Il corpo di suo figlio era ancora caldo quando l’uomo è stato minacciato dagli uomini dell’agenzia funebre. Nella camera ardente di un austero ospedale di Lamezia Terme, in Calabria, neanche i morti vengono lasciati in pace. Ormai sono diventati una merce preziosa, che per le organizzazioni criminali più spietate vale migliaia di euro.
I dipendenti dell’agenzia funebre sapevano della morte di un paziente prima ancora che la famiglia fosse informata. Usando metodi intimidatori, riuscivano ad avere accesso alle cartelle cliniche dell’ospedale e a capire quali fossero i malati più gravi. Se i parenti sceglievano un’altra agenzia, li costringevano a cambiare idea. “Arrivano quasi a picchiarsi per assicurarsi un malato”, dice un infermiere terrorizzato a un collega durante una conversazione registrata dagli investigatori dell’autorità antimafia. Il personale medico non aveva il potere di intervenire. “Si comportano in modo vergognoso”, dice l’infermiere. “Quando sono arrivati, i parenti li hanno trovati già lì”.
La ’ndrangheta – una mafia poco conosciuta fuori dall’Italia, ma diventata una delle imprese criminali a livello internazionale più pericolose e finanziariamente sofisticate del mondo occidentale – si era infiltrata in quell’ospedale pubblico.
Negli ultimi vent’anni le principali famiglie della ’ndrangheta hanno esteso le attività oltre i confini della Calabria, la loro regione d’origine. Oggi controllano buona parte dell’importazione di cocaina in Europa, il contrabbando delle armi, l’estorsione e il riciclaggio di denaro all’estero. Alcune centinaia di clan, tra loro autonomi, sono ormai delle imprese italiane di maggior successo. Secondo alcuni studi, il loro fatturato annuale è di 44 miliardi di dollari, e secondo la magistratura è superiore a quello di tutti i cartelli della droga messicani messi insieme.
Ma nonostante gestiscano già tutte queste attività criminali così redditizie, la possibilità di estorcere denaro alla sanità pubblica italiana è una tentazione irresistibile. Corrompendo le amministrazioni locali, la criminalità organizzata è riuscita a ricavare enormi profitti dai contratti affidati alle sue aziende di facciata, stabilendo monopoli su servizi che vanno dal trasporto dei pazienti in ambulanze malridotte al trasporto del sangue e alle onoranze funebri.
Miliardi di euro
Tutti servizi messi in conto ai contribuenti italiani attraverso il servizio sanitario nazionale, finanziato dallo stato ma amministrato dalle regioni, che ogni anno distribuisce miliardi di euro: un tesoro senza pari per la criminalità organizzata. Il controllo della ’ndrangheta sull’ospedale di Lamezia Terme era così stretto che i suoi uomini avevano le chiavi dei reparti, e i medici erano costretti ad aspettare fuori che aprissero.
L’inchiesta condotta dal Financial Times ha scoperto in che modo il denaro guadagnato con queste attività criminali è stato riciclato in centri della finanza come Londra e Milano.
Negli ultimi cinque anni i soldi guadagnati grazie alle sofferenze dei pazienti negli ospedali calabresi sono stati investiti in strumenti di debito, usando i sistemi di ingegneria finanziaria tipici dei fondi speculativi e delle banche di investimento. Centinaia di milioni di queste obbligazioni, molte basate su fatture false firmate da aziende sanitarie in cui, come si è scoperto in seguito, si era infiltrata la criminalità organizzata, sono state vendute a investitori internazionali, tra cui banche private italiane e fondi pensione sudcoreani.
Quando ha cercato di lavorare in altre regioni i suoi camion sono stati incendiati
L’uso dei mercati finanziari da parte dei clan mafiosi che hanno tratto profitto dalla crisi sanitaria calabrese dimostra fino a che punto una sottocultura criminale, un tempo derisa perché considerata tipica dei pastori delle montagne, sia diventata un regno del crimine globale in grado di muoversi con la stessa disinvoltura sia nel mondo dell’alta finanzia sia quando estorce denaro a piccole aziende locali. L’unico modo per capire perché la ’ndrangheta è diventata una delle organizzazioni criminali di maggior successo nel mondo è osservare come la sua agile struttura imprenditoriale, basata sui legami di sangue, si adatti a mantenere il controllo sulla vita pubblica calabrese.
La Calabria è la regione più povera d’Italia e dell’Unione europea. Ha una popolazione di due milioni di persone e un prodotto interno lordo pro capite di 17.200 euro, la metà della media europea. In una nota diplomatica statunitense del 2008 si legge: “Se non facesse parte dell’Italia, la Calabria sarebbe uno stato fallito. La ’ndrangheta ”, prosegue la nota, “controlla l’economia di vaste aree del suo territorio, e il suo patrimonio rappresenta come minimo il 3 per cento del pil italiano (forse molto di più) grazie al traffico di droga, all’estorsione e all’usura”.
Dieci anni – e tre recessioni – dopo, l’economia locale è peggiorata e a livello nazionale la regione è all’ultimo posto in base a quasi tutti i parametri. La disoccupazione è passata dal 12,9 per cento del 2010 a più del 20 per cento di oggi.
Per decenni quasi nessuno in Italia ha prestato attenzione alla ’ndrangheta, il cui nome deriva da una parola greca che significa “coraggio”. Ma a metà degli anni novanta la ’ndrangheta ha avuto un’enorme opportunità. In Sicilia cosa nostra era devastata dalla incessante campagna antimafia dello stato, e i calabresi hanno approfittato dell’occasione per rilevare i suoi contatti con i cartelli della droga latinoamericani.
Le famiglie che fanno parte della ’ndrangheta non sono organizzate in una struttura centralizzata piramidale come quelle di cosa nostra, ma operano in unità autonome dette ’ndrine, radicate nel territorio. L’appartenenza alle ’ndrine si basa essenzialmente sui legami di sangue o sui matrimoni incrociati tra i componenti dei vari clan, a differenza di quanto avviene in cosa nostra o nella camorra. Questo ha reso la ’ndrangheta più resistente di altri gruppi criminali alla penetrazione dello stato nelle sue attività. I patriarchi decidono quali componenti del clan arrivano ai livelli più alti dell’organizzazione, e i figli di solito prendono il posto dei padri se questi vengono arrestati o uccisi. A marzo di quest’anno Rocco Molè, 25 anni, rampollo di una delle più note famiglie criminali calabresi, la ’ndrina Molè del porto di Gioia Tauro, è stato arrestato con l’accusa di aver importato un carico di 500 chili di cocaina nascosti in contenitori di plastica.
Da quando alcune ’ndrine sono diventate enormemente ricche, gli esponenti delle nuove generazioni hanno assunto un aspetto molto diverso da quello dei banditi di campagna dell’epoca dei loro nonni. Grazie ai soldi in circolazione e a operazioni finanziarie complesse, è nata una nuova classe di malavitosi in grado di applicare le teorie economiche più recenti per gestire un’organizzazione criminale globale.
Competenze tecniche
“Alcuni dei più giovani che sono cresciuti con me sono laureati alla London school of economics o ad Harvard. Qualcuno ha addirittura un master”, spiega Anna Sergi, criminologa di origini calabresi dell’università dell’Essex. “Vivono fuori dalla Calabria e si presentano come uomini d’affari rispettabili, non sono direttamente coinvolti nelle attività illegali minori, ma quando serve mettono a disposizione le loro competenze tecniche”.
Questa sempre maggiore competenza finanziaria è accompagnata da metodi brutali di disciplina interna. Chi è accusato di aver screditato il nome della famiglia rischia di essere assassinato dai suoi stessi parenti.
Nel 2011 una ragazza è morta in preda a dolori atroci dopo aver bevuto dell’acido cloridrico. Il padre, la madre e il fratello sono stati arrestati per i maltrattamenti inflitti alla donna perché gli investigatori non sono riusciti a dimostrare l’accusa più grave, averla costretta a bere l’acido per punirla di aver parlato con la polizia. Anche se ci sono stati conflitti violenti tra le famiglie rivali, la collaborazione è considerata utile agli affari. Si sa molto meno del funzionamento interno della ’ndrangheta rispetto a quello delle altre mafie, ma gli investigatori hanno scoperto che esiste un comitato centrale addetto alla risoluzione dei conflitti, formato dai rappresentanti più anziani delle ’ndrine più grandi.
Secondo gli investigatori, succede spesso che diverse famiglie mettano insieme le loro risorse per finanziare operazioni congiunte, in particolare quelle per far passare alle frontiere carichi di cocaina da centinaia di milioni di euro.
È attraverso lo spietato controllo sull’attività economica di un territorio che le famiglie formano una base per espandere rapidamente le loro attività criminali all’estero, reinvestendo i profitti dell’estorsione nel redditizio traffico di droga e in altre operazioni illegali. In Calabria chiunque si oppone apertamente ai clan rischia la vita o di essere pubblicamente minacciato. In alcuni casi l’ombra della ’ndrangheta lo segue in casa e in qualsiasi altro posto vada per cercare di sfuggirle.
Gaetano Saffioti, 59 anni, è il proprietario di una fabbrica di cemento a Palmi, un centinaio di chilometri da Catanzaro, il capoluogo della regione. Diciotto anni fa è stato uno dei pochi imprenditori calabresi a testimoniare contro un clan della ’ndrangheta che gli aveva estorto del denaro. Oggi vive sotto protezione.
Negli anni successivi la sua azienda non ha mai ottenuto neanche un contratto in Calabria. Quando ha cercato di lavorare in altre regioni i suoi camion sono stati incendiati. Quando ha ottenuto un contratto in Francia è successa la stessa cosa. “Chiedono una parte di quello che guadagni, è una tassa che tutti devono pagare. Non puoi vendere un appartamento senza pagarli, non puoi aprire un negozio senza il loro permesso”, mi spiega al telefono. “Distruggono l’economia della regione”, aggiunge. “Diventiamo sempre più poveri, ma è proprio quello che vogliono. Più siamo deboli, meno c’è il rischio che qualcuno opponga resistenza. La ’ndrangheta è entrata dentro di noi, nella nostra mente. La maggior parte delle persone si adatta semplicemente al sistema”.
Il procuratore Nicola Gratteri, 61 anni, è nato in Calabria e ci ha vissuto per quasi tutta la vita, ma non ha idea di come sia oggi l’ambiente intorno a lui. A causa del suo impegno contro la ’ndrangheta, è sotto protezione dal 1989 e non può lasciare il suo ufficio di Catanzaro senza una guardia del corpo. Quasi tutti i giorni mangia da solo e la sera lavora fino a tardi: “Non conosco la città in cui vivo”, dice. “Non posso avere rapporti normali con le persone. Non posso andare al cinema. Non posso fare una passeggiata o andare alla spiaggia, che dista sei chilometri da casa mia. Esco la mattina, mangio in ufficio e poi torno a casa”.
Da bambino Gratteri andava a scuola con il figlio di un uomo che fu assassinato dalla ’ndrangheta . Un’altra bambina della sua classe era la figlia di un famoso boss. Uno dei suoi amici d’infanzia è entrato in un clan. Vari decenni dopo che avevano giocato insieme, Gratteri ha finito per essere il suo accusatore in tribunale.
Il fallimento dello stato
Il magistrato vive ogni giorno nella consapevolezza di avere la morte alle calcagna. La polizia ha sventato diversi tentativi di ucciderlo. Nel 2005 ha scoperto un deposito segreto di armi, tra cui kalashnikov, lanciarazzi ed esplosivi al plastico, che dovevano servire per uccidere lui e le sue guardie del corpo.
Dato che continua a raccogliere le prove in procedimenti contro le principali famiglie mafiose calabresi, il numero delle persone che lo vogliono morto aumenta. “Mi hanno dato nuove auto che dovrebbero resistere agli esplosivi, più protezione in casa e lungo la strada che percorro per venire in ufficio”, racconta. “Sto molto attento. Cerco di evitare situazioni pericolose, ma ultimamente è diventato più difficile”.
La sanità pubblica calabrese è il ramo della vita pubblica in cui “il sistema” che Gratteri sta combattendo opera in modo più evidente. Le grandi somme di denaro che circolano nel settore creano il terreno ideale per far convergere gli interessi della politica corrotta e della criminalità organizzata.
Anni di ruberie nel sistema sanitario calabrese hanno avuto effetti devastanti
“In Calabria, la storia della sanità riflette il fallimento dello stato”, dice Sergi. “Ogni volta che emerge una nuova corrente politica qualcuno viene arrestato, e si tratta sempre di vicende che hanno a che fare con il sistema sanitario. Da generazioni la sanità è il punto debole della Calabria”.
Sono aumentati i profitti che le famiglie ricavano dall’estorsione, dal traffico di droga e dalle frodi allo stato, e quindi è stato necessario trovare modi sempre più complessi per riciclare questo denaro. Secondo Claudio Petrozziello, il rappresentante della guardia di finanza italiana nel Regno Unito, che passa le giornate a indagare su come il denaro sporco delle organizzazioni criminali viene riciclato nella capitale della finanza europea, Londra è una delle principali destinazioni dei soldi della ’ndrangheta.
Il compito di Petrozziello sta diventando sempre più difficile perché la linea di separazione tra criminali mafiosi e finanzieri in giacca e cravatta, laureati in economia, è sempre più sottile. “La gente pensa ancora ai mafiosi come estorsori e spacciatori, ma molti di quelli che si occupano di far uscire i soldi dalla Calabria hanno l’aspetto di eleganti uomini d’affari. Si mescolano facilmente con chi lavora in una banca d’affari o con i manager delle multinazionali”, spiega Petrozziello.
Fondi speculativi
Il modo in cui i soldi rubati agli ospedali calabresi sono stati dirottati verso il sistema finanziario internazionale dimostra come si siano evoluti i metodi della ’ndrangheta nelle sue attività illegali. Dopo aver fatto una serie di interviste e analizzato documenti finanziari e legali, il Financial Times ha scoperto che i clan usano un vasto sistema per mettere in circolazione i loro soldi.
I proventi degli orrori della corruzione negli ospedali sono impacchettati da ignari intermediari finanziari e mescolati con altri titoli dentro titoli di debito, che passano poi per la borsa di Londra, in Lussemburgo o per la borsa di Milano. E in alcuni casi finiscono nei portafogli dei clienti delle banche private e nei fondi speculativi.
Dal 2015 al 2018 gli intermediari finanziari hanno comprato centinaia di milioni di euro in fatture firmate dalle autorità sanitarie calabresi a corto di denaro. Questi mediatori hanno comprato dai fornitori le fatture non pagate a prezzo scontato, perché erano garantite dallo stato italiano. Poi le hanno rivendute a società finanziarie specializzate che le hanno inserite in pacchetti di titoli e hanno venduto agli investitori obbligazioni sostenute dalle fatture non pagate. Anche se molte aziende italiane usano questo sistema per recuperare i crediti che hanno con le autorità sanitarie regionali, la complessa catena di intermediari lo rende vulnerabile e quindi facile da sfruttare per la criminalità organizzata. E infatti alcune aziende sanitarie della Calabria sono state successivamente commissariate dallo stato per infiltrazione mafiosa. Vari anni dopo la vendita delle fatture, alcune delle società che le avevano emesse sono state accusate dai procuratori nazionali antimafia di fare da copertura ai clan della ’ndrangheta.
Le aziende di facciata della criminalità organizzata sono riuscite ad affibbiare le fatture non pagate dalla sanità regionale a intermediari inconsapevoli. Questi le hanno vendute poi a società finanziarie legittime, che le hanno inserite in strumenti di debito e rivendute a investitori affamati di titoli ad alto rendimento in un’epoca di tassi di interesse prossimi allo zero. Secondo fonti direttamente coinvolte nelle operazioni, tra gli investitori che hanno acquistato strumenti di debito collegati al sistema sanitario calabrese c’erano vari gestori di fondi e società di servizi.
Nessuno di questi titoli è mai stato valutato dalle principali agenzie di rating né scambiato sui mercati finanziari. Alcuni sono stati venduti privatamente da banche d’investimento con sede a Londra nel quartiere elegante di Mayfair o nella City.
Un esempio di come i soldi sporchi della ’ndrangheta siano finiti nei mercati finanziari internazionali è attraverso le cosiddette società veicolo, come la Chiron. Istituita a maggio del 2017, la Chiron è stata una delle varie società specializzate in finanziamenti alla sanità in Italia. Ha comprato circa 50 milioni di euro di fatture sanitarie non pagate, molte delle quali provenienti dalla Calabria e da altre zone dell’Italia del sud. Il compratore ultimo dei titoli è stato il ramo lussemburghese della banca privata delle Generali, una delle più grandi società assicuratrici del mondo, che voleva offrire ai suoi clienti prodotti con alti tassi d’interesse.
Cibo per maiali
La società che ha creato la Chiron è la Cfe, una banca d’investimento con sedi a Londra, Ginevra, Lussemburgo e nel Principato di Monaco. Consulente dell’operazione era la filiale italiana della Ernst & Young, una multinazionale di servizi finanziari.
Una delle aziende che hanno ceduto crediti alla Chiron è la Croce Rosa Putrino Srl, che gestisce le ambulanze e i servizi funebri dell’ospedale di Lamezia Terme. Verso la fine del 2018 la polizia ha arrestato 28 persone, dopo che da un’indagine della procura di Catanzaro è emerso che varie aziende di facciata delle famiglie locali della ’ndrangheta, compresa la Croce Rosa Putrino, avevano probabilmente assunto il controllo delle ambulanze, dei funerali e di altri servizi sanitari dell’ospedale. Il caso non è ancora chiuso. Banca Generali e Cfe hanno entrambe dichiarato al Financial Times di non aver mai comprato consapevolmente alcun titolo legato al sistema sanitario calabrese connesso alle attività della criminalità organizzata. La Cfe ha affermato di aver fatto tutti i controlli previsti sui titoli di cui è stata intermediaria, e che prima di lei avevano fatto la stessa cosa altri professionisti quando erano stati creati. Al momento dell’acquisto, tutti i titoli sembravano in regola. La Cfe ha dichiarato che, se anche inavvertitamente ha trattato dei crediti legati alla criminalità organizzata, questi erano una minima percentuale delle sue attività. Entrambe le società sostengono di aver denunciato alle autorità italiane tutti i problemi emersi dopo l’acquisto dei crediti.
Un altro titolo venduto privatamente analizzato dal Financial Times conteneva crediti di un ente benefico religioso calabrese per l’assistenza ai profughi africani. Dopo una perquisizione dell’autorità antimafia, si è scoperto che l’ente dirottava i fondi dell’Unione europea verso un potente clan della ’ndrangheta. Gratteri, che ha condotto l’indagine, ha definito i pasti dati ai rifugiati “cibo per maiali”. Sono state arrestate 22 persone.
Nel 2019 il governo italiano ha preso una decisione drastica e ha sciolto le aziende sanitarie provinciali di Catanzaro e di Reggio Calabria per infiltrazione mafiosa, dopo aver scoperto una serie di frodi e doppie fatture, e anche che alcuni funzionari ancora in carica erano stati interdetti dai pubblici uffici. Le due aziende sanitarie sono ancora commissariate. Ma circa un miliardo di euro delle obbligazioni emesse da privati e legate al sistema sanitario è stato comprato e venduto tra il 2015 e il 2019, secondo alcuni mediatori finanziari, e una buona parte delle fatture proveniva proprio dalle due aziende sanitarie commissariate. È impossibile quantificare l’esatto ammontare di denaro sporco entrato in questo modo nel sistema finanziario internazionale. “Le grandi banche si sono tenute alla larga da questo tipo di affari legati alla sanità”, dice un professionista della finanza che ha lavorato a transazioni simili. “È un settore difficile e soprattutto in certe regioni si corrono dei rischi”.
Massimo Scura, nominato dal governo commissario alla sanità in Calabria dal 2015 al 2018, , afferma che durante quel periodo ha cercato di dare un giro di vite alle frodi, scoprendo vari casi di fatture false e doppie vendute agli investitori. Lui non è accusato di nulla: “Ho indicato alcuni debiti che non avrebbero dovuto essere pagati, e alcuni casi di doppia fatturazione”.
Scura punta il dito contro la cultura della corruzione: “Il problema è di natura etica e culturale, finché all’interno delle aziende ci sono persone palesemente conniventi, è molto difficile garantire un buon servizio sanitario alla popolazione”.
Anni di ruberie nel sistema sanitario calabrese hanno avuto effetti devastanti. In Italia l’aspettativa di vita è tra le più alte del mondo, ma le statistiche sanitarie della regione sono tra le peggiori d’Europa. Secondo l’Istat, il numero medio di anni che i calabresi passano in buona salute è 52,9, più basso di quello di chi vive in Romania e in Bulgaria. Un abitante della ricca provincia di Bolzano, in confronto, passa in buona salute mediamente settant’anni. La Calabria è anche la regione italiana che ha il più alto tasso di mortalità infantile, e ogni anno decine di migliaia di “rifugiati sanitari” vanno a cercare cure migliori negli ospedali del nord.
Secondo i medici calabresi, alcuni ospedali della regione, che soffocano sotto una montagna di debiti accumulati a causa della corruzione, della cattiva gestione e dell’appropriazione indebita, sono simili a quelli dei paesi in via di sviluppo. Nell’ospedale di Lamezia Terme gli investigatori dell’antimafia hanno scoperto le prove di vari episodi in cui il denaro pubblico è stato usato in modo illecito. In un’intercettazione ambientale si sentono due infermieri scherzare mentre mettono un neonato in un’incubatrice difettosa. “Questa volta preparati, potrebbero arrestarci”, dice uno ridendo. “Quell’incubatrice con i cavi fusi è disgustosa. Che Dio ci aiuti stanotte. Io starò a casa a recitare il rosario”. E il suo collega ridendo di nuovo: “Speriamo che funzioni”.
In un’altra intercettazione un infermiere racconta di un paziente in condizioni critiche in ambulanza che è stato fatto cadere dalla barella: “Speriamo che non muoia, altrimenti siamo nei guai”, dice.
A causa dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel sistema sanitario, molti ospedali della Calabria sono particolarmente vulnerabili al nuovo coronavirus . “La Calabria non è in grado di affrontare una crisi sanitaria. Non ci sono abbastanza posti in terapia intensiva per i pazienti in condizioni gravi”, spiega Scura. La decisione della regione di imporre un rigido confinamento sembra aver funzionato: in Calabria sono morte meno di cento persone a causa del covid-19, rispetto alle 17mila della Lombardia.
Il livello di debito accumulato negli anni dagli ospedali non ha lasciato molte scelte al commissario straordinario. Molti temono che la presenza della criminalità organizzata nella sanità calabrese sia ormai troppo radicata. “Il sistema sanitario della regione è in uno stato d’emergenza permanente da decenni”, dice Sergi. “Ogni due o tre anni, c’è un’operazione dell’antimafia nel settore, e magari manda qualcuno a controllare, ma poi arriva un altro clan e ricomincia tutto da capo”.
Per il procuratore Gratteri, non si può fare altro che continuare a combattere questo nemico dalle mille teste, e sembra che la battaglia stia per essere vinta. Alla fine del 2019 Gratteri ha sferrato il colpo più duro contro i clan: l’indagine che ha portato all’arresto di più di trecento persone. Sarà il processo con più indagati nella guerra alla ’ndrangheta.
Atti di resistenza
Le accuse sono di omicidio, riciclaggio, estorsione e traffico di droga. Il processo sarà il più grande dopo quello alla mafia siciliana del 1986. Gli imputati saranno così tanti che le udienze si terranno nella vecchia sede di un call center alla periferia di Catanzaro. “Dobbiamo andare avanti a ogni costo”, dice Gratteri. “Da qualche anno c’è una speranza di cambiamento. Non possiamo tradire le speranze di migliaia di persone, per le quali siamo l’ultima spiaggia”. Per qualcun altro i piccoli atti di resistenza individuale sono l’unico modo per provare a contrastare il potere psicologico che i clan hanno sulla regione e sulla vita delle persone. Sei anni fa le autorità locali dovevano demolire una villa costruita abusivamente, che era stata confiscata a una temuta famiglia della ’ndrangheta. Nessuna impresa locale specializzata in demolizioni aveva accettato il contratto.
Saffioti, la cui fabbrica di cemento è stata quasi distrutta dopo che ha testimoniato contro i clan, è stato l’unico disposto a fare quel lavoro: “‘Ci penso io’, ho detto quando mi hanno chiesto aiuto. Ho demolito la casa che nessun altro osava abbattere. Non è stato un gesto eroico, volevo solo dimostrare che anche qui una società civile è possibile, che ci può essere giustizia”.
È ancora sotto protezione, ma si sente più libero di come sarebbe se fosse rimasto in silenzio: “Quando moriamo, vogliamo credere di aver fatto le cose giuste. Possiamo vivere come schiavi o come uomini liberi. Io ho scelto la seconda strada. Per il bene dei nostri figli, era il minimo che potessi fare” . ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati