Il 24 gennaio 1848, un gruppo di minatori trovò un filone d’oro a Coloma, ottanta chilometri a est di Sacramento. Il 29 maggio, dopo che un giornale locale pubblicò un editoriale sul “sordido grido oro! Oro! Oro!” che rimbalzava da un angolo all’altro del paese, cominciò ufficialmente la corsa all’oro in California.
Sempre quell’anno – o all’inizio dell’anno successivo, le ricostruzioni sono discordanti – una donna della città portuale di Guangzhou, in Cina, s’imbarcò su un battello a vapore diretto a San Francisco. Si chiamava Ah Toy e fu la seconda donna cinese ad arrivare in città; la prima era stata la serva di un commerciante sbarcato qualche mese prima. Pur avendo i piedi bendati come le donne dell’alta borghesia, Ah Toy fece il viaggio da sola. Al suo arrivo a San Francisco aveva circa vent’anni. A parte il suo corpo, non aveva altri mezzi di sostentamento.
Nel 1848 Ah Toy arrivò a San Francisco. Fu la seconda donna cinese ad arrivare in città. A parte il suo corpo, non aveva altri mezzi di sostentamento
Ho scoperto la storia di Ah Toy nel 2019, mentre facevo ricerche per un articolo su un’operazione di polizia contro un giro di prostituzione in Florida in cui tutte le persone arrestate, le dipendenti di una sala massaggi, erano immigrate o lavoratrici migranti cinesi. Alcune erano state rilasciate su cauzione, altre erano state messe in custodia dall’ufficio immigrazione in attesa di essere rimpatriate. I clienti arrestati, invece, erano tutti uomini, per lo più bianchi. Erano stati tutti rilasciati senza nemmeno una multa.
Facendo la giornalista, ho imparato che le leggi contro l’immigrazione e quelle contro la prostituzione finiscono spesso per sovrapporsi, perché sono quasi sempre le donne (nella maggior parte dei casi donne non bianche prive di documenti o in posizioni precarie o tagliate fuori dal mercato del lavoro tradizionale) a finire per lavorare nell’industria del sesso.
Ah Toy era una di queste donne. Mi sono immediatamente appassionata alla sua vicenda, un po’ per interesse professionale, un po’ per motivi personali. Noi persone di etnie non caucasiche viviamo in un mondo che non è stato costruito pensando a noi; ogni volta che ci vediamo rappresentate – nella storia, nei mezzi d’informazione o nell’arte – è difficile non provare un forte senso di curiosità.
L’obiettivo di Ah Toy quando emigrò in America, scrive Judy Yung in _Unbound feet: a social history of chinese women in San Francisco _(Piedi non bendati: storia sociale delle donne cinesi a San Francisco, 1955), era “migliorare le sue condizioni”, ma per una donna sola che non parlava l’inglese le possibilità erano poche allora come lo sono oggi. Alloggiava in una baracca tra Clay e Kearney street, nell’attuale Chinatown, poi diventata famosa come Barbary coast, la zona a luci rosse della città dove si mescolavano uomini e donne di etnie e classi diverse. Qui, in una catapecchia di un metro e mezzo per due, Ah Toy cominciò a offrire i suoi servizi ai minatori, diventando la prima prostituta cinese del nuovo mondo a passare alle cronache.
A detta di tutti, era molto amata. Quando sbarcavano a San Francisco, i minatori “correvano” dalla famosa e bellissima Ah Toy, si legge in The madams of San Francisco, un libro di Curt Gentry del 1964. Lo scrittore francese Albert Benard de Russailh, residente a San Francisco, annotò sul suo diario: “I cinesi di solito sono brutti, tanto le donne quanto gli uomini; ma ci sono ragazze attraenti o addirittura graziose; per esempio Achoy, curiosamente affascinante, con il corpo snello e gli occhi che ridono”. Charles Duane, un faccendiere al servizio del senatore della California David Broderick, la descrive come “la donna più bella che abbia mai visto” nel suo libro di memorie del 1881.
Ah Toy era arrivata a San Francisco in una fase di passaggio, quando la California stava diventando uno stato: non erano state ancora approvate una serie di leggi che avrebbero formalizzato il pregiudizio contro le donne e le persone non bianche, e l’ordine tradizionale, religioso e sociale, dominante nel resto degli Stati Uniti non aveva avuto il tempo di affermarsi (il primo ecclesiastico della Bay area, Timothy Dwight Hunt, arrivò da Honolulu a ottobre del 1848). Anche se il loro potere sarebbe diminuito con la chiusura della frontiera, le donne, e anche le donne non bianche, per qualche tempo prosperarono.
Nella turbolenta San Francisco della corsa all’oro le donne erano ancora uno spettacolo insolito, e alcune sfruttarono questo elemento a loro vantaggio. Si racconta di minatori che si precipitavano fuori dai saloon per ascoltare un coro femminile che si esibiva in una scuola e d’intraprendenti proprietari di caffè che facevano pagare agli uomini l’ingresso in sale da pranzo piene di donne nude distese in “pose indecenti”. Le donne che camminavano da sole erano assalite dagli ammiratori. Una vedova, arrivata in nave da New York dopo aver perso il marito in mare, ricevette tre proposte di matrimonio nella sua prima settimana a San Francisco.
Queste galanterie in stile selvaggio west erano una consuetudine anche per le lavoratrici del sesso. Le prime erano arrivate a San Francisco già nel 1848, e dall’anno successivo il loro numero cominciò a crescere in modo significativo. Alla fine del 1849 in città c’erano settecento prostitute su una popolazione compresa tra i venti e i 25mila abitanti. Non era raro vedere uomini schierati davanti al porto per salutare navi a vapore cariche di prostitute, racconta Rand Richards nel suo libro del 2008 _Mud, blood, and gold: San Francisco in 1849 _(Fango, sangue e oro: San Francisco nel 1849). Dopo lo sbarco cominciava l’asta per assicurarsi i loro servizi: “Signori, quanto offrite per questa bella signora, appena arrivata da New York per farvi una visita davvero speciale?”.
Poiché la notizia della corsa all’oro si sparse prima in America centrale e meridionale attraverso il Messico, quasi tutte le prostitute di prima generazione erano ispaniche; la loro casa di appuntamenti in città si chiamava Washington hall. Le prostitute bianche lavoravano in un bordello più esclusivo, aperto su Washington street da una signora di New Orleans, e si facevano pagare fino a venti volte di più. Almeno all’inizio, non esisteva un mercato di nicchia per le donne cinesi.
Dopo i primi successi e le prime difficoltà da libera imprenditrice, nel giro di un anno Ah Toy riuscì ad affermarsi non solo come prostituta, ma anche come _maîtresse _di spicco. Aprì un bordello su Pike street (l’attuale Walter U. Lum place) e prese al suo servizio diverse donne cinesi, che avevano cominciato a sbarcare nei porti della California verso la metà degli anni cinquanta.
La maggior parte delle prostitute cinesi a San Francisco lavorava in gruppo, in case di tolleranza oppure in stanze con affaccio sulla strada arredate solo con un lavandino, una sedia di bambù e un letto duro. Tipicamente, le prostitute di rango inferiore – chiamate loungei, ovvero “donna che tiene sempre la gamba alzata” – lavoravano in piccole stanze su vicoli affollati: adescavano i clienti tra i lavoratori a giornata o tra i marinai e si facevano pagare cifre minime come 25 centesimi, l’equivalente di otto dollari di oggi.
Le case di appuntamenti come quella di Ah Toy, invece, erano al secondo o al terzo piano, di solito sopra i negozi del piano terra, e avevano camere ben arredate con mobili in legno di tek e bambù, e cuscini ricamati. L’atmosfera “esotica” e i prezzi convenienti delle case cinesi (oltre alla voce secondo cui le donne cinesi avevano la vagina che andava da “est a ovest” anziché da “nord a sud”) attiravano molti clienti, sia bianchi sia orientali.
Ah Toy gestiva la sua piccola impresa con determinazione e astuzia, difendendola con successo anche in tribunale. Secondo i documenti ufficiali, durante la sua vita professionale comparve di fronte ai giudici più di dieci volte, prima come parte lesa e poi come imputata per reati contro la morale (secondo un’altra fonte le sue apparizioni in tribunale a San Francisco sarebbero state addirittura cinquanta in tre anni).
Il caso più famoso, nel 1849, fu una causa contro alcuni clienti che l’avevano truffata pagandola in ottone anziché in oro. Durante il processo Ah Toy indossava una cuffia, una giacca di raso color albicocca e pantaloni verde salice; si era legata i capelli in una crocchia e si era sbiancata la faccia con la polvere di riso. Quando il giudice le chiese di produrre delle prove, uscì dall’aula e tornò con una ciotola di porcellana piena di trucioli di ottone. L’episodio, racconta Richards, provocò “risate fragorose tra i presenti”. Il giudice diede ragione agli imputati.
Un paio d’anni dopo, Ah Toy sporse nuovamente denuncia sostenendo che alcuni uomini le avevano rubato una spilla di diamanti del valore di 300 dollari. Il processo, che durò diversi giorni, si concluse con il ritrovamento del corpo del reato, che i ladri avevano provato a impegnare in cambio di una somma di denaro.
Negli anni successivi, scrive Richards, Ah Toy continuò a comparire in tribunale sfoggiando abiti “nel più sfolgorante stile europeo o americano” e denunciando con coraggio la corruzione della magistratura di allora. Che la tenutaria di un bordello immigrata dalla Cina si rivolgesse con tanta facilità al sistema giudiziario degli Stati Uniti era segno di grande determinazione.
Lavorare nell’industria del sesso di San Francisco, tuttavia, diventava sempre più difficile, anche per una pioniera come Ah Toy. Tra il 1849 e i primi anni cinquanta cominciarono a sbarcare a San Francisco migliaia di immigrati cinesi, spinti dai cattivi raccolti e dalle carneficine provocate dalla rivolta dei Taiping e dalle guerre dell’oppio. Alla fine del decennio i cinesi in America erano circa 35mila.
All’inizio furono accolti con favore, perché erano considerati manodopera necessaria; poi, una volta esaurito l’oro, nel corso degli anni cinquanta dell’ottocento, il clima cambiò. In realtà, la retorica anticinese si stava già diffondendo da qualche tempo: almeno dal 1830, quando in America erano arrivati i primi immigrati dall’ex Celeste impero. Solo negli anni cinquanta e sessanta, però, questo spirito nativista cominciò a concretizzarsi in iniziative politiche e provvedimenti legislativi.
Le prime misure furono due leggi del 1850 e del 1852, che introdussero una serie d’imposte mensili a carico dei minatori stranieri (in maggioranza cinesi): tra il 1850 e il 1870, queste imposte fruttarono più della metà del gettito fiscale dello stato della California. Altre imposte speciali meno note colpirono i pescatori, i lavandai e i tenutari di bordelli.
I legislatori approvarono poi una serie di ordinanze locali che non erano esplicitamente rivolte contro la comunità cinese, ma che, scrive Yung, “cercavano chiaramente di rendere la vita difficile ai bordelli privandoli dei mezzi di sussistenza”. Tra queste: la legge sulla cubatura dell’aria, che imponeva un minimo di 14 metri cubi di aria a persona per abitazione; l’ordinanza sui marciapiedi, che vietava il trasporto di cestini in spalla; e l’ordinanza sulle trecce, che fissava a 2,5 cm dal cranio la lunghezza massima dei capelli dei detenuti, con il palese intento di umiliare gli uomini cinesi che, per motivi spirituali, portavano i capelli legati in una specie di codino.
Fu proprio in quegli anni che Ah Toy cominciò a essere convocata in tribunale, non più come parte lesa, ma come imputata. Nel 1851, settecento “uomini protestanti nati in America” avevano formato il comitato di vigilanza di San Francisco per amministrare la giustizia al di fuori delle sedi istituzionali, con particolare riguardo alla prostituzione e ad altri vizi non disciplinati dalla legge. Il comitato di vigilanza era un’iniziativa abbastanza curiosa, anche per gli standard di allora. “Ai cittadini onesti, pacifici e rispettosi della legge degli stati atlantici e dell’Europa doveva senz’altro sembrare sorprendente che una città di 30mila abitanti si sottomettesse pazientemente alle leggi improvvisate e alla volontà arbitraria di una società segreta, per quanto onesto e rispettabile fosse ritenut0 chi ne faceva parte”, si legge negli Annals of San Francisco, un documento storico dell’epoca.
Il comitato di vigilanza si poneva “al di sopra della legge formale” ed “esercitava apertamente la giustizia sommaria, o ciò che definiva giustizia, in opposizione armata e in spregio ai tribunali legalmente costituiti del paese”, secondo gli Annals. Anche se non aveva alcuna autorità ufficiale, il comitato godeva del sostegno “quasi unanime” della rispettabile comunità di San Francisco e agiva come un potere di fatto.
John A. Clark, un perito figlio di un ex sindaco di New York, fu nominato capo della pattuglia speciale del comitato e incaricato di indagare sui bordelli con l’obiettivo finale di far espellere Ah Toy, che all’epoca era tra le prostitute più in vista di San Francisco. Clark, però, si fece ammaliare dal suo fascino e strinse con lei un tacito accordo, offrendole protezione in cambio del suo affetto.
Qualche tempo dopo però cominciò a maltrattarla, e nel 1852 Ah Toy lo portò in tribunale, dicendo al giudice Edward McGowan che Clark l’aveva picchiata perché l’aveva sentita dire in giro che era la sua amante. Il giudice archiviò il caso come una “questione personale”.
Nel 1854, Ah Toy provò di nuovo a portare Clark in tribunale per violenza domestica, salvo scoprire che proprio quell’anno la California aveva approvato una legge che vietava alle persone non bianche di testimoniare in giudizio. Insieme a quella erano state approvate altre leggi, altrettanto discriminatorie, che negavano alla comunità cinese alcuni diritti civili fondamentali, tra cui il diritto di essere impiegati nei lavori pubblici, di contrarre un matrimonio misto e di possedere terra. Tutte queste restrizioni, che prima esistevano a livello informale, ora erano sancite dalla legge.
Quello stesso anno, il consiglio comunitario, predecessore del consiglio delle autorità di vigilanza di San Francisco, approvò un’ordinanza che metteva fuori legge tutti i bordelli senza distinzioni, ma che di fatto prendeva di mira soprattutto le case di appuntamenti messicane e cinesi, molte delle quali furono costrette a chiudere. I bordelli bianchi, che svolgevano la stessa funzione sociale, ma spesso erano di proprietà di personaggi di spicco come William Ralston (poi fondatore della Bank of California), erano protetti.
Infine anche Ah Toy fu arrestata, condannata e multata per “condotta domestica turbolenta”, quello che oggi è il reato di sfruttamento della prostituzione. Tre anni dopo, nel 1857, partì per la Cina, annunciando ai giornalisti che se ne sarebbe andata per sempre. Poco dopo, però, tornò a San Francisco, dove fu nuovamente arrestata nel marzo del 1859.
Il 1860 segnò l’inizio del declino del settore, per Ah Toy e altre come lei. Ormai le donne cinesi immigrate in California erano diventate abbastanza numerose da riequilibrare il rapporto tra i sessi e la domanda di prostituzione subì un brusco calo (secondo il libro di Ronald Takiki Strangers from a different shore, “Straniere di un’altra sponda”, del 1989, in California nel 1852 c’erano solo sette donne su circa undicimila immigrati cinesi; trent’anni dopo, nel 1880, il loro numero era salito a tremila). I politici cominciarono a scagliarsi contro la prostituzione cinese non solo perché era una minaccia contro la “salute degli uomini bianchi”, ma anche per motivi economici, perché le prostitute portavano via “i lavori di cucito e altre occupazioni alle donne bianche”, come scrive la sociologa dell’università della California a Los Angeles Lucie Cheng Hirata in un articolo del 1979 sulle prostitute cinesi in America nell’ottocento.
Nel 1865 il consiglio delle autorità di vigilanza di San Francisco diede l’“ordine di rimuovere le donne cinesi di malaffare da alcuni quartieri della città”. L’anno successivo il parlamento della California approvò una “legge per la repressione delle case di malaffare cinesi”. Tra il 1866 e il 1905 furono approvati ben otto provvedimenti contro le prostitute cinesi e i loro bordelli. Le donne colte sul fatto erano punite con una multa tra i 25 e i 50 dollari (pari a 400 e 800 dollari di oggi) e cinque giorni di carcere. Ovviamente, lo stesso metro non si applicava alle prostitute bianche.
A segnare il destino delle prostitute cinesi a San Francisco fu l’arrivo di un numero consistente di donne bianche madri di famiglia, fondatrici di circoli missionari e moraliste. Due di loro, Margaret Culbertson e Donaldina Cameron, si presero in carico di “salvare” le prostitute cinesi, non solo quelle che erano entrate nel mercato del sesso contro la loro volontà, ma anche quelle che esercitavano liberamente la professione. Si dice che Culbertson abbia “salvato” tremila donne cinesi, prima ospitandole in una pensione e poi riabilitandole; Cameron, invece, spediva le ex prostitute a lavorare nei frutteti dei coltivatori del nord della California, con i quali aveva un accordo permanente per la fornitura di manodopera. Le missionarie, che all’epoca erano ideologicamente alleate con il nascente movimento per la temperanza, vedevano la prostituzione non come un “male necessario da tollerare” ma come un “male sociale da sradicare”, scrive Barbara Berglund in _Making San Francisco american _(L’americanizzazione di San Francisco, 2007).
“Molte donne bianche, compresa forse la stessa Cameron, erano motivate da un senso di superiorità morale”, osserva Hirata. “Più consideravano le donne cinesi indifese, deboli, depravate e sottomesse, più cresceva il loro zelo missionario. Salvare le ragazze schiave cinesi era diventato il ‘fardello della donna bianca’”. E una volta che le donne cinesi erano identificate come vittime da salvare, non c’era modo di tornare indietro.
Nel frattempo, la traduzione in legge di misure razziste e sessiste non era più solo una questione locale o statale. Nel 1871 fu approvato il primo provvedimento federale contro la prostituzione: la legge “per prevenire il rapimento e l’importazione di femmine mongole, cinesi e giapponesi per scopi criminali o immorali”, che vietava l’ingresso negli Stati Uniti alle donne asiatiche a meno che non fossero di comprovate “abitudini corrette e buon carattere”, secondo quanto riportano gli statuti della California del 1869-1870.
L’ostilità verso le comunità cinesi, acuita dalla depressione economica che seguì alla guerra civile e dalla crisi economica del 1873, sarebbe cresciuta ancora. Spesso i lavoratori cinesi erano accusati di togliere il lavoro agli americani bianchi.
Nel 1875 fu approvato il Page act che, sulla scia della legge del 1870, mirava a “porre fine al pericolo della manodopera a basso costo e dell’immoralità delle donne cinesi”. Lo scopo dichiarato era identificare le donne dai costumi discutibili e impedire che entrassero in America, ma di fatto la legge scoraggiava l’immigrazione di tutte le donne cinesi. A Hong Kong, il console David Bailey, che si era nominato primo garante del Page act, di solito pretendeva dalle potenziali immigrate una tangente dai dieci ai quindici dollari prima di chiedere: “Siete una donna virtuosa?”. Il numero di donne cinesi che entrarono negli Stati Uniti tra il 1876 e il 1882 diminuì del 68 per cento rispetto agli anni precedenti. Negando di fatto alle donne cinesi l’ingresso negli Stati Uniti, il Page act privò gli uomini cinesi della possibilità di ricongiungersi alle loro famiglie o di formarne delle nuove, con il risultato paradossale d’incoraggiare quello stesso vizio – la prostituzione – che la legge si proponeva di sopprimere.
Le poche donne cinesi che riuscirono a emigrare tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta dell’ottocento trovarono un paese che le collocava socialmente un gradino sotto le donne bianche, ma che allo stesso tempo le sessualizzava per il loro esotismo. Alcune, come Ah Toy, sfruttarono questo elemento a loro vantaggio; altre soffrirono in silenzio. Le donne libere e sessualmente emancipate sono sempre state motivo di ansia sociale, e le norme coniugali non convenzionali dei cinesi – la pratica del concubinato, per esempio – erano considerate una minaccia ai cosiddetti valori americani. Quanto ai minatori cinesi, tutti maschi, le limitazioni all’immigrazione femminile impedirono a molti di loro di formare una famiglia, costringendoli a restare lavoratori migranti, svincolati da qualsiasi comunità, proprio come volevano i loro datori di lavoro.
Quando fu introdotto il Page act, la leggendaria Ah Toy si era ormai ritirata. Nel 1868 abbandonò la prostituzione e si trasferì a San Jose; tre anni dopo, nel 1871, sposò un uomo di nome One Ho. Degli anni successivi si sa relativamente poco: a quanto pare perse il marito nel 1909 e si dedicò al commercio delle vongole veraci. Morì a San Jose nel 1928, tre mesi prima del suo centesimo compleanno.
Il Page act fu il precursore del Chinese exclusion act del 1882, la prima legge statunitense a penalizzare un gruppo di persone in base alla razza e a formalizzare il concetto di immigrazione clandestina in America. La legge vietava ai cinesi di entrare negli Stati Uniti e limitava la vita di quelli che c’erano già, imponendogli di richiedere il permesso di rientro in caso di espatrio, negandogli la cittadinanza e rendendo praticamente impossibili le visite dei familiari dall’estero.
Fu abrogata solo nel 1943, e solo perché Pechino era diventata un’alleata degli Stati Uniti nella guerra contro il Giappone. Finalmente ai cinesi fu permesso di diventare cittadini naturalizzati, di sposare i bianchi, di comprare proprietà immobiliari e di vivere fuori delle Chinatown.
Eppure, negli Stati Uniti il razzismo contro gli asiatici è ancora una realtà. L’ondata di aggressioni xenofobe e reati di odio che ha accompagnato la pandemia di coronavirus mostra chiaramente che questa brutta storia non è finita. La vicenda di Ah Toy è la prova di quanto il razzismo e il sessismo siano radicati nel paese. Mentre Ah Toy lavorava come prostituta e maîtresse, un esercito di agenti doganali, clienti truffaldini, vigilanti, tenutari di bordelli bianchi e missionarie cristiane bianche tentò ripetutamente di toglierle la libertà. Lei si rifiutò di lasciarglielo fare. Nel suo rifiuto si avverte lo spirito rivoluzionario di chi vedeva chiaramente l’America per ciò che era: un paese dove l’oppressione è legge e dove la lotta per i diritti e le libertà non deve avere sosta. ◆ fas
May Yeong
è un’inviata speciale di Vanity Fair. Vive a Kabul. Questo articolo è uscito sulla New York Review of Books con il titolo Ah Toy, pioneering prostitute of gold rush California.
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Questo articolo è uscito sul numero 1373 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati