La ragazza con il bindi nero sa che non dovrebbe lanciare occhiate al ragazzo con lo zucchetto bianco, ma lo fa lo stesso. Il ragazzo si muove nervoso su uno sgabello, tenendo tra le mani una tazza di tè chai. La ragazza l’ha insaporito con del cardamomo senza fargli pagare l’extra e poi ha ingoiato la capsula dei semi in modo che suo padre non la scopra. Suo padre è il proprietario baffuto del chiosco, che sta seduto alla cassa a pulirsi le orecchie con i cotton fioc. La ragazza alza gli occhi dal contenuto della pentola che bolle, fingendo di accorgersi dei nuovi clienti ma in realtà esaminando i contorni del mento ispido del ragazzo, la voglia a forma di aquilone che ha sul collo. Lui più che altro osserva i veicoli che passano veloci per strada. Ogni tanto i loro sguardi s’incrociano e le orecchie gli diventano paonazze. In quei momenti la ragazza e il ragazzo si rendono conto che devono subito distogliere gli occhi ma non smettono mai di sorvegliarsi, ovunque vadano.
È settembre. Compaiono ambulanti con ceste di pomodori. Hanno un prezzo esagerato ma sono sorprendentemente rossi. Il padre chiede alla ragazza di comprarne due chili. Potrebbero tenere il chutney di pomodoro sul menù finché in inverno i prezzi non diventano proibitivi. Lei s’inginocchia alla fontanella accanto al chiosco per lavare i pomodori, di fronte al ragazzo, fissando l’alluce tozzo che sbuca fuori dai sandali. È uno dei pochi clienti che preferisce i keema samosa, quelli con la carne tritata, agli aloo samosa, quelli con le patate; ma questo per lei è il minore dei problemi. Il ripieno è un po’ diverso ma i due tipi di samosa li prepara esattamente con lo stesso impasto. Sono la stessa cosa, a meno che uno non voglia per forza differenziarli, come peraltro fa la maggior parte della gente, compreso suo padre che le ha severamente proibito di mangiare i keema samosa.
La ragazza con il bindi nero sa che non dovrebbe lanciare occhiate al ragazzo con lo zucchetto bianco, ma lo fa lo stesso. Il ragazzo si muove nervoso su uno sgabello
Un venticello freddo le fa venire la pelle d’oca.
“Ma perché deve venire il freddo?”, dice la ragazza, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
“Le stagioni cambiano”, risponde uno degli uomini seduti accanto al ragazzo. Sono manovali che lavorano a giornata e anche loro ordinano gli aloo samosa insieme al chai, non i keema samosa, mai i keema samosa. Portano con sé badili sporchi e non perdono occasione di parlare.
“Perché è così”.
“Perché così è sempre stato”.
“Perché la Terra gira intorno al Sole”, dice il ragazzo.
La ragazza, senza fiato per l’emozione, rompe la buccia di un pomodoro con un dito e si lava la poltiglia rossa dalle unghie. È la prima volta che lo sente parlare.
Un uomo nota il monogramma sulla camicia del ragazzo. “Vai a scuola?”.
Lui annuisce.
Il padre della ragazza l’ha tolta da scuola dopo che una coppia di studenti dell’ultimo anno è scappata insieme a Bombay. L’uomo ridacchia. “Sono andato a scuola pure io. E ora spalo cemento e sabbia”.
La sera la ragazza ancora non smette di chiedersi se davvero la Terra si muove intorno al Sole. Perché nessuno gliel’ha mai detto? Chi è che la fa muovere? Seduta a letto, pensa a un campo infinito di cavolfiori e tenta di non vomitare, come le viene sempre da fare quando va sulla ruota gigante al luna park. Una volta che si addormenta i sogni prendono il sopravvento. Si aggrappa al ditone tozzo del ragazzo mentre volano lontano dalla faccia della Terra.
La cittadina è su un altopiano formato da due masse di terra entrate in collisione quando in giro c’erano ancora i dinosauri. È abbastanza grande da avere un negozio di Domino’s Pizza ma troppo piccola per avere dei semafori. I vigili urbani ogni tanto smettono di dare segnali ai veicoli per spalmarsi succo di lime e tabacco sul palmo delle mani, finché gli automobilisti non gli urlano di riprendere il controllo. Il padre della ragazza si è trasferito qui quando coltivare cipolle nei campi intorno al villaggio non è stato più redditizio. Pioveva sempre meno ogni anno. Per qualche tempo ha provato a trovare lavoro ai grandi magazzini con le pareti di vetro, per vivere in una casa con le camere da letto. Poi si è arreso. Si è procurato delle canne di bambù e un telone impermeabile e ha messo su il chiosco davanti alla loro capanna. Gli è scocciato mettere i keema samosa nel menù, ma voleva fare soldi in tutti i modi possibili. Un pittore gli ha chiesto 500 rupie per decorare la lastra di alluminio sul davanti del tavolo dove viene preparato il chai su un fornello a carbone. “Vedi di mettergli un nome bello importante”, ha detto il padre della ragazza al pittore, che era semianalfabeta, e così il chiosco di tè e spuntini è stato battezzato Te e sputini dalla Grande India. Il pittore aveva promesso: “A chi ama questo paese piacerà questo nome”. I passanti a volte s’indicano a vicenda l’insegna e si fanno una risata. Altri fanno cenni di ammirazione per quello che scambiano per un ironico nonsense. Molti scattano foto.
La ragazza sta friggendo i samosa. Oggi gli uomini con i badili sporchi stanno chiedendo al ragazzo perché viene da queste parti ogni fine settimana.
“Annaffio i gerani a un signore anziano”, dice lui.
“I che?”.
“Dei fiori”.
Grazie all’interesse che gli operai mostrano nei suoi confronti, ora la ragazza può sentir parlare il ragazzo.
“Germiani”, dice rivolta a un samosa dorato che galleggia nell’olio, contenta di sentire che il ragazzo conosce certe parole difficili. Il padre la fulmina con lo sguardo. Lei sospira. Se solo avesse il permesso di parlare con il ragazzo non dovrebbe parlare con i samosa.
“E ti paga bene?”, chiede uno degli operai.
“Seicento al mese”, dice il ragazzo.
“Per annaffiare i fiori!”.
“Kya kismat hai”.
“Che gran culo”.
Il ragazzo dice che il suo ricco datore di lavoro vive da solo e legge riviste con foto ad alta definizione di felini selvatici. Quando qualcuno tira in ballo le mosse di yoga del nuovo primo ministro, il ragazzo rimane in silenzio a mangiucchiare il samosa. La ragazza farfuglia tra sé e sé cose che vorrebbe dirgli a voce alta.
“Le piante si producono il nutrimento da sole. Lo so perché anch’io ci sono andata, a scuola… So pure che l’aria c’è anche se non la vediamo… A te piace di più l’estate o l’inverno? A me piace l’estate per il mango. L’inverno non mi piace perché il freddo mi fa diventare più sensibile… Non m’importa se mangi un tipo o un altro di samosa, te lo dico. La gente dovrebbe poter mangiare quello che vuole. Perché tante storie?… Hai delle belle dita, sai… Tutte le mattine ci sono degli uomini che si radunano nel parco sotto la statua di Gandhi e si mettono a ridere a forza. Se li guardi, cominci a ridere pure tu. Dicono che li mette di buon umore… Hai veramente delle belle dita… Ma io ti piaccio?”.
Il padre della ragazza vuole che al ragazzo venga servito il chai solo nelle tazze di metallo. Se la ragazza per sbaglio glielo serve in una di ceramica, il padre aspetta che il cliente se ne vada, poi spacca la tazza. “Il metallo si può lavare con acqua e sapone”, dice. “Ma dalla terracotta, la saliva di uno che mangia il keema non la togli”. La ragazza prima ubbidiva agli ordini del padre e buttava via i cocci. Ma ora li colleziona come fossero oggetti artistici. Di notte, mentre il padre dorme, lei esce di casa, incolla i frammenti delle tazze alla luce del lampione, poi le nasconde sotto le radici aggrovigliate di un baniano.
La ragazza crede che suo padre sia un uomo più buono di quanto dà a vedere. Avrebbe potuto buttarla nel fiume dopo aver scoperto che era femmina, e non l’ha fatto. Neppure quando sua madre, la moglie, è morta una settimana dopo per un’emorragia. Alla ragazza ovviamente non va giù che lui si aspetti di vederla in piedi alle cinque del mattino per aprire il chiosco, che la chiami “regina d’Inghilterra” se dorme un po’ di più. Però le permette di spendere soldi in smalto per le unghie e giornali dai quali lei ritaglia foto di una donna dal viso ovale con le ciglia luccicanti. Il tipo dell’edicola dice che si chiama Beyoncé. I clienti del chiosco mangiano samosa avvolti in fogli di giornale con buchi a forma di Beyoncé.
A volte, quando la ragazza viene ingaggiata come tatuatrice per un matrimonio – se la cava piuttosto bene con l’henné – il padre si occupa del chiosco mentre lei passa ore a dipingere le mani alle spose. Nasconde il nome dei futuri mariti in mezzo a intricati ghirigori spiraleggianti di henné.
Nonostante questo, con il mangiatore di keema è meglio che la ragazza ci vada con i piedi di piombo. Non c’è bisogno che glielo dica il padre, che le ragazze con il bindi nero non dovrebbero provare certi sentimenti per i ragazzi con lo zucchetto bianco. Lo sa.
La ragazza si sveglia con le dita dei piedi fredde. Raccoglie ramoscelli, foglie, pezzi di carta, stoffa e scatole vuote di tè Lipton, e gli dà fuoco. Il padre sventaglia le fiamme. La ragazza, il ragazzo, quattro operai e il padre siedono attorno al fuoco con il chai in mano, sbadigliando. I raggi del Sole restano intrappolati nella nebbia. È una mattina che sembra sera. Le tazze rotte e incollate nascoste tra le radici del baniano saranno coperte di brina, pensa la ragazza, chiedendosi se farle vedere al ragazzo. Ma se a scuola ha una fidanzata? Se la tiene per mano? Quando un operaio tossisce, il ragazzo dice che la madre tossisce continuamente. Ha qualcosa ai polmoni.
“Voglio diventare un medico per curarla”, aggiunge.
“Cura anche noi”, scherza l’operaio.
Il ragazzo sorride. “Promesso”.
Alla lunga il chai ha svegliato gli altri, che adesso non smettono di parlare.
“La gente dovrebbe poter diventare quello che vuole nella vita”.
“Ma il problema è che ce n’è troppa, di gente”.
“E sono troppo poche le cose che uno può diventare”.
“Ancora meno quelle che uno può vendere per comprarsi il riso”.
Alla loro risata segue il silenzio.
“Io voglio diventare Beyoncé”, dice la ragazza.
“Chi?”.
La faccia del nuovo primo ministro è dappertutto. Sui pali del telefono, sulle panchine dei parchi, sui bidoni dell’immondizia e sul retro delle macchine, e perfino addosso a tante persone che portano maschere del suo viso con due buchini per gli occhi. La ragazza non sa come ha fatto a comparire, quella faccia, sulla fontanella accanto al chiosco. A volte non riesce a mettere il cardamomo nel chai del ragazzo per paura del primo ministro che la osserva. Altre volte evita di mettercelo perché tanto, per quel che ne sa lei, il ragazzo neanche ci fa caso.
Al Te e sputini dalla Grande India è finito lo zucchero. La ragazza s’incammina all’alimentari. I sassolini le si conficcano nella pianta dei piedi perché ha i chappal con le suole tutte spaccate. Una volta, davanti al tempio ne ha rubato un paio con sopra stampati dei gatti, ma da allora li ha sempre tenuti nascosti sotto il letto. Ha paura che il proprietario possa riconoscerli e portarglieli via.
Il tipo dell’alimentari è un vecchio mezzo sordo. La tv del negozio va presa a cazzotti ogni tanto per evitare che le immagini si deformino. Durante la stagione del cricket il negozio è affollatissimo di gente che si ferma a vedere un paio di over, a elogiare o maledire Dhoni. Dopo aver comprato lo zucchero, anche la ragazza resta incantata a guardare in tv l’interno ingrandito di una bocca pulita da un dentifricio al sapore di curcuma, e quando il ragazzo le compare accanto non lo nota. Chiede al negoziante della gomma da masticare.
“Ehi”, le dice il ragazzo.
“Oh, ciao”.
Il ragazzo è proprio accanto a lei in un posto dove non hanno addosso gli occhi del padre. Volendo, la ragazza potrebbe toccargli la voglia a forma di aquilone sul collo. Il negoziante ha lasciato un pacchetto di gomme sul bancone prima di tornare a guardare la tv.
“È bello vederti fuori dal chiosco, una volta tanto”, dice il ragazzo.
“Anche per me”.
“Tu saresti una brava Beyoncé. Probabilmente anche meglio di Beyoncé stessa”.
La ragazza si tocca il bindi, sorride, si dice che si era sbagliata a pensare che il ragazzo avesse una fidanzata a scuola. “Mi offri una gomma?”.
“Certo”.
La ragazza mastica la gomma finché non è ora di andare a dormire, poi la ingoia.
La ragazza osserva con occhi nuovi gli oggetti di tutti i giorni: una scatola di fiammiferi, una patata, i camion lungo la strada, il terreno che ha sotto i piedi, pensando che nulla è più grande o più piccolo di come dovrebbe. Tutto è delle dimensioni perfette. Dopo essersi fatta lo shampoo si asciuga i capelli sotto il sole del pomeriggio invece di avvolgerseli in un asciugamano. Si chiede se è così che le ragazze diventano donne. Una sera, mentre sta rimettendo insieme una tazza rotta, contaminata della saliva del mangiatore di keema, il sangue le sprizza dal dito come l’acqua dalla fontanella. Eppure, a differenza delle spose a cui dipinge le mani con l’henné, lei non sente il bisogno di un marito, di una casa e di una lavatrice, di un bambino e di un robot da cucina per essere felice. Le basta che il ragazzo con lo zucchetto bianco beva il chai e mangi i samosa al chiosco in modo da poterlo guardare mentre lui guarda lei.
Gli operai parlano di un cinema che stanno aprendo in città dove daranno tre film contemporaneamente. Il ragazzo sta mangiando un keema samosa, in attesa del chai. Arriva in motocicletta una decina di giovani con delle bandane color zafferano. Ordinano del chai e degli aloo samosa. Il padre della ragazza gli dice di andarsene, perché non pagano mai.
“Guardate che questa non è una festa di nozze a cui potete imbucarvi ogni volta”, dice.
“Non fare tanto il permaloso”, dice uno dei giovani. Porta una maglietta color zafferano come la bandana. Pare una carota.
“Dei samosa extra piccanti, per favore”, dice un altro alla ragazza.
Quando il padre della ragazza si alza per protestare, il giovane che pare una carota lo risbatte sulla sedia con uno spintone, poi si accorge che i suoi compagni hanno ancora qualche problema a parcheggiare le moto.
“Chi cazzo è che ha lasciato qui ’sta bicicletta?”, strilla.
“È mia”, dice il ragazzo con lo zucchetto bianco. Fa per spostarla ma il giovane lo ferma.
“Dove pensi di stare, alle cazzo di Olimpiadi?”.
“Scusa. La sposto subito”.
“Le scuse non bastano. Di’ ‘quanto mi piace il chai’”.
“Haan?”.
“Avanti, dillo”.
“Quanto… quanto mi piace…”.
“Non ti piace il chai?”.
“Lo bevo tutti i giorni”.
“E allora dillo! ‘Quanto mi piace il chai’!”.
“Quanto mi piace… il chai”.
La ragazza comincia a sbattere l’impasto più piano. Se potesse ci metterebbe il veleno, in quei samosa.
“Bene. Adesso prendi quello schifo di samosa e buttalo via”.
“Cosa?”.
“Sei sordo?”.
“Adesso la fai finita con i keema samosa”, dice un altro del gruppo. “Da ora in poi solo aloo samosa, intesi?”.
“Ma a me piacciono i keema samosa”, dice il ragazzo.
Il giovane che pare una carota gli molla uno schiaffone. La ragazza smette di sbattere l’impasto.
“Butta via quel samosa altrimenti ti mettiamo a bollire insieme al chai”.
Il ragazzo ubbidisce.
Il giovane si toglie la bandana color zafferano e la passa al ragazzo. “Adesso levati quello zucchetto da coglione e mettiti questa”.
“Ah no?”.
Stavolta il ragazzo lo guarda negli occhi.
“No, non lo faccio”.
I giovani cominciano a picchiare il ragazzo, dandogli del bastardo mangiatore di keema, dicendogli di tornare al suo paese, mentre uno del gruppo li riprende con il cellulare. Il padre della ragazza e alcuni degli operai tentano d’intervenire, invano. La ragazza li supplica di lasciarlo andare. “Non fa niente di male, annaffia solo i fiori!”, urla. Nessuno la ascolta. Dopo un po’ si uniscono al pestaggio anche un paio di operai, insultando il ragazzo e picchiandolo con i badili sulla pancia. “Ma vuole diventare un dottore e curarvi!”, la ragazza li implora. “Come avete fatto a scordarvelo?”. Il padre le grida di entrare in casa. Il ragazzo sembra un pomodoro spaccato e muore.
Dicembre è quasi finito. La ragazza con il bindi nero piange quando ha freddo. Non riesce a stare in piedi. Non riesce a tenere la testa dritta. Non si sente più il naso. Quando il padre la sveglia la mattina, lei si volta dall’altra parte. “No”, dice. Senza farsi vedere porta via dei keema samosa dal chiosco per mangiarseli nascosta dietro i bidoni dell’immondizia a forma di canguro, nel parco. È la prima volta che mangia qualcosa che contenga carne macinata. Le sembra che sappia di lacrime, finché non si rende conto che deve smettere di piangere mentre mangia. Dopodiché, il keema ha un normale sapore di cibo. In prima pagina sui giornali c’è una foto del ragazzo con lo zucchetto bianco, seduto contro uno sfondo grigio, sotto una luce uniforme, serio ma vivo. La guarda dritta negli occhi. Adesso, invece di Beyoncé, la ragazza ritaglia ogni foto del ragazzo da ogni giornale e le ficca tutte sotto il materasso. Asciuga la brina dalle tazze rotte e incollate sotto il baniano.
Quando arriva la stagione dei matrimoni, la ragazza ha troppo da lavorare con l’henné e non le resta abbastanza tempo per il lutto. Le spose parlano mentre si fanno dipingere le mani, perché lei ascolta. Una delle spose le indica un quadro appeso al muro. Il suo fidanzato che tiene il Taj Mahal nel palmo delle mani. Un’altra sposa dice alla ragazza che il suo futuro marito si chiama Adithya con la h. Vuole che le scriva il nome su entrambe le mani, davanti e dietro. Un’altra, dopo che la ragazza le ha coperto le mani di mehndi, le chiede d’imboccarla con della cioccolata. Un’altra ancora le consiglia di fare sempre la difficile, se vuole che il suo ragazzo le chieda di sposarla. “In amore bisogna essere un po’ stronze”, dice. E un’altra donna ancora sembra totalmente disinteressata a tutta la questione, nonostante il sari fatto a Varanasi e il trucco intorno agli occhi, nonostante i fiori di gelsomino nei capelli, mentre stende le dita davanti alla ragazza. Il nome del promesso sposo non se lo ricorda nemmeno. La ragazza le dice che non sembra una che vuole sposarsi.
“Infatti non voglio”.
“E invece cos’è che vorresti fare?”.
“Dipinti del cielo”.
“Quelli li puoi fare pure da sposata”.
“Li potrei fare pure senza sposarmi”.
“Ma perché del cielo?”.
“Perché è infinito”.
Quando finisce la stagione dei matrimoni, i giornali sono pieni di foto di un treno ad alta velocità. In tutto il paese vengono vietati i keema samosa, il keema naan, i keema paratha, i keema pakora e fondamentalmente qualunque cosa contenga della carne tritata. La ragazza ciondola nel parco con la statua di Gandhi.
Tutte le mattine un gruppo di uomini si piazza lì in circolo e si mette a ridere a forza. Sono rumorosi e sicuri di sé, il genere di persone che mangia aloo samosa. All’inizio fanno: “Oh oh, ah ah, oh oh, ah ah”. Ma di lì a poco scoppiano in risate fragorose, mostrano i denti e si sbracciano. La ragazza si chiede se abbiano visto anche loro le foto del ragazzo con lo zucchetto bianco in prima pagina. La sera, i giovani si fanno troppi selfie contro la fontana. Le femmine portano il rossetto, i maschi hanno i capelli dritti di gel. Quando si puntano addosso il cellulare cambiano faccia. La ragazza si chiede se abbiano mai assaggiato un keema samosa.
Ci sono degli uomini in uniforme azzurra che annaffiano le piante del parco. Uno sta annaffiando un’aiuola di fiori. I petali sono più viola dentro che fuori. La ragazza gli si avvicina.
“Scusi, questi fiori sono germiani?”.
“Non esistono fiori con questo nome”.
Si avvicina a un altro tizio che annaffia vasi di fiori gialli con i petali lunghi e distanziati, e ripete la domanda.
“No”, gli dice lui, “però che belle tette che hai”.
La ragazza, seduta su una panchina del parco, cerca d’innamorarsi di nuovo. Cerca d’innamorarsi del ragazzo con la maglietta extralarge che prende a calci un pallone, o di quello che sta facendo le flessioni, o del giovane che cammina con le cuffie blu sulle orecchie e le mani in tasca, o di quello che tiene per mano una ragazza con delle ciocche rosse nei capelli, o di quello sdraiato a pancia sotto a leggere un libro, o magari perfino di quello che sbircia le donne che fanno yoga. Non succede niente.
Poi si stende a pancia in su e si mette a fissare il cielo infinito. Si augura che la donna che non si ricordava il nome del promesso sposo stia dipingendo tutti i cieli che vuole. Ma l’infinito non fa per lei. Le serve qualcosa di più misurabile, qualcosa di più piccolo del cielo ma di più grande di un samosa.
È una bella mattina di aprile. Gli uomini che ridono a forza stanno ridendo come se non ci fosse un domani. Uno nota la ragazza seduta in disparte e la invita a unirsi al gruppo. “Ti assicuro che ti mette felicità”, dice. Lei accetta, con riluttanza. All’inizio se ne sta lì impalata e vorrebbe scomparire. Poi, incoraggiata dal gruppo, fa un sorrisetto confuso. Poi una leggera risata, perché tutti gli altri stanno ridendo. Per qualche istante le sembra una cosa insincera, ma poi si ritrova effettivamente a ridere di gusto. Prende nota di aver acquisito una dote importante.
Alla fine uno degli uomini si volta verso di lei.
“Allora, signorina, adesso sei felice?”.
Lei gli guarda le gocce di sudore sulla fonte, le rughe delle risate attorno alla bocca.
“E tu?”, gli chiede. ◆ mt
“No”. “Ah no?”. Stavolta il ragazzo lo guarda negli occhi. “No, non lo faccio”. I giovani cominciano a picchiare il ragazzo, dandogli del bastardo mangiatore di keema, dicendogli di tornare al suo paese, mentre uno del gruppo li riprende con il cellulare. Il padre della ragazza e alcuni degli operai tentano d’intervenire, invano. La ragazza li supplica di lasciarlo andare. “Non fa niente di male, annaffia solo i fiori!”, urla. Nessuno la ascolta. Dopo un po’ si uniscono al pestaggio anche un paio di operai, insultando il ragazzo e picchiandolo con i badili sulla pancia. “Ma vuole diventare un dottore e curarvi!”, la ragazza li implora. “Come avete fatto a scordarvelo?”. Il padre le grida di entrare in casa. Il ragazzo sembra un pomodoro spaccato e muore. Dicembre è quasi finito. La ragazza con il bindi nero piange quando ha freddo. Non riesce a stare in piedi. Non riesce a tenere la testa dritta. Non si sente più il naso. Quando il padre la sveglia la mattina, lei si volta dall’altra parte. “No”, dice. Senza farsi vedere porta via dei keema samosa dal chiosco per mangiarseli nascosta dietro i bidoni dell’immondizia a forma di canguro, nel parco. È la prima volta che mangia qualcosa che contenga carne macinata. Le sembra che sappia di lacrime, finché non si rende conto che deve smettere di piangere mentre mangia. Dopodiché, il keema ha un normale sapore di cibo. In prima pagina sui giornali c’è una foto del ragazzo con lo zucchetto bianco, seduto contro uno sfondo grigio, sotto una luce uniforme, serio ma vivo. La guarda dritta negli occhi. Adesso, invece di Beyoncé, la ragazza ritaglia ogni foto del ragazzo da ogni giornale e le ficca tutte sotto il materasso. Asciuga la brina dalle tazze rotte e incollate sotto il baniano. Quando arriva la stagione dei matrimoni, la ragazza ha troppo da lavorare con l’henné e non le resta abbastanza tempo per il lutto. Le spose parlano mentre si fanno dipingere le mani, perché lei ascolta. Una delle spose le indica un quadro appeso al muro. Il suo fidanzato che tiene il Taj Mahal nel palmo delle mani. Un’altra sposa dice alla ragazza che il suo futuro marito si chiama Adithya con la h. Vuole che le scriva il nome su entrambe le mani, davanti e dietro. Un’altra, dopo che la ragazza le ha coperto le mani di mehndi, le chiede d’imboccarla con della cioccolata. Un’altra ancora le consiglia di fare sempre la difficile, se vuole che il suo ragazzo le chieda di sposarla. “In amore bisogna essere un po’ stronze”, dice. E un’altra donna ancora sembra totalmente disinteressata a tutta la questione, nonostante il sari fatto a Varanasi e il trucco intorno agli occhi, nonostante i fiori di gelsomino nei capelli, mentre stende le dita davanti alla ragazza. Il nome del promesso sposo non se lo ricorda nemmeno. La ragazza le dice che non sembra una che vuole sposarsi. “Infatti non voglio”. “E invece cos’è che vorresti fare?”. “Dipinti del cielo”. “Quelli li puoi fare pure da sposata”. “Li potrei fare pure senza sposarmi”. “Ma perché del cielo?”. “Perché è infinito”. Quando finisce la stagione dei matrimoni, i giornali sono pieni di foto di un treno ad alta velocità. In tutto il paese vengono vietati i keema samosa, il keema naan, i keema paratha, i keema pakora e fondamentalmente qualunque cosa contenga della carne tritata. La ragazza ciondola nel parco con la statua di Gandhi. Tutte le mattine un gruppo di uomini si piazza lì in circolo e si mette a ridere a forza. Sono rumorosi e sicuri di sé, il genere di persone che mangia aloo samosa. All’inizio fanno: “Oh oh, ah ah, oh oh, ah ah”. Ma di lì a poco scoppiano in risate fragorose, mostrano i denti e si sbracciano. La ragazza si chiede se abbiano visto anche loro le foto del ragazzo con lo zucchetto bianco in prima pagina. La sera, i giovani si fanno troppi selfie contro la fontana. Le femmine portano il rossetto, i maschi hanno i capelli dritti di gel. Quando si puntano addosso il cellulare cambiano faccia. La ragazza si chiede se abbiano mai assaggiato un keema samosa. Ci sono degli uomini in uniforme azzurra che annaffiano le piante del parco. Uno sta annaffiando un’aiuola di fiori. I petali sono più viola dentro che fuori. La ragazza gli si avvicina. “Scusi, questi fiori sono germiani?”. “Non esistono fiori con questo nome”. Si avvicina a un altro tizio che annaffia vasi di fiori gialli con i petali lunghi e distanziati, e ripete la domanda. “No”, gli dice lui, “però che belle tette che hai”. La ragazza, seduta su una panchina del parco, cerca d’innamorarsi di nuovo. Cerca d’innamorarsi del ragazzo con la maglietta extralarge che prende a calci un pallone, o di quello che sta facendo le flessioni, o del giovane che cammina con le cuffie blu sulle orecchie e le mani in tasca, o di quello che tiene per mano una ragazza con delle ciocche rosse nei capelli, o di quello sdraiato a pancia sotto a leggere un libro, o magari perfino di quello che sbircia le donne che fanno yoga. Non succede niente. Poi si stende a pancia in su e si mette a fissare il cielo infinito. Si augura che la donna che non si ricordava il nome del promesso sposo stia dipingendo tutti i cieli che vuole. Ma l’infinito non fa per lei. Le serve qualcosa di più misurabile, qualcosa di più piccolo del cielo ma di più grande di un samosa. È una bella mattina di aprile. Gli uomini che ridono a forza stanno ridendo come se non ci fosse un domani. Uno nota la ragazza seduta in disparte e la invita a unirsi al gruppo. “Ti assicuro che ti mette felicità”, dice. Lei accetta, con riluttanza. All’inizio se ne sta lì impalata e vorrebbe scomparire. Poi, incoraggiata dal gruppo, fa un sorrisetto confuso. Poi una leggera risata, perché tutti gli altri stanno ridendo. Per qualche istante le sembra una cosa insincera, ma poi si ritrova effettivamente a ridere di gusto. Prende nota di aver acquisito una dote importante. Alla fine uno degli uomini si volta verso di lei. “Allora, signorina, adesso sei felice?”. Lei gli guarda le gocce di sudore sulla fonte, le rughe delle risate attorno alla bocca. “E tu?”, gli chiede. ◆ mt
Kritika Pandey
è una scrittrice indiana. Ha 29 anni. Questo racconto ha vinto il Commonwealth short story prize 2020, nella categoria Asia. È uscito su Granta_. Il titolo originale è _The Great Indian tee and snakes.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1374 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati