In un mio confuso ricordo d’infanzia, dei soldati irrompono in casa. Vogliono interrogare mio nonno, sospettato di nascondere una persona ricercata. Successe in Etiopia poco dopo l’inizio della rivoluzione del 1974, che avrebbe rovesciato l’imperatore Hailé Selassié e instaurato una giunta militare guidata da Mengistu Haile Mariam. Il nuovo regime, che si faceva chiamare Derg, dava la caccia ai dissidenti considerati “nemici dello stato”. Ogni notte, vicino alla nostra casa ad Addis Abeba, c’erano scontri a fuoco tra gruppi di ribelli e forze governative.
Ero nella sala da pranzo, in piedi accanto a mio nonno, quando la porta si spalancò di colpo e tre soldati fecero irruzione. Ricordo distintamente uno di loro. Era giovane, con il viso sottile e gli occhi così spiritati da sembrare anche lui spaventato. La mia mente ha sovrapposto il suo viso a quello degli altri due uomini e così, quando il ricordo riaffiora (succede spesso), i soldati sono tre gemelli che ci urlano contro all’unisono. Mia nonna gridò il mio nome e mio nonno mi spinse dietro di sé. Tremavo tutta e ricordo che, mentre mi stringevo contro la sua gamba, mio nonno posò la mano su di me per tranquillizzarmi. Vidi il soldato giovane avanzare. Scostò mio nonno e s’inginocchiò davanti a me. Si chinò in avanti, sorrise e, senza più un’ombra di durezza, chiese: “C’è qualcun altro qui?”.
Sì, c’era qualcun altro in casa, un estraneo che si nascondeva dentro uno stanzino solitamente usato come ripostiglio. Mi avevano vietato di avvicinarmi, ma lo avevo fatto comunque. Un giorno la porta era rimasta socchiusa, avevo sbirciato dentro e – se la memoria non m’inganna – avevo incrociato lo sguardo di un uomo ferito, coperto di bende. Conoscevo la risposta alla domanda del soldato, ma sapevo anche che non era quello che dovevo rispondere. Scossi la testa. I soldati uscirono e si diressero verso un’altra casa. Nel silenzio che seguì, i miei nonni mi abbracciarono e mi dissero che eravamo al sicuro. Poi si raccomandarono entrambi di non parlare mai più di quello che era successo. E così è stato. Non ho mai saputo chi era l’uomo né che fine aveva fatto.
Negli anni trascorsi da allora ho cercato di dare un senso a quell’episodio. I miei nonni sono morti. I miei genitori quel giorno non erano in casa. Sono rimasta l’unica a portare quel ricordo, che negli anni è diventato sempre più pesante. Ho dovuto ripercorrere faticosamente i tanti eventi accaduti da allora. La rivoluzione si è abbattuta sulla mia famiglia. Alcuni parenti sono stati imprigionati, altri uccisi. Il Derg non consentiva di organizzare riti funebri per quelli che chiamava i suoi nemici. Il silenzio unito alla paura hanno contenuto il dolore a tal punto che solo nell’estate del 2005, mentre guidavo ad Addis Abeba in compagnia di mia madre, ho scoperto di avere tre zii morti durante la rivoluzione. Eravamo bloccate nel traffico dietro un pick-up della polizia. Dei ragazzi, alcuni con il viso segnato dalle percosse, ci fissavano dal retro. “Ne ho visti così tanti”, disse mia madre. Poi mi raccontò dei fratelli e dei giochi che facevano insieme. In seguito, quando le ho chiesto di parlarmi ancora del fratello a cui era più legata, mi ha cantato una canzone della sua infanzia, piangendo.
Qualche anno fa ho visitato la nuova sede dell’Unione africana ad Addis Abeba, un imponente edificio finanziato dalla Cina, con un auditorium grandioso. All’interno, un monumento alle vittime delle violazioni dei diritti umani spiega che l’edificio sorge dove un tempo si trovava la prigione di Akaki, il carcere centrale del paese, chiamato Alem bekagn o “addio al mondo”. Non si conosce la data esatta della sua costruzione, ma è sopravvissuto a una serie di regimi: fascista, monarchico, dittatoriale e autoritario, fino alla sua chiusura definitiva nel 2004, sotto Meles Zenawi. La prigione di Akaki diventò famosa nel 1937, durante l’occupazione fascista, quando un attentato contro il maresciallo Rodolfo Graziani scatenò il massacro di Yekatit 12. Si stima che trentamila persone furono uccise durante la brutale rappresaglia. Un numero indefinito di persone innocenti furono incarcerate, torturate e uccise nella prigione di Akaki, o da lì mandate in campi di concentramento.
Le storie che ci sono state tramandate su quel periodo provengono da ricordi personali e di famiglia, ma furono quasi tutte messe da parte nel 1941, quando Hailé Selassié si riprese il trono e l’occupazione italiana finì. Hailé Selassié spinse gli etiopi a guardare al futuro, a perdonare gli invasori e a lasciarsi il passato alle spalle. Non si tentò di fare i conti con il dopoguerra, di affrontare, e magari alleviare, le profonde divisioni sociali ed etniche ancora presenti dopo il ritiro degli italiani ed esacerbate dai successivi regimi. Come il Derg, anche Hailé Selassié incarcerava criminali e oppositori politici ad Akaki (dopo la sua chiusura nel 2004, Meles Zenawi usò un’altra prigione, chiamata Maekelawi). Il sito del monumento alle vittime di Alem bekagn la definisce giustamente una “fortezza di oppressione”. Eppure, nonostante i decenni di morti e di sparizioni, non è stato fatto nessun tentativo di giustizia riparativa per onorare le persone incarcerate. Ci sono stati solo gli inesorabili discorsi sul progresso nazionale e sull’indipendenza dalla potenza coloniale.
In Etiopia non si è visto niente di paragonabile a quello che è successo in Ruanda dopo il genocidio o in Sudafrica con la Commissione per la verità e la riconciliazione. I responsabili dei peggiori crimini commessi durante il Derg non hanno ricevuto una punizione. Le storie di quel periodo sono state soffocate per effetto della paura e del trauma, ma anche di una tendenza radicata nella nostra cultura: il rifiuto di mostrarsi deboli. Il peso del trauma storico può rivelarsi travolgente. Dopo l’occupazione italiana e gli anni del Derg, era più facile guardare avanti, come hanno fatto la mia famiglia e tante altre. Poi, nel 2018, la nomina di Abiy Ahmed a primo ministro ha portato un ottimismo senza precedenti, mostrando la via verso la riconciliazione attraverso le riforme politiche. Per capire l’importanza di quel momento, e la delusione che ne è seguita, è necessario un confronto con il passato.
Negli anni settanta, all’inizio della rivoluzione, Meles Zenawi, che all’epoca studiava medicina all’università di Addis Abeba, si rifugiò nella regione del Tigrai per portare avanti la lotta contro il Derg. Si unì al giovane Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), un movimento di resistenza armata che si stava costruendo intorno a un’ideologia politica basata sull’etnonazionalismo. La guerra civile durò più di quindici anni. Quando nel 1991 il Derg fu rovesciato, il paese era socialmente, economicamente e culturalmente devastato. Più di mezzo milione di persone erano state uccise. Un numero incalcolabile era stato incarcerato o spinto in esilio, e altri milioni avevano vissuto in preda alla paura, al sospetto e sotto la minaccia costante della violenza. Quindici anni di censura e l’eliminazione totale del dissenso avevano paralizzato la stampa e frenato ogni spontanea espressione di dolore, di rabbia o di altri sentimenti.
Dopo aver guidato il governo di transizione istituito nel 1991, Meles fu primo ministro dal 1995 fino alla sua morte nel 2012. Il Tplf era a capo di una coalizione quadripartitica e multietnica chiamata Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf). Il governo di Meles portò agli etiopi sviluppo economico e maggiori libertà. Ma quegli anni furono anche segnati dall’iniqua distribuzione della ricchezza, dall’aumento dei conflitti etnici e dalla repressione governativa contro i mezzi d’informazione, gli attivisti politici e la società civile.
Nei mesi precedenti le elezioni del 2005, varie formazioni tra cui l’Eprdf e la Coalizione per l’unità e la democrazia (all’opposizione) condussero in tutto il paese un’energica e infuocata campagna elettorale, organizzando dibattiti televisivi e, durante l’ultima settimana, enormi manifestazioni. Alcuni seggi elettorali furono costretti a rimanere aperti ventiquattr’ore per accogliere le lunghe file di persone. La sera del 16 maggio, mentre lo spoglio era ancora in corso, Meles vietò per trenta giorni i grandi assembramenti e prese il controllo diretto della polizia e delle milizie. L’Eprdf affermava di aver conquistato la maggioranza, ma l’opposizione sosteneva di aver ottenuto più seggi di quelli che risultavano dal conteggio ufficiale. Mentre si moltiplicavano le accuse di brogli elettorali, in diverse città del paese i giovani decisero di manifestare, sfidando il divieto.
Le proteste si diffusero in tutto il paese. Il 6 giugno, solo ad Addis Abeba, le forze governative arrestarono migliaia di manifestanti, molti dei quali studenti. L’8 giugno le forze di sicurezza aprirono il fuoco contro gruppi di manifestanti disarmati, uccidendo almeno ventidue persone e ferendone più di cento. La repressione proseguì e quell’estate, quando mia madre e io ci ritrovammo bloccate dietro quel pick-up della polizia pieno di ragazzi che erano chiaramente stati picchiati, sapevamo di avere di fronte dei prigionieri politici. Senza sorpresa, i fatti del 2005 ci riportarono agli anni del Derg e quei ragazzi ricordarono a mia madre i fratelli che aveva perso. A novembre il numero delle vittime era salito a duecento, i feriti a ottocento e le persone arrestate a trentamila, tra cui alcuni leader dell’opposizione. Migliaia di persone fuggirono dall’Etiopia, molte di loro pagando dei trafficanti per farsi portare in Libia, nella speranza di riuscire ad attraversare il Mediterraneo e a sbarcare vive in Italia.
Il dialogo sarebbe una risposta senza precedenti al confitto. Richiederebbe speranza e disponibilità, e il coraggio di scavare nel passato
Nel 2012 il successore di Meles, Hailemariam Desalegn, si trovò di fronte un movimento d’opposizione vivace e determinato. Oltre a chiedere una maggiore rappresentanza, respingeva il piano di sviluppo urbanistico di Addis Abeba presentato dall’Eprdf, che prevedeva un’espansione sulle terre e i villaggi dove da sempre vivevano gli oromo. Gli oromo, il principale gruppo etnico in Etiopia, sono anche il popolo più marginalizzato e politicamente sottorappresentato. In reazione alle proteste, guidate da giovani oromo e generalmente pacifiche, il governo usò la forza in modo eccessivo e letale. Furono imposte nuove restrizioni alla libertà di stampa. I manifestanti non si tirarono indietro, attirando con la loro resistenza l’attenzione del mondo intero. All’inizio del 2018, Hailemariam Desalegn ha lasciato la carica di primo ministro.
E stato allora che il parlamento ha eletto primo ministro Abiy Ahmed. Questo oromo, che allora aveva 41 anni, ex tenente colonnello e brillante oratore, è stato salutato come un riformista. Ha liberato migliaia di prigionieri politici, tra cui giornalisti e membri dell’opposizione. Si è impegnato per migliorare i rapporti tra il governo e i gruppi d’opposizione. Ha aumentato il numero di donne nell’esecutivo e ha riconosciuto che i governi precedenti avevano fatto un ampio uso della tortura. Durante il suo governo è stata dichiarata una tregua tra l’Etiopia e l’Eritrea. Tutte queste riforme, senza precedenti, si sono susseguite velocissime in un paese che spesso si muove a rilento. Seguendo gli eventi da New York, dove vivo, non potevo non cogliere l’ironia della situazione: mentre l’Etiopia si apriva sul piano politico, gli Stati Uniti sprofondavano nell’era di Trump.
Nel 2019 Abiy ha ricevuto il premio Nobel per la pace per aver messo fine alla guerra ventennale con l’Eritrea. Meno di un anno dopo si è ritrovato ad affrontare il Tplf in uno scontro tra vecchio e nuovo potere. Dopo la sua elezione, Abiy aveva sciolto l’Eprdf e aveva riunito i vari gruppi che componevano la coalizione in un nuovo partito, il Partito della prosperità. Il Tplf aveva rifiutato di aderire. In Etiopia il potere delle regioni è garantito dalla costituzione, scritta dall’Eprdf nel 1994 con l’obiettivo di proteggere i gruppi etnici da eventuali governi autoritari. Le elezioni si sarebbero dovute svolgere nell’agosto del 2020, ma a maggio, con l’aggravarsi della pandemia di covid-19, il voto è stato rinviato a giugno del 2021. Il Tplf ha accusato il governo di Abiy di essere illegittimo e a settembre ha organizzato delle elezioni regionali incostituzionali. La tensione è cresciuta. Il governo regionale del Tigrai ha impedito a un generale nominato da Abiy di assumere il suo incarico. Alcuni parlamentari hanno chiesto di classificare il Tplf come organizzazione terroristica, ma finora il governo ha respinto la proposta.
Il 4 novembre, in risposta a un attacco del Tplf alle truppe governative nella regione del Tigrai, Abiy ha lanciato un’operazione militare contro il movimento. Quella data mi ricordava qualcosa. Sfogliando alcuni vecchi appunti, ho visto che il 4 novembre 1935 centoventimila soldati italiani avanzavano verso Mekelle, la capitale del Tigrai. Il Tigrai era anche stato il teatro della battaglia di Adua nel 1896, quando l’imperatore etiope Menelik II sconfisse l’Italia, alla sua prima avventura coloniale. Adua e il Tigrai erano un simbolo per Mussolini, che era deciso a vendicare proprio lì l’orgoglio ferito del suo paese. Gli altipiani nel nord dell’Etiopia sono rocciosi, gli abitanti tenaci. Mussolini proclamò la vittoria nel 1936, ma la guerra non era finita. I combattenti etiopi si nascosero tra le montagne, vivendo nelle grotte e portando avanti la lotta armata, e finirono per cacciare gli italiani nel 1941.
È probabile che, durante il Derg, ad alcuni abitanti degli altipiani settentrionali siano tornate in mente le stragi commesse dagli italiani quarant’anni prima, stragi che avevano vissuto o di cui avevano sentito parlare in famiglia. Ed è altrettanto probabile che il conflitto attuale ricordi ad alcune persone il periodo del Derg. Per capire quello che sta succedendo ora è necessaria una prospettiva storica di lungo respiro, ma l’orgoglio degli etiopi per la loro longevità nazionale (testimoniata dai riferimenti presenti nella Bibbia, nell’Iliade, nelle Storie di Erodoto e in altri testi antichi) può ostacolare la resa dei conti con il passato. Evocare la storia antica come preludio ai conflitti attuali non è sufficiente.
A novembre, mentre continuavano i combattimenti, i campi profughi si riempivano. Amnesty international ha riferito di un massacro di civili amhara a Mai Kadra, a opera di milizie del Tigrai, seguito da resoconti di altri massacri di civili, amhara e tigrini. Soldati eritrei avrebbero preso parte ai combattimenti. Racconti di violenze contro donne e bambine sembravano indicare crimini più sistematici. A causa dell’interruzione delle comunicazioni imposta dal governo, era quasi impossibile controllare cosa stava realmente accadendo. In assenza di dati verificabili, i giornalisti si basavano sulle testimonianze di sfollati che raccontavano scene di umiliazioni e crudeltà spaventose. Alcuni di questi racconti erano contestati sui social network. Il presente sembrava confuso quanto il passato. Ma non potevano esserci dubbi sulle fughe di massa e sul terrore dei civili intrappolati in una situazione che sfuggiva al loro controllo.
Abiy ha ripetuto più volte che quello in corso è un conflitto, non una guerra, eppure finora si è sviluppato sotto molti aspetti con la forza distruttrice di una guerra. Il governo federale ha proclamato la vittoria nel Tigrai e, su un milione di abitanti che erano fuggiti dalla regione, alcuni stanno tornando a casa. Altri, però, non si sentono ancora sicuri. I collegamenti telefonici e internet sono stati in parte ristabiliti. La sicurezza è stata rafforzata e i convogli umanitari internazionali hanno cominciato a distribuire aiuti. Si sta tentando di tornare alla normalità, ma negli strascichi di questo conflitto covano altri conflitti, che aspettano di esplodere. Cos’è la normalità?
Nelle discussioni sull’attuale situazione politica in Etiopia è tutto in gioco: il nostro futuro, ma anche il nostro passato. A cosa potrebbe somigliare la giustizia? In un momento così instabile, sembra impossibile – e ingenuo – chiedere delle discussioni multilaterali, immaginare i potenziali benefici di un negoziato. Eppure oggi è difficile immaginare una via diversa che non porterebbe, prima o poi, a nuovi massacri. Il dialogo sarebbe una risposta senza precedenti al confitto, in una nazione che ha costruito la propria identità sullo scontro e sulla conquista. Richiederebbe l’audacia e l’ottimismo del primo periodo del governo Abiy. Richiederebbe speranza e disponibilità, e il coraggio di scavare nel passato. Cosa faremo altrimenti di tutta questa storia, di tutta questa rabbia e di tutti questi ricordi? Un giovane soldato dal viso sottile. Uomini picchiati e feriti nel retro di un pick-up. Il luogo dove sorgeva una prigione, una targa su un muro. Un nuovo conflitto avvolto nel silenzio. La questione non è dove cominciare, ma come. ◆ fs
Maaza Mengiste è una scrittrice nata in Etiopia che vive negli Stati Uniti. Presenterà il suo ultimo libro, Il re ombra (Einaudi 2021), in diretta sulla pagina Facebook di Internazionale il 17 aprile. Questo articolo è uscito sulla London Review of Books con il titolo Ethiopia’s long war.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati