“All’ospedale di Ullevål lo spirito di sacrificio collettivo è davvero straordinario. Andarsene non è stata una decisione facile”. Jesper K. Høva, che ha 35 anni, si è licenziato e ha lasciato il suo incarico di medico. Ma a volte ha nostalgia dell’ospedale dove lavorava.
“Cosa le manca di più?”, gli chiedo.
“Il contatto con i pazienti. E i colleghi. Il lavoro di medico ospedaliero offre perfino momenti divertenti”.
Lasciato l’ospedale, Høva ha cominciato a lavorare come consulente nella multinazionale Deloitte. Dopo un periodo come medico di base nella cittadina di Gol e il lavoro al pronto soccorso di Ullevål, ha detto basta a turni massacranti, a orari di lavoro fissi e a una vita in camice bianco. Ora si occupa di come attirare personale nel sistema sanitario norvegese. “Anche mia moglie fa la medica, abbiamo bambini piccoli e la vita domestica era diventata insostenibile. Dato che è più brava di me, per il sistema sanitario era meglio che continuasse lei. Così io mi sono trovato un altro lavoro”.
Gli scappa un sorriso, ma subito ribadisce che le cose sono andate davvero così.
Qual era il problema?
“In ospedale la riunione mattutina è alle 8. Dato che la scuola materna apre alle 7.30, uno di noi arrivava sempre in ritardo. Adesso posso lavorare la sera, oppure al mattino prima che si sveglino i bambini. Alcuni giorni lavoro da casa. Non volevo più tempo libero, solo una maggiore flessibilità per la famiglia”.
Davvero i medici possono lavorare in smart working?
“No. Però sono cambiati i tempi e stanno prendendo piede delle nuove forme di lavoro. Negli ospedali c’è ancora molta strada da fare. Prendiamo per esempio il cambio turno delle 8. Se fosse stato alle 8.30, saremmo potuti arrivare entrambi in tempo dopo aver lasciato i bambini”.
Un nuovo rapporto
“Il cosiddetto contratto psicologico tra datore di lavoro e dipendente è completamente cambiato”, osserva il sociologo britannico Paul Redmond in videoconferenza da Liverpool, dopo aver confermato di essere a conoscenza del caso di Høva. “Ne vediamo parecchie di situazioni come la sua. Oggi i giovani si licenziano se il lavoro non è compatibile con la vita che hanno sognato”.
Le ricerche di Redmond riguardano soprattutto il lavoro del futuro. Oltre a essere richiestissimo come conferenziere, ha scritto diversi libri rivolti ai dirigenti che hanno difficoltà ad attrarre lavoratori giovani. “In passato il lavoro era l’elemento chiave dell’esistenza. Quando se ne trovava uno che richiedeva di trasferirsi e cambiare la scuola dei figli, lo si faceva senza troppi problemi. Oggi invece è solo una parte di un insieme più grande. Se le cose non vanno bene, si può cambiare”.
Quando Redmond parla di generazioni, intende la generazione Z, composta da chi oggi ha tra i venti e i trent’anni; la Y, o millennial, dai trenta ai quarant’anni, e la X, tra i quaranta e i sessant’anni. Poi c’è la generazione dei nonni, i boomer, che hanno tra i sessanta e gli ottant’anni.
Secondo Redmond, i giovani delle ultime generazioni, la Z e la Y, sono più prudenti di quanto fossero quelli della generazione X. “I ragazzi e le ragazze di oggi dipendono dai genitori fino a un’età avanzata. Restano giovani più a lungo e amano provare diverse professioni, magari prendere una seconda laurea, perché non vogliono puntare tutto su un solo cavallo. Molti hanno visto quanto si sono logorati i genitori, costretti per anni e anni a lunghe giornate di fatica, e non hanno nessuna intenzione di imitarli”.
Ma sul posto di lavoro spesso i dirigenti e i capi – che di solito appartengono alla generazione X, nota per la sua predisposizione all’ironia – non capiscono il comportamento dei più giovani. “I boomer s’intendono un po’ meglio con le giovani leve, perché anche loro in gioventù erano spinti da princìpi e ideali. La generazione X, invece, non è mai stata idealista. Sono innanzitutto degli stacanovisti. E hanno quindi maggiori difficoltà nel rapporto con i ragazzi e le ragazze di oggi”, osserva Redmond. Poi sorride: “Immaginate un avvocato della generazione X, titolare di uno studio legale, che già durante il colloquio di assunzione si sente fare dal candidato domande sulle ferie. Quando dice che la cosa gli sembra inconcepibile, non sta scherzando. Queste situazioni si verificano spesso anche nel sistema sanitario, dove si lavora fino a tardi e dal mattino presto, si fanno turni pesanti e lunghi senza fiatare. I giovani medici e infermieri non lo accettano”.
Cosa succede allora?
“Succede che nascono i conflitti, perché nessuna delle generazioni si rende conto che il contratto psicologico è cambiato, e i malintesi sono frequenti”.
In realtà le preoccupazioni degli anziani non sembrano così assurde, visto che abbiamo un grande bisogno di insegnanti, medici e infermieri…
“Ovvio! Ci servono delle persone che si presentino fisicamente al lavoro alle 8 del mattino in punto. Per questo è importante provare a capire i divari tra generazioni. I dirigenti anziani devono spiegare ai giovani perché le cose vanno fatte in quella determinata maniera. Se c’è una cosa che dà fastidio ai ragazzi e alle ragazze è un capo che impartisce ordini senza dare spiegazioni. I giovani sono disposti ad ascoltare e la maggior parte vuole fare bene il proprio lavoro. Spiegare aiuta e riduce la distanza, questo è evidente. La pandemia ci ha dato una grossa mano. Anche le generazioni più anziane hanno apprezzato la flessibilità e lo smart working. E hanno cominciato a capire cosa vogliono i ragazzi”.
Per tutta la vita
Oda Randby ha 27 anni. Aveva immaginato di fare l’infermiera per tutta la vita. Le piace prendersi cura degli altri, considera essenziale e gratificante essere a disposizione delle persone che vivono momenti critici. Ma dopo alcuni anni di servizio ha gettato la spugna. “Non è divertente dover abbandonare amici e parenti per il terzo Natale di fila perché devi lavorare”, dice. Poi aggiunge: “A dire il vero a me non dispiacevano i turni a Natale, erano i familiari che si lamentavano”.
Oggi Randby frequenta il secondo anno del corso universitario di scienze dell’amministrazione e management. Ha appena dato un esame e si paga gli studi lavorando a gettone al pronto soccorso.
Si è licenziata a causa degli orari di lavoro troppo pesanti?
“No, me ne sono andata per motivi politici. I turni di notte mi piacciono, e sono tanti quelli a cui non dispiace lavorare la notte di Natale, anche se il sistema tende a non tener conto delle richieste dei dipendenti. Secondo me la professione infermieristica non migliorerà nei prossimi decenni. Avevo scelto questo lavoro perché volevo assistere gli altri, ma non ne avevo il tempo. Per quanto un’infermiera s’impegni, non è mai abbastanza”.
Randby ritiene che il mestiere dell’infermiere sia diventato più difficile, ma anche che i suoi coetanei abbiano un atteggiamento nei confronti del lavoro diverso da quello delle generazioni precedenti.
“Oggi uno studente di infermieristica deve seguire una formazione più ampia e svolgere mansioni diverse, anche lontano dai pazienti. La mia generazione è cresciuta con l’idea che possiamo diventare quello che vogliamo. È evidente che non viviamo per lavorare, ma lavoriamo per vivere”, osserva Randby, prima di aggiungere che non si tratta necessariamente di una novità positiva. “Tanto per dire, di quanti vigili del fuoco e di quanti influencer abbiamo bisogno? Nella mia classe, sei persone su trenta si sono diplomate in infermieristica. A quanto ne so, una sola fa ancora l’infermiere”. Randby non sa bene dove la porterà la laurea, ma è sicura di non voler rimanere nel sistema sanitario. “Temo che fare il dirigente di medio livello nella sanità significhi essenzialmente essere pagati per essere presi a pugni in faccia. Io vorrei solo una vita normale”.
Insieme ad alcune colleghe, Anne Mette Ødegård, esperta di scienze politiche e ricercatrice della fondazione Fafo, ha cominciato nel 2017 a studiare le aspettative dei giovani in materia d’impiego. Il risultato più interessante e sorprendente è stato scoprire che desiderano soprattutto una vita inquadrata. “Credevamo che i giovani volessero una maggiore flessibilità per provare diverse strade, ma non è vero”.
Da anni la fondazione conduce una ricerca che, usando i dati dei sindacati, valuta l’atteggiamento verso il lavoro delle persone tra i 16 e i 25 anni. “La stragrande maggioranza vuole un posto fisso, una vita inquadrata e la possibilità di lavorare a contatto con le persone”, spiega Ødegård. Ma stanno emergendo anche nuove tendenze.
“Se i giovani da un lato sono tradizionalisti, dall’altro si rapportano alla vita lavorativa con modalità inconsuete. Un esempio è il cosiddetto quiet quitting”, cioè quel comportamento – rivendicato per la prima volta su TikTok nel 2022 – per cui il dipendente si limita a fare il minimo indispensabile, senza accettare mansioni supplementari o straordinari. “I giovani sono molto attenti all’equilibrio tra vita privata e lavoro, anche se non abbiamo dati scientifici al riguardo”, prosegue Ødegård. “Considerando che siamo connessi giorno e notte, non è innaturale pensare che i giovani sentano il bisogno di mettere dei limiti. Perché spesso lo sviluppo della vita lavorativa è legato ai progressi tecnologici”.
Anche nel suo ambiente lavorativo Ødegård ha conosciuto giovani che rifiutavano di pensare esclusivamente alla carriera. “Ci sono avvocati che non hanno nessuna intenzione di stare in studi legali di grido dove i collaboratori sono spremuti come limoni. Non ritengono che passare tutta la vita in un ufficio, logorandosi fino allo stremo, accresca il loro status sociale”.
Senza impegno
“Per un motivo o per l’altro, l’impegno dei giovani sul lavoro è diminuito drasticamente”. Sono le parole con cui l’estate scorsa la rivista economica statunitense Inc. ha presentato i risultati di un sondaggio condotto dall’istituto Gallup. I dati evidenziavano un sensibile calo dell’impegno lavorativo tra i giovani statunitensi. In fondo alla classifica c’erano i giovanissimi della generazione Z: solo il 35 per cento dichiarava di impegnarsi sul posto di lavoro, 5 punti in meno rispetto al 2020.
Alla luce di quest’indagine vari mezzi d’informazione specializzati hanno voluto approfondire la situazione. Business Insider ha chiesto un commento a Khyati Sundaram, amministratrice delegata della piattaforma di selezione del personale Applied: “Credo che molti datori di lavoro siano rimasti indietro nel comprendere le priorità della generazione Z, che sono sostenibilità, diversità, salute mentale”, ha risposto Sundaram. “Sono tutti fattori che è logico aspettarsi in un luogo di lavoro moderno. In fin dei conti tutti vogliono vivere meglio”.
Quello sottolineato da Sundaram è un elemento essenziale. Anche la Deloitte ha voluto ascoltare i suoi dipendenti più giovani, e ha chiesto a oltre 23mila ragazzi e ragazze di più di quaranta paesi cosa pensano di formazione, lavoro e salute.
“Credo che per i giovani la vita lavorativa sia in parte una delusione”, dice Cecilia Flatum, dirigente alla Deloitte per i paesi scandinavi. “Le nuove generazioni hanno imparato che possono essere e fare ciò che vogliono. Ma non sono preparate ad accettare che un quarto delle mansioni di un impiego possa essere estremamente noioso”.
Mancato controllo delle modalità e dei luoghi di svolgimento delle mansioni, sensazione di ingiustizia nei processi decisionali e orari pesanti: secondo l’indagine svolta da Deloitte sono questi i tre elementi che provocano più stress e ansia ai giovani. Un intervistato su quattro ha dichiarato di provare “costantemente o spesso ansia o timore”.
Il 22 per cento dei norvegesi della generazione Z, rispetto al 14 per cento al livello globale, dichiara di aver lasciato l’impiego precedente per burnout. Il 20 per cento ha spiegato che il principale motivo delle dimissioni era stato la mancanza di senso di appartenenza al posto di lavoro. Per i norvegesi è molto importante che “il lavoro abbia un senso”.
“I dipendenti della nuova generazione mi piacciono”, osserva Flatum, pur ammettendo di non capire perché i giovani norvegesi siano più insoddisfatti e stressati della media globale. Poi prova a darsi una spiegazione: “Magari sono cresciuti un po’ troppo nella bambagia…”. Per quale motivo le piacciono questi giovani? “Sono bravi e hanno fiducia in se stessi. Ed è bellissimo credere che il lavoro debba avere un senso. Abbiamo bisogno di persone del genere al livello dirigenziale. Ma non mi dispiacerebbe se avessero una migliore salute mentale, se fossero un po’ più resistenti e affrontassero meglio le frustrazioni. Ma ci stiamo lavorando”.
“Dovremmo chiedere ai giovani che tipo di persone desiderano diventare”
In che modo? “Abbiamo messo in campo diverse misure concrete. Ogni dipendente, per esempio, può contare su un benefit benessere di tremila corone (250 euro) all’anno. Deve solo presentare la ricevuta e rimborsiamo quanto ha speso. Magari qualcuno ha comprato degli pneumatici chiodati per la bicicletta, perché non voleva rischiare di scivolare. Ecco, anche questo è rimborsato”.
Oltre a ciò, i dipendenti della Deloitte hanno a disposizione dodici ore all’anno per sedute di terapia, colloqui con sacerdoti oppure incontri con operatori sociosanitari chiamati “tutor del benessere”.
“Abbiamo anche intensificato i sondaggi: ora non si tengono più una volta all’anno, ma tre. Sono stati i giovani a chiedercelo, ma anche per noi è importante misurare il polso della situazione e operare sulla base di dati concreti”. A ottobre, in occasione della giornata mondiale della salute mentale, la Deloitte ha organizzato il “mese del benessere”, con una serie di seminari online. “Avevamo già i ‘mercoledì del benessere’, in cui venivano forniti suggerimenti per prendersi cura di sé. Questa volta abbiamo voluto mettere in campo un programma mensile”.
Chi si avvale di questi benefit?
“Tutti, non solo i giovani, anche se sono loro i più interessati”.
Non è chiaro cosa pensi Jesper K. Høva, il medico che si è trasferito alla Deloitte, di questi benefit. È più interessato a ricordare l’intervento del 2023 della commissione governativa sul personale sanitario: “Le attuali modalità di cura e assistenza non sono sostenibili. Dobbiamo lavorare in modo più razionale e dotarci di strumenti che aumentino l’efficienza del sistema”.
Secondo Høva, più degli aumenti di stipendio, è questa la chiave per migliorare la capacità degli ospedali di attirare i giovani dipendenti. Del resto lui stesso ha deciso di guadagnare di meno pur di avere più tempo per la vita familiare.
Nicolai Tangen, direttore del fondo sovrano norvegese, che gestisce le entrate dell’industria petrolifera, ritiene invece che le giovani generazioni siano troppo interessate al guadagno. Qualche tempo fa, in un post su LinkedIn, Tangen ha citato un sondaggio statunitense in cui a persone di età diverse veniva chiesto lo stipendio annuo necessario per considerarsi “individui di successo dal punto di vista finanziario”. La generazione Z ha indicato una cifra quasi tripla di quella della generazione X.
Assenze e ansia climatica
Karl-Fredrik Tangen (nessuna parentela con Nicolai) è un geografo sociale e insegna all’Istituto di marketing della Kristiania university di Oslo. Davanti al post di Nicolai Tangen trattiene a stento una risata, ma per il resto non trova particolarmente interessanti i discorsi sulle differenze tra generazioni. È convinto che dovremmo essere più cauti nel dispensare analisi e consigli.
“Le nuove generazioni hanno imparato che possono essere e fare quello che vogliono”
“La cosiddetta teoria generazionale è molto più diffusa tra i ciarlatani che in ambito accademico. La generazione Z non è così strana, sono solo giovani”, osserva. “Queste storie vanno bene per i titoli dei giornali e le conferenze, ma è assurdo prendere decisioni basandosi sull’idea distorta secondo cui una determinata generazione è fatta in questo o in quel modo”.
Ma viste le difficoltà che alcuni settori professionali stanno affrontando per assumere i giovani, non sarebbe utile per i dirigenti identificare le esigenze di ragazzi e ragazze e adeguarsi di conseguenza?
“È sempre importante adattarsi alle necessità dei dipendenti creando organizzazioni funzionali per tutti”, risponde Tangen. “Ma non ha senso inseguire in particolare i giovani. Quattro anni fa praticamente tutti i ragazzi desideravano occuparsi di sostenibilità in un luogo di lavoro sostenibile e acquistare prodotti sostenibili. Il loro esempio era Greta Thunberg. Oggi i giovani norvegesi seguono piuttosto Donald Trump o il giovane e discusso politico Simen Velle. Si sono stancati del politicamente corretto. Anche per questo tutte le chiacchiere sulle generazioni sono insopportabili”.
Quindi è inutile che la Deloitte offra sedute psicologiche per soddisfare le esigenze dei giovani?
“Quello che sicuramente è assurdo è che i giornali facciano il gioco della Deloitte diffondendo come veri e accertati i risultati delle sue indagini interne sulle differenze generazionali. Come le altre grandi aziende di consulenza, la Deloitte ha interesse a far credere alla gente che il mondo stia affrontando il più grande mutamento di tutti i tempi. Perché se il mondo cambia dobbiamo tutti riorganizzarci. E di cosa abbiamo bisogno per farlo? Di consulenti”.
Su due cose, tuttavia, Tangen è d’accordo: la difficoltà nel reperire personale, per esempio nel sistema sanitario, e l’utilità di identificare le esigenze e le ragioni dei ragazzi e delle ragazze.
“Non è né importante né giusto mettersi a gridare: ‘Guardate quanto sono strani i nuovi dottori!’. Piuttosto prendiamo atto che la professione è cambiata. L’organizzazione degli ospedali ha reso il lavoro dei medici più complesso e meno libero rispetto a vent’anni fa. Dobbiamo anche avere l’umiltà di dire che forse abbiamo fatto una stupidaggine a organizzare la giornata lavorativa dei medici in questo modo. Sicuramente degli interventi migliorativi servono”.
Ma non è curioso che siano sempre i giovani a ribellarsi?
“No, i giovani non si ribellano in quanto appartenenti a una generazione particolare. Lo fanno perché attraversano una fase della vita in cui hanno figli piccoli, e perché non hanno ancora maturato gli stessi diritti dei medici più anziani, per riferirci alla sanità. L’associazione dei giovani medici è stata fondata nel 1911”.
Lei insegna alla Kristiania university. Non trova che gli studenti di oggi siano diversi da quelli del passato?
“Forse vogliono più corsi su misura, cose del genere. In parte può essere vero. Ma non è un tema su cui rifletto spesso”.
Rimbocchiamoci le maniche
Chi invece su questi temi ha riflettuto molto è l’ex dirigente scolastica danese Birgitte Vedersø. “Negli ultimi dieci anni ho assistito a un’evoluzione della scuola danese che mi ha fatto pensare e mi ha spinta a chiedermi cosa stia succedendo davvero”. Vedersø ha lavorato nella scuola per più di vent’anni, prima di licenziarsi e scrivere un libro, appena uscito, intitolato Jeg kan ikke gå til eksamen, jeg har fået klimaangst (Non posso sostenere l’esame, mi è venuta l’ansia climatica).
“La prima volta che uno studente ha indicato l’ansia climatica come giustificazione per un’assenza ho reagito con diffidenza, come tanti altri. Quando però ne ho parlato a persone di meno di trent’anni, mi sono accorta che per loro è come dire di avere l’appendicite. È un motivo legittimo per mancare da scuola”.
Vedersø si è incuriosita e per approfondire il tema ha letto il rapporto redatto dal Centro danese di ricerca sui giovani. “Il documento indica tre fattori sociali che segnano l’esistenza dei giovani: il ritmo frenetico della vita, la tendenza a misurare o pesare ogni cosa e la diffusa psicologizzazione. Non abbiamo più paura che in passato, per esempio, ma ci viene l’ansia.
Avere paura è una sensazione quotidiana, mentre l’ansia è una diagnosi che richiede un trattamento…
“La ‘società della performace’ non se la sono certo inventata i ragazzi”, commenta Vedersø. “Pensate alla mia generazione, tutta presa a contare passi, calorie, like e avanzamenti di carriera. Il problema dei giovani in età scolare è che sono considerati solo in base ai voti che prendono. Dovremmo invece chiedergli che tipo di persone desiderano diventare”.
Quindi è la scuola a essere cambiata, non i giovani?
“La scuola è certamente diversa. Forse abbiamo dimenticato le relazioni umane, nella corsa per formare i lavoratori del futuro. Credo che dobbiamo andare incontro ai giovani con curiosità e apertura”.
E imparare da loro: “Quando noi della generazione X cercavamo il primo lavoro, stringevamo i denti dicendoci: ‘Per fare il mestiere dei sogni posso sopportare questo martirio quattro o cinque anni’. Neanche questa pratica è più sostenibile”.
Alla fine cosa ha detto allo studente assente per via dell’ansia climatica?
“Gli ho solo detto: ‘Be’, rimbocchiamoci le maniche, e vediamoci domani’. E non mi pento di averlo detto”.
Jesper K. Høva dice di non aver chiuso con l’ospedale una volta per tutte. Se il sistema sanitario cambierà, potrebbe tornarci. Ma non è ancora il momento. “Oggi è possibile programmare la fase della vita in cui avere figli. E quando succede vuoi stare con loro. I bambini vengono prima del lavoro”.
Non credo che tutti la pensino così…
“Forse no. Ma per me i figli sono la priorità. E ritengo che sia lo stesso per tanti giovani di oggi”. ◆ lv
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Questo articolo è uscito sul numero 1611 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati