C’è qualcosa di estenuante nel modo in cui viene ricordata la primavera araba. C’è qualcosa di estenuante proprio nell’atto del ricordare. Mi vengono fatte le stesse domande da giornalisti diversi che devono scrivere del decimo anniversario. Non credo che le mie risposte contino qualcosa. Questa storia in parte è già scritta: la rivoluzione è finita, e in qualche modo mi si chiede di confermarlo.

Ma le mie risposte sulla fine e sulla sconfitta non arrivano. Non per una cieca speranza o per ingenuità politica, ma per una cecità concettuale che sovrasta tutta la conversazione. Una volta, nel tentativo di esprimere onestamente come mi sentivo, ho cercato di portare la mia intervistatrice in una zona metafisica: le ho parlato di una maledizione che ci accompagna senza che noi lo sappiamo e della redenzione che proviamo quando ne diventiamo consapevoli. Le ho detto che per me queste sono le vestigia di una rivoluzione. Non penso che mi abbia capito, anzi, ho avuto la sensazione di sembrarle un po’ disturbata.

Mi vengono fatte le stesse domande da giornalisti diversi che devono scrivere del decimo anniversario della primavera araba. Questa storia è già scritta: la rivoluzione è finita

All’inizio del 2020, la nostra amica Salma Shamel ha avviato con generosità un gruppo di lettura sui lavori di Walter Benjamin, non solo per studiarli, ma anche per usarli come metodo epistemologico. Il suo invito parlava dritto al mio bisogno costante di spazi per poter continuare a fare quello che faccio mantenendo un senso. In poco tempo, i nostri incontri settimanali sono diventati una materializzazione di quello che forse Benjamin ci chiede: come riscattare un frammento di storia per rispondere ai bisogni del presente?

Fare appello a quel che scriveva Benjamin è un tentativo di rispondere a un bisogno attuale e urgente, un bisogno di capire da capo, o di capire in maniera diversa, o di svincolare la comprensione dai processi e dalle forme dominanti della conoscenza, con quello che implicano in relazione all’atto del ricordare. Ci sono momenti in cui rifletto sul contesto in cui si svolge questo processo: siamo un gruppo di studiosi, scrittori, artisti e giornalisti alle prese con degli scritti criptici che ci sono arrivati dagli anni quaranta, tradotti dalla loro lingua originale, e che molti di noi leggono nella loro seconda lingua. A volte proviamo la soddisfazione di aver messo a fuoco un significato, altre volte indugiamo nelle nostre speculazioni, rileggendo mille volte lo stesso passo. Trovo questa energia piuttosto appropriata al momento e alla crisi che porta con sé: come possiamo essere oggi? Come può il nostro agire politico sgorgare dall’atto tortuoso del dissotterrare e comprendere una realtà complessa e stratificata, evitando ciò che diamo per scontato, nella teoria e nella pratica? E dove si colloca la storia in questa cartografia?

Benjamin scrisse Sul concetto di storia, formato da venti frammenti, nel 1940. Ci soffermiamo su ogni frammento per diversi incontri. Benjamin li compose prima di lasciare la Francia (quando i cittadini ebrei venivano consegnati alla Gestapo nazista) e di suicidarsi. Li inviò alla sua amica Hannah Arendt, ma non perché li pubblicasse. In seguito Arendt attraverserà il confine francese per raggiungere il lato spagnolo del Mediterraneo, dove era sepolto Benjamin: visitò la sua tomba e diede una copia del testo ai suoi amici. Tra loro c’era Theodor Adorno, che s’incaricò di pubblicarlo.

Sul concetto di storia potrebbe essere un testo che risponde al bisogno di sollevare, tra le altre, due questioni: come possiamo adattare i concetti di tempo e temporalità alle nostre realtà presenti e ai nostri impegni politici? E come possiamo fare i conti con il passato da una prospettiva politica, invece che storica?

Benjamin vuole liberarci dalla linearità della storia e dalla visione del tempo come qualcosa di vuoto e omogeneo. C’invita invece a catturare frammenti che intersecano il nostro presente. Questi frammenti ci compaiono in momenti di bisogno, momenti di crisi, ed è lì che l’intersezione tra passato e presente diventa un momento politico.

Sto rileggendo Sul concetto di storia, quando un amico ricorda di aver fatto parte del Comitato popolare del quartiere di Maadi per la difesa delle conquiste della rivoluzione nel 2011. Mi fermo a questo ricordo di memoria e mi chiedo: in che modo l’egemonia di una narrazione lineare e centralizzata della rivoluzione ha influenzato questi frammenti marginali sui quali non ci siamo soffermati molto? Nel nome del comitato c’è qualcosa di poetico e contemporaneamente trionfale, oltre che profondamente politico. Mi chiedo se il Comitato popolare di Maadi per la difesa delle conquiste della rivoluzione non sia un esempio di quella micropolitica invisibile attraverso la quale avremmo potuto riordinare la nostra comprensione della rivoluzione. Ma cosa faceva all’epoca questo comitato? Da chi era composto? Come si organizzava e lavorava? Quali erano i suoi obiettivi? E qual era il suo rapporto con il quartiere di Maadi, in una rivoluzione di cui piazza Tahrir dominava l’immaginario geografico e politico? Cosa sarebbe potuto accadere se gli avessimo dedicato più spazio nella narrazione storica della rivoluzione?

Il Comitato popolare di Maadi per la difesa delle conquiste della rivoluzione sembra essere una deviazione dall’epopea del 2011 a noi nota. Benjamin ci parla di deviazioni e strade che non abbiamo preso, e ci fa riflettere sulle possibilità che siano rimaste nascoste. C’erano anche altri comitati popolari che tornano alla memoria: risalgono ai primi 18 giorni di proteste, quando la polizia si era ritirata dalle strade. Si erano dati il compito di mantenere l’ordine e la sicurezza in alcuni quartieri.

Le differenze geografiche, demografiche, di genere e di classe (e non solo) animavano i corpi di questi comitati che nell’insieme erano un indicatore della realtà politica. Quando subentrarono allo stato, nel difendere i quartieri dai saccheggiatori e dal caos generale, emerse un potere. Quelli del quartiere-isola benestante di Zamalek usavano gommoni e pistole; quelli della periferia popolare di Imbaba schieravano i loro grossi corpi mascolini e le loro mazze. Non guardavamo spesso questi comitati mentre andavamo verso piazza Tahrir, forse perché erano un dettaglio che ci distoglieva dall’apparente armonia della piazza, quell’armonia apparente che si espande fino ad abbrac­ciare le faglie nette della solidarietà e dell’inimicizia.

C’è qualcosa in questa condizione che mi fa pensare ai compagni di lunga data di Benjamin, Theodor Adorno e Gershom Scholem, quando rimossero dalla sua corrispondenza alcune lettere scritte al filosofo conservatore Carl Schmitt, in cui si coglie un interesse intellettuale reciproco. Alcuni attribuiscono questo avvicinamento alle inclinazioni teologiche di Benjamin, che erroneamente sono contrapposte alle sue visioni sul materialismo storico. Al di là della decisione di Scholem e Adorno di farci arrivare un Benjamin progressista, cosa ci dice questo riavvicinamento a Schmitt? Ci mostra una sensibilità abbastanza elastica da potersi estendere alla dicotomia rivoluzione-controrivoluzione, cercando di trovare una consolazione in frontiere immaginarie? E se quelle frontiere non esistessero affatto?

Nel richiamare alla memoria i comitati popolari nelle loro diverse configurazioni, stiamo aprendo delle stanze chiuse della storia. Benjamin ci avverte che queste stanze potrebbero contenere un futuro che tocca a noi di riscattare. Significa smettere di guardare al passato come un’immagine eterna, e considerarlo invece una serie di esperienze ancora in corso.

Sono al telefono per un’intervista, aspettando l’inevitabile domanda: la rivoluzione è finita? Potrei semplicemente dire di sì e chiuderla qui. E ho paura di dire di no e suonare ingenua. Però c’è una liberazione intellettuale nel sottrarsi a una versione della storia chiusa e completa. Cerco le parole per descrivere la continuazione del passato attraverso questo catturarne i frammenti nel presente, all’apice della crisi. Cerco di dire che la politica esiste da qualche parte proprio in questo atto. Non so se alla fine il giornalista userà le mie parole. Dopo tutto, è l’anniversario del decennale, e un decennale sa di monumento, e un monumento indica qualcosa di morto.

Forse dovremmo superare questo e tutti gli altri anniversari. ◆ fdl

Lina Attalah è una giornalista egiziana. Questo articolo è uscito sul quotidiano online Mada Masr, che dirige, con il titolo Things I learned on how not to remember the revolution.

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Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati