“C’è solo un modo corretto di leggere Kafka”, esordii nel mio discorso allo Hippodrom di Monaco di Baviera, dove ero stato invitato a parlare. Volevo essere diretto, ma non crudele, e allo stesso tempo neanche contorto o ottuso visto che il motivo per cui ero stato invitato era illuminare ciò che è rimasto nascosto nell’ombra per un secolo, e cioè come leggere Kafka in modo corretto.

Era l’ultima giornata del simposio, e stavo tenendo la mia lectio magistralis: “Come leggere Kafka in modo corretto”. Tra il pubblico c’erano decine dei più seri esperti di Kafka e studiosi di Kafka, molti con le valigie chiuse e a portata di mano, pronti a partire subito dopo il mio discorso per partecipare al giubileo di Kafka nella vicina Johanneskirchen, con i suoi bagni di fango, i suoi bordelli e la sua parata della tubercolosi. Nessun vero esperto di Kafka si sarebbe perso il mio intervento, dopo che era stato annunciata l’imminente pubblicazione del mio libro, Leggere Kafka in modo corretto. Il mio agente aveva assicurato agli organizzatori del simposio che avrei letto un brano della prefazione e risposto alle domande. Dai severi cechi ai severissimi tedeschi, dai pigri statunitensi agli aggressivi lettoni, tutti gli specialisti di Kafka erano presenti e si avvicinavano sempre di più al palco, vibranti di aspettativa per il mio discorso e tutti accomunati dalla stessa cosa: non capivano come leggere Kafka.

Tutti gli specialisti di Kafka si avvicinavano al palco, vibranti di aspettativa per il mio discorso e tutti accomunati dalla stessa cosa: non capivano come leggere Kafka

Monaco era nel pieno di un’ondata di caldo e non me ne importava un fico secco. Ero tutto agghindato nel mio famigerato completo di velluto con il cappello da cacciatore e la piuma di struzzo, e non c’era donna che al mio passaggio non mi guardasse, ammirata dalla mia bella figura, trattenendo il fiato con voluttà alla vista delle mie eleganti curve. Avevo messo su qualche chilo, ma appartengo a quella tribù privilegiata per la quale l’aumento di peso non solo accentua il sedere ma dà al viso e alle spalle un contorno più pieno e solido. Ormai famoso per quella mise, avevo cominciato a indossare l’abito di velluto intorno ai trent’anni, quando la mia carriera di pensatore importante e originale aveva cominciato a sbocciare. In quegli anni non prestavo grande attenzione alle orde di studiosi che leggevano, analizzavano e scrivevano di Kafka in modo scorretto, prima di tutto per motivi professionali visto che il mio campo non aveva nulla a che spartire con quell’esercizio futile e sconsiderato che risponde approssimativamente al nome di “studi kafkiani”, poi perché non erano affari miei se un rinomato professore, lodato e celebrato in tutto il mondo, non capiva un cazzo di Kafka e, segnatamente, di come leggere Kafka in modo corretto. Avevo cose più importanti a cui pensare, in particolare la mia nascente carriera da importante pensatore, oltre che passare il mio tempo libero a leggere Kafka nel modo giusto.

“Di certo”, cominciai dal podio, ignorando gli appunti che mi ero pre­parato, “mentre ci sono un milione di modi di leggere Kafka scorrettamente, ce n’è uno e uno solo di leggere Kafka correttamente, così come ce n’è uno e uno solo di comprendere e apprezzare Kafka, e a causa di questa difficoltà nell’afferrare Kafka tutti, da sempre, leggono Kafka in modo scorretto, e io sono su questo palco”, confessai, “non perché ho un cuore generoso, ma per la frustrazione e l’esasperazione che mi hanno inseguito per tutta la vita da quando ho scoperto il modo corretto di leggere Kafka, sconcertato dal fatto che tutti voi dite di amare Kafka e di adorare Kafka ma fondamentalmente fraintendete ed equivocate Kafka, avvicinandovi a Kafka, leggendo Kafka e pensando a Kafka in modo completamente sbagliato. Si persevera nell’errore ed è fastidioso, forse perfino pericoloso. Metterò le cose in chiaro”, dichiarai. “Fidatevi, preferirei di gran lunga stare a casa a leggere Kafka o seduto in un piccolo caffè, a Trieste, per esempio, o a Roma, ad ascoltare il picchiettare della pioggia o a osservare la gente del posto mentre sorseggio un riesling dopo aver appuntato le mie osservazioni personali su Kafka, assaporando il gusto dell’impresa di cui voi tutti siete incapaci: leggere Kafka in modo corretto”.

“Solo gli ignoranti trovano divertente Kafka”, avevo detto prima, all’accoglienza, assediato da un gruppo di accademici e illustri conoscitori della lingua tedesca, molti dei quali mi stavano alle calcagna, sospetto, per toccare il mio bel vestito di velluto, oltre che per sentirmi dire cose illuminanti su Kafka, in particolare come leggerlo correttamente. Tutti sapevano che il mio libro sarebbe stato pubblicato nel giro di poche settimane, e forse standomi vicino speravano di assorbire per osmosi la mia profonda conoscenza dello scrittore. “Gli squilibrati e i selvaggi trovano Kafka profetico”, continuai, “i ladri e gli stupidi lo trovano enigmatico. Ma c’è un solo modo di leggere correttamente Kafka e di comprendere correttamente Kafka, e nessuno di voi sa come si fa. Tutti voi avete letto Kafka all’infinito, avete passato anni a studiare i suoi diari, i suoi racconti e i suoi romanzi, avete scritto enormi tomi su Kafka, avete fatto carriera grazie a Kafka, ma avete trascurato il compito più chiaro e fondamentale, cioè capire Kafka, perché una volta che avete imparato a capire Kafka e ad apprezzare le opere di Kafka il mondo diventa incandescente. Prima però dovete capire come si fa, perché le opportunità di leggere Kafka in modo scorretto sono dappertutto. Ogni libro di Kafka è un invito a leggerlo in modo disastroso. Per esempio, ho visto persone che leggevano Il processo o Il castello in libreria o all’aeroporto e già dalla loro postura capivo che stavano leggendo Kafka nel modo sbagliato, quindi senza capirlo. La postura è importante”, osservai, richiamando l’attenzione del cameriere più vicino per avere un’altra polpetta di granchio. “La postura e l’atteggiamento contano, e anche il contesto. Non si legge mai Kafka mentre si va al lavoro, per esempio in treno, sull’autobus o in aereo. Gesù, mai e poi mai!”.

Beatrice Bandiera

La polpetta di granchio era sontuosa, ma avevo usato l’unico tovagliolo che mi avevano dato, e non trovando un altro cameriere fui costretto a pulirmi sui miei magnifici pantaloni di velluto. Prima del mio intervento speravo di trovare un’occasione per tornare nella mia stanza e cambiarmi, perché viaggiavo sempre con una scorta di abiti di velluto di tutti i colori, dal rosso vino al giallo canarino, dal prugna al pistacchio. Il mio preferito era quello color curcuma che avevo indossato per l’occasione ma che adesso, purtroppo, era sporco di polpetta di granchio.

Recitai agli accoliti riuniti intorno a me una litania su chi fosse meglio posizionato per capire Kafka, citando a memoria dal quinto capitolo del mio imminente libro, Leggere Kafka in modo corretto. “Un ebreo capisce Kafka”, cominciai, “un ebreo convertito ancora di più. Un ebreo convertito che sta guarendo dalla tubercolosi e apprezza il teatro yiddish, costantemente sopraffatto dal terrore e dal senso di colpa, capisce Kafka meglio di chiunque altro al mondo, meglio dello stesso Kafka. Un tedesco non capirà mai Kafka, ma se accetta questo fatto nel profondo del suo cuore si avvicinerà a capire Kafka e dunque si avvicinerà a qualcosa di simile all’illuminazione”. Comparve un cameriere che mi offrì una patata a barchetta, che prontamente accettai dimenticando di chiedere un altro tovagliolo. “Gli australiani hanno la capacità di capire Kafka ma si avvicinano alla materia in modo pomposo e presuntuoso, escludendosi così dalla possibilità di capirlo. Arrivano al tavolo senza umiltà. Idem gli italiani. Idem i francesi. Chi è nato a Praga dà per scontato che il suo cosiddetto rapporto intrinseco gli faccia capire Kafka, ma questa convinzione è sbagliata e antiquata. Essere nati a Praga, crescere a Praga non vi rende liberi di capire l’enorme, chilometrico obelisco che è l’opera di Kafka. La prossimità non è un lasciapassare. Anzi, una persona nata e cresciuta a Praga ha un enorme svantaggio nel capire Kafka a causa della sua mera familiarità geografica, che in definitiva rappresenta un ostacolo; è come guardare un ritratto troppo da vicino, non cogliendo ciò che è più importante e necessario anche se è a contatto con la vostra faccia, vi soffia sul collo o, nel caso di Kafka, ci cammina sopra”.

I riflettori sul palco, implacabili e perversi, premevano raggi di luce sulle mie retine, e il silenzio nella sala era la testimonianza del determinato interesse del pubblico. “Presumo che nessuno di voi sappia leggere Kafka in modo corretto, o non sareste qui”, dissi dal podio, in un tono non particolarmente gradevole, ma diventando, mio malgrado, combattivo. Le luci dello Hippodrom erano calde e feroci e stavo sudando sotto il mio abito di velluto. Era difficile distinguere i volti dei presenti tra il pubblico, i cosiddetti colleghi e i cosiddetti letterati che in teoria sapevano leggere Kafka, ma non avevano la più vaga idea di ciò che leggevano. Avevo dimenticato di tirare fuori il mio discorso, la prefazione del mio libro, piegata e infilata nel taschino del mio blazer di velluto, ora madido di sudore. Oltre che con gli avanzi della polpetta di granchio adesso dovevo fare i conti con la giacca, fradicia di sudore, completamente insudiciata, profanata come tutto il resto dell’abito, e mi sentivo sempre più affranto e indignato, tormentato dai riflettori, offeso dai volti bovini che mi osservavano, pensatori stimati e celebrati in tutto il mondo, guardati con ammirazione per il loro grande intelletto e per l’originalità del loro pensiero, che m’imploravano di spiegare la cosa più rudimentale del mondo: capire Kafka.

Avevo completamente dimenticato lo scopo della mia presenza a Monaco, cioè, ovviamente, promuovere il mio libro, il che era un altro modo per dire che ero a Monaco per spiegare come leggere Kafka in modo corretto. Cominciai a rimproverare il pubblico, denunciando la sua incapacità intrinseca di capire Kafka perché, detto molto francamente, l’argomento mi faceva andare su tutte le furie. Il caldo dei riflettori e del palco, il caldo nello Hippodrom e fuori dallo Hippodrom e le strade roventi di Monaco, insolitamente calda per la stagione, come avevano detto le previsioni o, per citare la televisione nel mio albergo quella mattina, ungewöhnlich heiß. Sembrava che la terra si stesse squagliando e che ne io fossi al centro.

“No”, dissi con grande enfasi, “se sapeste leggere Kafka nel modo in cui dovreste leggere Kafka, in questo momento sareste a casa a leggere Kafka, perché se sapeste come si legge Kafka non perdereste tempo ad analizzare Kafka o a scrivere su Kafka o a studiare Kafka, ma ve ne stareste semplicemente a casa a leggere Kafka come intendeva Kafka. E invece siete qui”, dissi, “a blaterare sul grande scrittore quando voi per primi non sapete un bel niente del grande scrittore, forse il più grande scrittore della storia, anche se questo è un argomento per un’altra occasione e un altro simposio. Ve ne state qui seduti sapendo benissimo che per tutta la vita avete frainteso il grande autore e non provate un briciolo di vergogna, e il fatto che siete consapevoli della vostra ignoranza e perseverate, che consapevolmente lo equivocate e comunque insistete a scrivere e a pensare e a pontificare su Kafka, mi porta a pensare che siete barbari, incivili e impreparati a decifrare l’enigma cosmico che è Kafka”.

Il caldo mi faceva biascicare e masticare le parole. Di nuovo mi ricordai della prefazione del mio libro piegata nel taschino ma, temendo di fare la figura dello sciocco, pensai di voltarmi e di mostrare al pubblico le mie pesanti chiappe per infilare la mano nella giacca e recuperare i fogli, di approfittare dei miei freschi chili in più, l’incantevole abbondanza di gambe e torace scintillanti nell’abito di velluto ora saturo di sudore, fare una giravolta e incantare il pubblico con la larghezza dei miei fianchi e del mio ampio fondo­schiena mentre recuperavo il discorso dal taschino, una necessità perché la prefazione del mio libro era assolutamente essenziale dato che elencava i passi fondamentali necessari per leggere Kafka in modo corretto, cosa che io avevo imparato a diciannove anni, reduce da un incidente automobilistico quando, una sera, solo in ospedale, sospeso tra i miasmi della coscienza e dell’incoscienza, ebbi una visione sacra che aveva l’anima e le viscere di Kafka, gli stessi tratti e le stesse convinzioni, lo stesso sangue, lo stesso battito cardiaco, e in quella ci fondemmo, io e Kafka, e da quel momento, ristabilendomi da una commozione cerebrale di terzo grado, avrei capito ogni parola mai scritta da Kafka con favolosa lucidità.

C’era agitazione tra il pubblico. Come l’oceano che aspetta la tempesta, vidi un movimento simile a un’onda che scorreva dalle prime file alle ultime e poi di nuovo alle prime. Isamu Tanaka, lo studioso giapponese di Kafka, si alzò in piedi e gridò qualcosa di difficile da decifrare, a parte la parola farsa. Incoraggiati dallo sfogo di Tanaka, studiosi di Kafka e specialisti di Kafka si alzarono in piedi e urlarono, arringando me e la mia perfetta comprensione di Kafka, anche se non avevo neanche cominciato a leggere la prefazione del mio libro, Leggere Kafka in modo corretto. La folla, ringalluzzita, cominciò a urlare più forte parole sempre più sdegnate che non riuscivo a distinguere. Alzai il braccio come per difendermi e sentii la polpetta di granchio e la patata a barchetta che mi ritornavano su dal fondo della gola. I riflettori aumentavano d’intensità proporzionalmente al calore, e io inciampai, tentando invano di pavoneggiarmi nel mio magnifico abito di velluto, macchiato e zuppo di sudore, ormai privo di valore anche in un mercatino di seconda mano, prima di crollare al suolo e svenire.

“Kafka non è aperto all’interpretazione”, dissi ai medici tedeschi dopo essere stato rianimato, “è impermeabile all’interpretazione. Kafka si erge al di sopra della nube tossica dell’interpretazione come un magnifico falco. Ascoltate attentamente”, dissi, “e sentirete la sua tosse tubercolosa, la sua risata ceca, la sua allegria sofferente di fronte alla nostra universale stoltezza”. I medici provarono a tranquillizzarmi, ma erano più interessati a trovare una vena per la flebo: con tutti i chili che avevo preso trovare una vena era un compito arduo, e glielo dissi. Spiegai anche la difficoltà di vedere cose che nessun altro vedeva, che trascrivere il sacro, esprimere l’inesprimibile, era un’impresa disperata, un patto suicida, e i medici non capivano o non erano interessati o, più probabilmente, entrambe le cose. Sentii di nuovo la nausea e il giramento di testa e tornai a quella notte nella stanza dell’ospedale quando, a diciannove anni, trovai sul comodino una copia logora di Il castello lasciata da un vecchio paziente, notai il nome dell’autore e il titolo, che subito mi rapirono, e poi vidi l’oscurità dentro quelle pagine, un’oscurità senza speranza, un’oscurità così feroce da essere accecante, un’oscurità che avvolgeva l’intero universo, un libro che mi introduceva a Kafka poi m’insegnava come leggere Kafka, idealmente sdraiato sulla schiena, nella stanza di un ospedale, quando gli infermieri avevano finito il turno e si stavano godendo un panino e una sigaretta, quando la terra si era presa un attimo per sospirare e nel momento di quel sospiro e nel silenzio che lo accompagnava, non più lungo di un secondo, Kafka poteva essere capito nella lingua della disperazione, e con questo fui riportato ancora una volta allo Hippodrom, ora avvolto in questa acuta e singolare oscurità kafkiana, e come angeli i medici volarono via e per la prima volta dopo giorni era arrivato il freddo, per me e per Monaco e per il resto del mondo. ◆ fas

Mark Haber è uno scrittore statunitense. Vive a Minneapolis. Il suo romanzo L’abisso di San Sebastiano (Marcos y Marcos) è appena uscito in Italia. Questo racconto è stato pubblicato dal giornale letterario statunitense Southwest Review con il titolo How to read Kafka.

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Questo articolo è uscito sul numero 1611 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati