A bordo dell’autobus diretto a Teuchitlán, nello stato messicano di Jalisco, Carmen Carrillo ingrandisce sul cellulare l’immagine di un paio di pantaloni stesi su uno sfondo azzurro. Ne scruta ogni dettaglio, ogni piega. Poi chiude la foto e cerca nella sua galleria un’immagine a figura intera del figlio scomparso. Quando la trova, si concentra sui jeans che indossava, li ingrandisce, poi richiude la foto e, in un rituale senza fine, torna all’immagine dei pantaloni con l’etichetta 61, il numero che la procura di Jalisco ha assegnato all’indumento scoperto nel rancho Izaguirre. Anche se si tratta di un paio di pantaloni di jeans blu senza taglia e senza marca, Carrillo è sicura che siano di Dani. “Una madre sente quando i figli la chiamano”, dice. “Dani mi è sempre stato molto legato”.
Per questo ha preso un autobus da Guadalajara fino al centro del paese di Teuchitlán, a pochi minuti dalla fattoria dove all’inizio di marzo sono stati rinvenuti questi pantaloni insieme ad altri 435 capi di abbigliamento, 154 paia di scarpe e 18 valigie: i resti della catastrofe che si è consumata in quel luogo. Le testimonianze mute di una tragedia. Vestiti abbandonati, i cui proprietari sono spariti nel nulla. Potrebbero essere stati reclutati dal cartello locale (molti sono ingannati con false promesse di lavoro) o uccisi negli addestramenti disumani che si svolgevano nella tenuta.
Carmen Carrillo ha cominciato a sentire che qualcosa non andava all’inizio di marzo, quando ha avuto il coraggio di guardare il telegiornale. “Tra le immagini della fattoria di Teuchitlán ho riconosciuto i pantaloni che mio figlio indossava il giorno in cui l’hanno portato via, il suo portafoglio e un paio di boxer. Quel giorno portava anche delle scarpe da ginnastica Vans, però quelle che pensavo fossero sue avevano dei quadratini sui lati. Quindi mi sono sbagliata, le sue non sono tra quei resti. Ma i pantaloni, i boxer e il portafoglio sono di mio figlio”.
Spinta da questa intuizione Carrillo ha infilato nello zaino alcuni fiori di plastica bianchi e una candela. “Li lascerò alla tenuta con la parte del cuore che mi hanno strappato. Tutto il mio amore va a lui”, dice. Ha fatto stampare un poster che mostra il figlio sorridente con i suoi dati: “Daniel Alberto Velasco Carrillo. Privato della libertà il 22 novembre 2022”. Accanto ha aggiunto alcune immagini sfocate – spiega che sono una scarpa da tennis nera, un portafoglio, dei jeans – che ha preso dalla galleria dell’orrore pubblicata dal collettivo Guerreros buscadores de Jalisco, formato da persone che cercano familiari scomparsi.
Il 5 marzo il collettivo è entrato nella fattoria Izaguirre, ha scavato alcune buche e ha trovato tre forni con resti umani bruciati. La scoperta ha rivelato anche il pessimo lavoro forense svolto dalla procura nella stessa fattoria dove sei mesi prima erano state trovate tre persone sequestrate, di cui una morta. C’erano stati dieci arresti, ma la procura non aveva capito che il sito fosse anche un centro di sterminio. Ogni oggetto, ogni capo d’abbigliamento, ogni dentatura trovata potrebbe essere un indizio per identificare una delle più di quindicimila persone scomparse nello stato.
“Sono vestiti uguali a quelli che Dani aveva il giorno in cui me l’hanno strappato. Sono stati rinvenuti in quella fattoria piena di terrore, orrore, dolore e sofferenza. Cosa ti hanno fatto, figlio del mio cuore?”, ha scritto Carrillo sullo striscione che tira fuori dalla borsa quando arriva nel piazzale di una stazione di servizio. Ci sono già altre madri, che indossano magliette con le foto dei figli e delle figlie scomparse. Molte piangono. Si sentono orfane dei loro stessi figli. Orfane, perché non ci sono altre parole per descrivere la perdita di un figlio.
Carmen Carrillo, in ogni caso, è sicura che Daniel sia già morto. Il loro legame non l’ha mai ingannata. Come quando fu picchiato e lei corse da lui, avvertendo che qualcosa non andava. È successo molto prima che il ragazzo fosse sequestrato su una strada di Zapopan e portato via per sempre.
Figlio, ascolta
Una banda musicale di bambini apre la processione con un Cristo crocifisso e insanguinato. Poi segue il corteo formato da madri addolorate, che hanno perso i figli. Gli abitanti della zona cedono il passo in segno di rispetto al pellegrinaggio di famiglie provenienti da tutto lo stato di Jalisco; molti piangono pensando alla loro disgrazia. Alcuni telegiornali hanno definito la fattoria “la piccola scuola del terrore”, per le storie che circolano di persone picchiate a morte, mangiate dagli animali, bruciate vive o dopo essere state uccise. Carrillo si è aggregata alla processione religiosa che il 16 marzo ha attraversato le strade di Teuchitlán fino alla chiesa del Señor de la ascensión, dove è stata celebrata una messa.
La donna racconta di come si era lasciata alle spalle i mesi in cui voleva morire per il dolore che provava. Sentiva sul suo corpo le ferite che avevano inferto al figlio: “Sembrava che mi stesse per esplodere la testa, mi faceva male tutto, mi bruciava lo stomaco, avevo i crampi alle gambe. Non ho mai più sentito crampi del genere”, dice. Ha vissuto con lui questa morte lenta.
Nel gennaio 2023 Carrillo aveva fatto celebrare una messa e organizzato una veglia funebre in sua memoria. L’ultimo giorno della novena aveva avuto una rivelazione: “Ho dormito a lungo. Quando mi sono svegliata ho visto che era mattina. Non sentivo più alcun dolore, non sentivo nulla. Sono andata in bagno, ho avvertito qualcosa di simile a un distacco e ho pianto molto. Il mio compagno mi ha chiesto se ci fosse qualcosa che non andava. Gli ho risposto: ‘Se n’è andato, non è più con me’. ‘Perché dici così?’, mi ha chiesto. ‘So che se n’è andato’”. Piange ricordando quel momento.
Da due anni Carrillo si sentiva triste ma in pace. Ha provato di nuovo qualcosa di strano quando ha visto sui social network quel paio di pantaloni con il numero 61. “Sono suoi. Sono identici: marca, modello, taglia, colore, usura”. Ha riconosciuto anche i boxer che a volte gli lavava, uno dei quattro che aveva. Ora Carrillo ha fretta di controllare quel portafoglio che sembra uguale a tutti gli altri e che ha stampato sul poster: “È il suo. Portava sempre con sé un santino di san Giuda e un foglietto con alcuni numeri di telefono, tra cui il mio. Se non hanno tolto nessun documento, dev’essere lì”.
Il suo Dani, dice la donna, le è ancora vicino, le parla, le accarezza i capelli e a volte la mano. Vuole dirgli addio in quella fattoria del terrore, ed è per questo che oggi è venuta. “Voglio mettere una candela lì e lasciargli questi fiori il più vicino possibile. Se è arrivato il momento di dirgli addio, voglio che vada via in pace, nella luce, con tanto amore. Voglio dirgli quanto mi manca e che lo amerò sempre. E aspetterò fino all’ultimo giorno della mia vita: quando sarà il mio momento di andarmene sarà il primo che cercherò”.
“Sono stati presi vivi e vivi li rivogliamo”, si sente per le strade di Teuchitlán. È un coro di donne che grida anche i nomi delle persone scomparse. “Figlio, ascolta, tua madre lotta”, gridano. Poi passano a un altro slogan, che sembra uno schiaffo a chi riprende e trasmette il pellegrinaggio in diretta dai marciapiedi come se fosse uno spettacolo: “Signore, signora, non sia indifferente, stanno portando via i nostri figli davanti alla gente”.
Non trova le parole per spiegare cos’ha provato. Parlare di disperazione, tristezza e impotenza non basta a restituire la sua sensazione
Tra le madri c’è Norma Lorena Cabrera Solórzano, del collettivo Guerreros buscadores de Jalisco. Si trovava nella fattoria Izaguirre il 5 marzo, quando il gruppo è entrato nel campo dove gli aspiranti sicari si allenavano uccidendo altri giovani, molti dei quali reclutati con la forza.
Quel giorno Cabrera Solórzano è arrivata in ritardo. Ha camminato a lungo con il gruppo, ha ispezionato il campo che in altri momenti dell’anno era circondato da canne da zucchero e ha raggiunto il capannone coperto dove ci sono “le stanze”. Lì ha visto una distesa di vestiti abbandonati: sembravan0 i resti di un naufragio. “Ero sconvolta”, racconta. “Mi si è annebbiata la vista, mi sono sentita mancare. Mi tremavano i piedi, avevo il cuore in gola. Non potevo dire nulla perché ero senza parole. Avevo un solo pensiero: ‘Se mio figlio è stato cremato, se è stato qui, se è arrivato con dei vestiti e glieli hanno tolti, non riuscirò mai a trovarlo’”.
Ricordando quel momento, gli occhi le si riempiono di lacrime. Non trova le parole per spiegare cos’ha provato. Parlare di disperazione, tristezza e impotenza non basta a restituire la sua sensazione. “Piangevo”, dice. “Cercavo i vestiti di mio figlio, anche se so che i criminali fanno sempre cambiare le persone che reclutano, perché sanno che la famiglia le cercherà con i vestiti che indossavano quando sono scomparsi. Sono furbi: ci depistano e complicano la nostra ricerca”.
Cabrera Solórzano ricorda il berretto con le iniziali Cjng (cartello di Jalisco Nueva generación) cucite sopra, una tessera elettorale, i secchi con la cenere. “Ci sono persone che ancora non si rendono conto di cosa abbiamo visto, di cosa abbiamo provato a essere lì”.
Cabrera Solórzano non smetterà di cercare suo figlio. Si blocca quando ricorda che nella fattoria i criminali usavano il fuoco per sbarazzarsi delle loro vittime. Un metodo molto adoperato in Messico per far sparire ogni traccia delle persone. E lei, che cerca il figlio da anni, sa cosa significa: “Se mio figlio è qui non saprò mai niente di lui. Non potrò mai trovare i suoi resti, così come quelli di molti altri ragazzi che sono stati in questo posto. Non sapremo mai davvero se sono stati qui o no. Non potremo fare il test del dna”.
Cenere
Secondo Alejandra Guillén González, giornalista e ricercatrice che si occupa dei centri di sterminio di Jalisco, la fattoria Izaguirre è solo un anello della catena dei luoghi in cui i criminali portano le persone reclutate a Guadalajara attraverso false offerte di lavoro. Molte vittime arrivano da varie parti del paese, convocate alla stazione degli autobus di Tlaquepaque. da lì le loro tracce si perdono.
Il circuito delle sparizioni copre la regione di Valles di Jalisco, passando per il Bosque de la Primavera, attraverso la catena montuosa di Ahuisculco fino a Vallarta. In quei luoghi i futuri sicari ricevono un addestramento che consiste nel picchiare a morte altri giovani reclutati come loro, smembrarli e bruciarli.
Per un anno lo hanno intimidito su WhatsApp. Ha consultato una cartomante che gli ripeteva di non preoccuparsi
Molte delle madri di Jalisco che hanno partecipato alla processione sono indurite dall’infinità di orrori che hanno scoperto: nel 2018, in un terreno incolto, due “camion della morte” dentro cui la procura aveva ammassato più di duecento corpi che si erano putrefatti; poi la notizia dell’omicidio di tre studenti di cinema che secondo le autorità erano stati sciolti nell’acido perché avevano girato un video in una casa proibita; nel 2019, la notizia di cinquecento corpi che erano stati inceneriti nell’obitorio e di cui si era persa l’identità; nel 2023, la scomparsa di cinque giovani che avevano visitato un belvedere a Lagos de Moreno e il video che li ritrae mentre si uccidono a vicenda.
Ma la scoperta della fattoria Izaguirre le ha colpite in modo diverso. Le immagini delle fosse con i resti dei corpi bruciati le perseguitano. Non è la stessa cosa trovare un corpo, uno scheletro o delle ceneri. Non si misurano più i resti in base ai frammenti di ossa, ma ai chilogrammi di polvere. Gli esperti forensi sanno che, se una persona è sottoposta all’inferno in vita, l’identificazione diventa difficile. A seconda del combustibile usato, del tempo e dell’intensità del calore, alcune ossa possono salvarsi, altre no.
Lo stesso vale per gli oggetti metallici: fibbie, bottoni, denti d’oro, ferretti dei reggiseni, viti chirurgiche. Con un po’ di fortuna un esperto li raccoglie, li porta in laboratorio e li confronta con le prove genetiche che le famiglie in cerca di un familiare scomparso hanno lasciato in tutto il paese. Ma questa fortuna è molto rara a Jalisco, dove le prove non vengono raccolte né tantomeno conservate dalle autorità.
Minacce e paura
Dal 2019 Gloria Becerra Ramírez ignora dove sia il fratello Miguel Ángel. In quella che considera “la ricerca più triste di tutte”, la donna racconta che nella tenuta di Izaguirre hanno trovato tre forni e “solo ossa”. Questa domenica Ramírez partecipa alla messa per conto di Indira Navarro, leader dei Guerreros buscadores de Jalisco. Prima di tornare a supervisionare il lavoro che la procura sta facendo nella tenuta, dice: “Abbiamo trovato molte persone, ma mai una situazione come questa. Scavando sembrava di sentire le urla delle vittime. C’era un’atmosfera terribile, avvertivamo le sofferenze di chi è stato qui”.
Alla fine della messa, dal pulpito, il sacerdote annuncia che la visita prevista alla fattoria è stata annullata per non ostacolare il lavoro della procura dopo l’esposto delle famiglie.
Le madri, arrivate fino a qui come spinte da un presentimento, capiscono che non potranno vedere le prove con i loro occhi. Non potranno entrare in quella fattoria che è diventata un cimitero e non potranno deporre fiori, accendere una candela, cercare di sentire se i figli scomparsi gli stanno mandando qualche segno.
Le famiglie che hanno un mezzo di trasporto proprio vanno verso l’ingresso della fattoria, ma un gruppo di poliziotti blocca chi si avvicina. C’è María de la Luz Ruiz Gutiérrez, che ha convinto il compagno ad accompagnarla a Izaguirre in moto. Chiede alle guardie di poter vedere se ci sono vestiti di suo figlio Elías Sánchez. Le rispondono di andare alla procura di Guadalajara. Presa d’assalto da uno sciame di giornalisti in cerca di testimonianze, Ruiz Gutiérrez ripete a tutti la stessa storia. Non sa chi lo ha portato via, all’epoca lei non viveva a San Juanito Escobedo, suo figlio era buono, lavorava nel settore del mezcal. “Ho partecipato alla processione perché mi sono detta: ‘Se vanno tutti, entriamo tutti’. Ma è arrivata la polizia”.
La donna si mette il casco e si toglie la maglietta con la foto sfocata del suo Elías. Vuole allontanarsi dai giornalisti. È sconvolta quando scopre che la corona di fiori che ha portato si è rovinata durante il tragitto. Non riesce a muoversi, i giornalisti la accerchiano, così ripete la sua storia e piange sempre più forte.
L’uomo che è con lei, il conducente della moto, racconta che quando hanno cominciato a frequentarsi hanno scoperto di avere qualcosa in comune: un figlio scomparso. Lei lo ha spinto a liberarsi della paura e a cominciare a cercarlo.
◆ Dopo aver ricevuto varie segnalazioni anonime, il 5 marzo 2025 quaranta persone del collettivo Guerreros buscadores de Jalisco, che cerca persone scomparse nello stato messicano di Jalisco, sono entrate nel rancho Izaguirre, una fattoria vicino a Teuchitlán. Sul posto hanno trovato resti umani, fosse comuni e centinaia di indumenti e oggetti appartenuti presumibilmente alle vittime. Secondo il collettivo, la fattoria era usata dai cartelli del narcotraffico e dai gruppi criminali come centro di addestramento per futuri sicari reclutati con false promesse di lavoro. Tutta la regione è controllata dal cartello di Jalisco Nueva generación. Secondo i registri ufficiali del governo, dal 2006 a oggi in Messico sono scomparse più di 125mila persone. Lo stato di Jalisco è uno dei più violenti del paese. Bbc
In un monologo davanti ai giornalisti, l’uomo si scusa: sette anni fa, quando suo figlio è stato portato via, lui ha ricevuto varie minacce solo per aver fatto delle domande. Per un anno lo hanno intimidito con messaggi su WhatsApp. L’unica cosa che ha fatto è stata consultare una cartomante che gli ripeteva di non preoccuparsi. Aveva paura. Ora che si è innamorato di una madre che cerca suo figlio è di nuovo terrorizzato. Si sente allo stesso tempo colpevole e timoroso delle conseguenze. È questo il peso che le autorità con la loro mancanza di iniziativa lasciano ai parenti: chi cerca una persona scomparsa corre anche dei rischi.
“In pochi cercano i cari che scompaiono, perché ricevono minacce. Hanno minacciato anche me. Mi hanno spaventato, non ho cercato di sapere dove fosse mio figlio e mi fa soffrire. Anche lui è scomparso sette anni fa. Si chiama Rubén Eduardo Reyes Ávila. La verità è che sono stato un padre pauroso. Ora che ho visto questo luogo, ho pensato che potrebbe esserci anche lui. Mi sento in colpa per quello che gli è successo, non l’ho cercato perché avevo paura”.
È venuto qui perché pensa che alcune scarpe da tennis del catalogo pubblicato dal collettivo siano di suo figlio. “Mia nuora le ha identificate: sono scarpe da tennis che si erano rotte e lui le aveva incollate”, dice. I poliziotti gli ripetono di andare in procura. Ma la madre di Elías non nasconde la sua frustrazione. Su internet non riesce a vedere le foto per poter riconoscere qualche indumento del figlio.
“È più facile vedere i vestiti qui, perché non so usare bene il mio telefono, non funziona”, spiega.
Non se ne va. Guarda in lontananza, verso la fattoria della morte, dove crede che finirà il suo pellegrinaggio di ricerca: “Sento che è qui o che è stato qui. Non posso escludere nulla. Devi vedere le cose con i tuoi occhi per capire. È un ago in un pagliaio, non credo che lo troverò mai. Ma so che è qui, in mille pezzi, e lo troverò”. La sua voce si spezza. “L’hanno ucciso, comunque”.◆ fr
Marcela Turati è una giornalista messicana nata nel 1974. Ha fondato e coordina il sito A dónde van los desaparecidos, che si occupa di diritti umani e persone scomparse in Messico.
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Questo articolo è uscito sul numero 1610 di Internazionale, a pagina 51. Compra questo numero | Abbonati