il tempo si è dilatato. Mia madre è venuta a sedersi di fianco a me. Indossava il cappotto delle occasioni speciali, dei pantaloni di velluto a costine e un foulard di seta. Mi sarebbe piaciuto se anche gli altri partecipanti della cerimonia fossero saliti uno alla volta sul tetto per sedersi nel buio a guardare le luci di Teheran. E poi, al posto di mandare i futuri sposi in una stanza a parlare del loro futuro, sarebbe stato bello se tutti fossero rimasti zitti. Chi resisteva di più senza parlare e senza muoversi avrebbe vinto la cerimonia. In palio per loro c’era una cascata di monete d’oro, per noi una dote consistente. Però non è arrivato più nessuno. Mia madre è rimasta lì seduta in silenzio senza cedere, finché io non ho più resistito e ho perso il gioco.

“Cos’è successo mentre non c’ero?”.

“Ti ricordi quando da piccolo ti eri impuntato con il deodorante Trax?”.

Certo che mi ricordavo, come potevo dimenticare? Erano ventitré anni che la mia vita girava attorno a quello, anche se preferivo far finta che non fosse così. Qualcosa in me mi spingeva a ribellarmi, a mentire, negare. Un uomo seduto sul tetto di un lussuoso attico in piazza Narmak non dovrebbe ricordarsi dei sacrifici di sua madre.

“No!”. In realtà non ho risposto esattamente così. Mi sono limitato a rivolgere una vaga occhiata alla finestra illuminata di una casa in lontananza e poi ho fatto scivolare lo sguardo sul volto di mia madre in un modo che poteva dire no come non dirlo. Ho lasciato decidere a lei, che mi ha dato una carezza sulla testa.

“Ti ricordi che te ne avevo trovato uno usato a metà dopo che tuo papà era tornato da Teheran a mani vuote?”.

“Devo andare in bagno”, le dissi. La mamma di Reza lasciò la sigaretta ancora accesa con il filtro imbrattato di rossetto nel posacenere e mi accompagnò in bagno

“Ma aveva perso il profumo”. Nel dirlo mi sono accorto che avrei dovuto prolungare un po’ di più la scena, avrei dovuto far finta di non ricordarmi subito di quel dettaglio. Non avrei dovuto rispondere così in fretta, ma ormai mi ero tradito. Chissà da dove aveva ripescato quella bomboletta di Trax mezza vuota.

Fatto sta che quando avevamo provato a spruzzarla non rilasciava lo stesso buon sentore di ricchezza che mi aveva inebriato nel bagno di Reza Deldar. Mi sono sottratto alle carezze e le ho chiesto con tono ribelle: “Quella patacca che cavolo era?”.

“Non riuscivamo a trovarne uno nuovo, così sono andata a casa di Reza e ho chiesto a sua madre se me ne dava uno dei suoi. Era una grande snob, ma davvero non ne avevano più. Era rimasto solo un Trax già aperto che tenevano in bagno. Le ho detto di darmi quello. Però in cambio mi ha fatto uncinettare tutte le tende di casa loro”.

“Che vuol dire uncinettare?”.

“All’inizio non mi ha detto che le mancavano. Casa loro l’hai vista, ti ricordi. Era proprio snob. Con tutti i copridivani, i cuscini e le tovaglie ricamate. Se non faceva il bucato, sferruzzava. Non aveva nient’altro da fare, faceva la casalinga. Io invece oltre a badare a voi insegnavo a scuola. Ti ricordi la nostra casa di via Mariam, pareva il mare. Con tutto quello che compravamo di mobili, sembrava vuota lo stesso. Erano venuti a trovarci al tuo compleanno e lei aveva notato che avevo ricamato le tende dell’ingesso e del soggiorno. Per farle disfavo la trama e l’ordito del tessuto. Non ti ricordi le tende color crema dell’ingresso e quelle marroni del soggiorno?”.

Delle tende della mia infanzia conservavo un ricordo sfocato. Le tende di velluto verde del salone centrale, dietro le quali nascondevamo i libri e le cianfrusaglie di mio padre. Le tende rosa della camera matrimoniale. Le tende a rombi gialli e arancioni della cucina. Le tende blu di nylon della doccia. Le tende color pesca della stanza di Safura, la figlia dei vicini davanti. Non mi ricordavo le tende crema dell’ingresso, né quelle marroni del soggiorno.

“È uno di quei lavoretti femminili che richiedono occhio e pazienza. Le mie me le sono ricamate tutte io. Ma tua zia Shahla ha speso quarantamila tuman per farle fare. La madre di Reza aveva detto che se le facevo le tende all’uncinetto, mi avrebbe dato uno dei loro deodoranti. Ho perso una settimana a preparargliele e lei ci ha rifilato quella bomboletta mezza vuota. Ha fatto la furba. Ha giurato che il giorno stesso che ci eravamo messe d’accorto l’aveva infilata in un sacchetto di plastica per non farle perdere il profumo. Solo che era rimasta solo quella, mentre io ormai avevo finito il lavoro. E così l’ho presa lo stesso, per te”.

Avrei dovuto affogarla in un mare di baci per quel sacrificio che aveva fatto per me ventitré anni prima. Avrei dovuto accarezzarle i capelli e aiutarla a scendere le scale. Però mi doveva ancora dire cos’aveva mandato all’aria la proposta di matrimonio mentre ero assente.

Mi sono sforzato di sembrare sul punto di piangere, ho incrinato la voce e le ho chiesto: “Tu che sei stata così buona con me, dimmi, cos’è successo stasera?”.

Mia madre si è alzata e si è rassettata il cappotto. “Sono degli snob. Sarebbe andata a finire come con la madre di Reza”.

Non so dopo quanto tempo, mi sono alzato. Mi sono alzato e ho cominciato a dimenticare Mojdeh. Per prima cosa mi sono sbarazzato di tutti i vestiti, poi delle cose che avevamo comprato insieme. Uno zaino, delle graffette nere per tenere insieme i miei appunti, una tazza marrone, un tappetino da bagno e uno spazzolino elettrico. Per tre mesi non l’ho chiamata, né lei mi ha cercato. E nemmeno ci siamo incontrati per caso all’università o al Café Art o in viale Enqelab. I luoghi dove ci frequentavamo si stavano sgretolando per conto loro, non potevo farci niente. Prima di tutto il ristorante Part, dove pranzavamo tutti i mercoledì. Poi la farmacia Ettehad in viale Pakistan, dove avevo comprato dei cerotti quando le scarpe troppo strette le avevano ferito un piede. Ci eravamo seduti su una panchina vicino al canale, le avevo messo un cerotto sul tallone e lei mi aveva baciato le dita. Poi lo studio fotografico Delouze, dove avevamo scattato le fototessere per i nostri esami di ammissione alla magistrale. E infine la pasticceria Shemshad. Tutti questi luoghi si erano sgretolati davvero lasciando un gran vuoto, come quello di un dente mancante in mezzo a una fila di denti sani.

Poi all’improvviso l’ho rivista. Passavo con Jaleh di fianco alla libreria dell’università e le stavo spiegando come poteva illustrare uno dei miei racconti. Più che altro la stavo corteggiando. Il racconto non l’avevo ancora scritto, me lo stavo inventando man mano che descrivevo le illustrazioni, quando ho visto Mojdeh che mi veniva incontro. Si era voltata stizzita, come per dire che m’ignorava. Ma alla fine non ha resistito e quando si è avvicinata, si è girata verso Jaleh e ha gridato: “Ti devi riprendere il bouquet, Tolouei! E dallo a chi diavolo ti pare!”.

Poi si è voltata di nuovo verso il muro della libreria e ha accelerato il passo.

Jaleh ha chiesto: “E quella chi era?”.

“Era Mojdeh”, ho risposto. “Dovevamo sposarci, ma mia mamma ha detto che non faceva per me”.

“Per te quello che dice tua madre conta molto”.

“Quello che dice può contare una volta, mica può dire la sua su tutte le ragazze che trovo”.

Jaleh si è girata a guardare Mojdeh che si allon­tanava.

“Era arrabbiata”.

“Non credo che abbia mai capito cos’è un ricamo all’uncinetto”. ◆ gl

Mohammad Tolouei è uno scrittore iraniano. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Le lezioni di papà (Ponte33 2019). Questo racconto è uscito sul mensile iraniano Dastan con il titolo Tavallod-e Reza Deldar-Nik.

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Questo articolo è uscito sul numero 1409 di Internazionale, a pagina 116. Compra questo numero | Abbonati