Una decina di anni fa l’attore porno James Deen ha fatto un film con una fan che ha chiamato Ragazza X. Ogni tanto lo faceva: le fan gli scrivevano perché volevano fare sesso con lui, oppure era lui a fare un appello: “Gira una scena con James Deen”. I risultati finivano sul suo sito.
In un’intervista del maggio 2017, solo pochi mesi prima che i mezzi d’informazione fossero sommersi dal dibattito sulle violenze e le molestie sessuali commesse da Harvey Weinstein e da altri – e appena due anni dopo che lo stesso Deen fosse accusato (ma non condannato) per più casi di stupro (che ha negato) – l’attore ha raccontato: “Organizzo il concorso, le donne si candidano e poi, dopo lunghe conversazioni in cui per mesi cerco di dissuaderle dicendo cose come ‘lo scopriranno tutti e la cosa avrà ripercussioni sul tuo futuro’, giriamo la scena”.
Nel video con Ragazza X ben poco, in realtà, ha a che fare con il sesso. Si tratta più che altro di un lungo dialogo teso, ammiccante, che gira sempre intorno allo stesso punto: se i due finiranno o no a fare sesso, se lo filmeranno e se pubblicheranno il filmato. Ragazza X è titubante, oscilla tra la voglia di giocare e quella di ritirarsi, prima è ardita poi angosciata, si fa avanti poi temporeggia. È combattuta, riflessiva, piena di domande. Esterna i suoi dilemmi e Deen cerca di assecondarla.
Presumibilmente desidera “girare una scena con James Deen”, ma quando lui le apre la porta sembra che le manchi un po’ il coraggio. Entra nell’appartamento con indosso un paio di legging, una camicetta di seta color crema abbottonata fino al collo – noi la guardiamo attraverso la videocamera insieme a Deen, che la filma –, si muove agitata, ha una risata nervosa e stridula, dice: “Oddio, oddio”. Lui di tanto in tanto le avvicina la videocamera al viso, lei si volta dall’altra parte. Lui la provoca: “Vai all’università, sei una tipa sveglia”. Lei si schermisce, è nervosa: “Non riesco nemmeno a guardarti”. Si mette a sedere su una panca davanti a un tavolo cromato luccicante. Discutono del contratto, qui c’è una dissolvenza, non siamo messi al corrente dei dettagli. Quando l’immagine riappare, lei sta per firmare, ma poi si ferma e dice: “Ma cosa sto facendo? Cosa cazzo sto facendo?”. Può tirarsi indietro in qualsiasi momento, dice lui, possono stracciare il contratto. Di nuovo una dissolvenza, poi vediamo lei che firma. “Dopo possiamo pensare al nome d’arte”, dice lui, “oppure ti va bene semplicemente Ragazza X?”. “Non saprei”, dice lei incerta, “non ne ho idea, non l’ho mai fatto prima”.
Quando Ragazza X esprime la sua ambivalenza – “Voglio fare sesso con te, ma non so se voglio mostrarlo al mondo” – lui è comprensivo: “Non vuoi passare per una puttana”. Lei continua: “Non vorrei una cosa tipo: ‘Ti ho vista che ti scopavi lui, allora perché non puoi scopare me?’”, dice simulando un tono condiscendente. Non è un pensiero del tutto paranoico. Il (presunto) desiderio di una donna – anche se si manifesta una sola volta, per un solo uomo – la rende vulnerabile. Il suo desiderio non la fa più essere degna di protezione. Una volta che una donna ha detto sì a qualcosa, si pensa che non potrà più dire no a niente.
Probabilmente non sapremo mai cosa è successo dopo che Deen ha spento la videocamera, cosa è rimasto fuori dal montaggio, il sesso che non abbiamo visto. Probabilmente non sapremo mai cosa ha pensato Ragazza X delle accuse contro Deen, o se ci sia stato qualcosa quel giorno che l’ha fatta sentire a disagio o le ha provocato sofferenza o rabbia. Non conosco Ragazza X. Ma nel video vedo l’esperienza dolorosa – e familiare – di essere spinta verso più direzioni, di dover trovare un equilibrio tra desiderio e rischio, di dover fare attenzione a tante cose nella ricerca del piacere.
Le donne sanno che il loro desiderio sessuale può privarle di protezione ed essere invocato come prova che la violenza non era violenza (è stata lei a volerlo). Ragazza X ci mostra che non solo l’espressione del desiderio ma la sua stessa esistenza è favorita o inibita a seconda delle condizioni che trova. Come facciamo a sapere cosa vogliamo dal momento che saperlo diventa una imposizione ed è alla base di una punizione? Non stupisce che Ragazza X abbia dei sentimenti ambivalenti, che sia paralizzata dall’incertezza. Deen non comprende il peso malinconico del sesso per Ragazza X, non ne ha bisogno. Ragazza X, invece, è cresciuta tra richieste impossibili. Ha sperimentato il doppio vincolo in cui vivono le donne: dire di no può essere difficile, ma anche dire di sì può esserlo.
Nel 2017 si è rotto l’argine delle accuse contro Weinstein. Subito dopo si è diffuso sui social network l’hashtag #MeToo – uno slogan creato da Tarana Burke nel 2006 per portare l’attenzione sulla violenza sessuale contro le giovani nere – spingendo le donne a raccontare le loro storie. Nei mesi seguenti i mezzi d’informazione hanno dedicato ampio spazio al tema, parlando soprattutto degli abusi di potere nei luoghi di lavoro. In questo clima, l’atto di parlare delle proprie esperienze era considerato di per sé un bene. Ero felice che la stampa ne parlasse, ma ne ero anche preoccupata e a volte, davanti a quell’implacabile sfilata di storie raccapriccianti, mi veniva da spegnere la tv. Durante il picco del #MeToo, è stato come se ci sentissimo in obbligo di riferire le nostre esperienze. L’accumulo di storie raccontate su internet e di persona creava una certa pressione, un senso di attesa. E tu quando ci dirai la tua storia? Era difficile non notare una smania collettiva per questi racconti, annidata dietro a un linguaggio accorato e indignato e che si accordava all’idea che dire la verità fosse un valore fondativo e assiomatico del femminismo.
Il #MeToo non solo ha dato validità alla parola delle donne, ha anche rischiato di trasformarla in un obbligo, la manifestazione doverosa del proprio potere femminista di autorealizzazione, la determinazione a rifiutare la vergogna, la forza di reagire all’indignazione. Inoltre serviva a soddisfare un’oscena fame di storie sugli abusi e sulle umiliazioni nei confronti delle donne, anche se in maniera selettiva.
Quando è che chiediamo alle donne di parlare, e perché? A chi serve parlare? A chi è chiesto di parlare, e quali sono le voci che ricevono ascolto? Per quanto qualsiasi dichiarazione di violenza sessuale subita da una donna tenda a incontrare pesanti resistenze, durante il #MeToo i resoconti di donne bianche e ricche sono stati privilegiati rispetto a quelli delle giovani nere. Gli studi dimostrano che se una donna nera denuncia un reato di violenza sessuale ha meno possibilità di essere creduta rispetto a una bianca (come se le ragazze nere fossero considerate più adulte e sessualmente esperte rispetto alle loro coetanee bianche), e che le condanne per stupro che coinvolgono vittime bianche portano a esiti più seri rispetto a quelle che riguardano le nere. Non tutte le voci sono uguali.
Negli ultimi anni sembra diventato chiaro che il buon sesso ha bisogno di due requisiti: il consenso e l’autoconsapevolezza. Nell’ambito del sesso, dove almeno l’ideale del consenso regna supremo, le donne devono esprimersi, e dire cosa vogliono. Quindi devono anche sapere cosa vogliono.
In quella che chiamerò la cultura del consenso – la retorica diffusa per cui il consenso è il locus per la trasformazione delle storture della nostra cultura sessuale – il fatto che le donne parlino del proprio desiderio è richiesto e idealizzato, rivendicato come un segnale di politica progressista. “Devi sapere cosa vuoi e imparare cosa vuole il tuo partner”, intimava un articolo del New York Times del luglio 2018, promettendo che “il buon sesso avviene quando si verificano queste due condizioni”.
Questa retorica non è del tutto nuova. Le campagne femministe si sono concentrate sul consenso fin dagli anni novanta, generando un vivo dibattito. Rachel Kramer Bussel ha scritto più di recente che “in quanto donne è nostro dovere rispetto a noi stesse e ai nostri partner dire più esplicitamente cosa desideriamo a letto, così come condividere quello che non desideriamo. Nessuno dei due partner può permettersi di essere passivo e limitarsi ad aspettare per vedere fin dove l’altro si spingerà”. L’ingiunzione nei confronti delle donne a conoscere il proprio desiderio e a esplicitarlo è presentata come intrinsecamente liberatoria, dal momento che mette in risalto la loro capacità – e il loro diritto – a provare piacere sessuale.
A lungo il pensiero progressista ha usato la sessualità e il piacere come controfigure per l’emancipazione e la liberazione. Era esattamente questo che il filosofo Michel Foucault criticava nel 1976 in La volontà di sapere, dove scriveva: “A domani il buon sesso”. Stava parafrasando, sardonicamente, l’atteggiamento degli esponenti della controcultura del movimento di liberazione sessuale degli anni sessanta e settanta, i marxisti, i rivoluzionari, i freudiani: tutti quelli convinti che per liberarci dalle grinfie moraleggianti di un passato vittoriano e repressivo avremmo dovuto finalmente essere schietti sulla sessualità. Al contrario, Foucault era scettico per il modo in cui “allontaniamo con foga il passato e ci appelliamo al futuro”. E sosteneva che i vittoriani fossero estremamente loquaci riguardo al sesso, anche se quella loquacità serviva a delineare patologie, anormalità e aberrazioni. Foucault non solo ha corretto il pensiero classico che considerava i vittoriani pruriginosi, repressi e dediti al silenzio, ma si è anche opposto all’idea secondo cui parlare esplicitamente di sesso porta alla liberazione mentre il silenzio genera repressione. “Non dobbiamo pensare che dire di sì al sesso significhi dire di no al potere”, ha scritto.
Il (presunto) desiderio di una donna – anche se si manifesta una sola volta, per un solo uomo – la rende vulnerabile. Il suo desiderio non la fa più essere degna di protezione
Il sesso è stato, ed è ancora, proibito e regolato in moltissimi modi e, in particolare, la sessualità delle donne è stata fortemente limitata e sorvegliata. Ma il consenso e la presunzione della sua assoluta chiarezza rischiano di far ricadere il peso di un’interazione sessuale positiva sul comportamento delle donne: su quello che vogliono, che sono in grado di conoscere ed esprimere rispetto ai loro desideri, sulla loro capacità di esibire una sicurezza sessuale in modo da garantire che il sesso sia reciprocamente piacevole e non coercitivo. Guai a non essere consapevoli di noi stesse e a non esplicitare quella consapevolezza.
Alla fine degli anni ottanta e all’inizio degli anni novanta, quando gli attivisti cercavano di cambiare la mentalità dell’opinione pubblica, l’ansia dei mezzi d’informazione si concentrava sui concetti di “stupro durante un appuntamento” o “stupro da parte di una persona conosciuta”. Nel 1993 il regolamento interno per la prevenzione della violenza sessuale dell’Antioch college, un piccolo istituto artistico statunitense di impronta liberale, fece scalpore. Scritto da studenti sconvolte per aver scoperto che c’erano stati degli stupri in un campus che si vantava di essere inclusivo e progressista, il documento stabiliva che “consenso significa chiedere verbalmente e concedere o rifiutare verbalmente, a tutti i livelli di comportamento sessuale”. Il consenso doveva essere continuo, ed era richiesto a prescindere dalla relazione tra i partner, dalla loro precedente storia sessuale o dalla loro attuale attività. Inoltre non poteva essere dato da una persona sotto stupefacenti, in stato di incoscienza o addormentata. Il consenso affermativo – negli ultimi anni inserito sempre più spesso in leggi e linee guida – sostiene che l’assenza del “no” non vuol dire sì, e riconosce che nel sesso la reciprocità è vitale. Ed è stato qualcosa di estremamente divisivo.
Nel libro La mattina dopo: il sesso, la paura, le donne (Rizzoli 1996), uscito negli Stati Uniti lo stesso anno del documento di Antioch, Katie Roiphe sosteneva che le campagne contro lo stupro dei campus universitari proiettavano un’immagine retrograda delle donne che in passato le femministe erano riuscite a mettere in crisi: l’immagine della donna come vulnerabile, timorosa e ingenua. Questa argomentazione circola ancora a vent’anni di distanza. In Unwanted advances, pubblicato nel 2017, Laura Kipnis sosteneva che le linee guida per un consenso affermativo hanno portato a una cultura della fragilità e della vittimizzazione nei campus statunitensi. Roiphe e Kipnis ammettono le ingiustizie e la sofferenza a cui vanno incontro le donne, ma propongono di trovare la soluzione in una figura idealizzata: la donna forte che può superare tutto, scrollarsi di dosso il dolore e diventare più forte. Insomma, una donna meno infantile. Le loro critiche esprimono l’idea di femminismo sicuro di sé, che impone un obbligo alle singole donne affinché la loro assertività gli consenta di vincere ogni sfida e avere successo in un mondo ingiusto.
Secondo Roiphe e Kipnis, le donne “adulte” sanno come scrollarsi di dosso gli inevitabili alti e bassi del sesso invece di gridare all’aggressione. Il tropo del cattivo sesso ha un ruolo fondamentale in queste argomentazioni. Per Kipnis le ragazze sono incoraggiate a mettere in atto misure burocratiche per “rimediare alle ambivalenze sessuali o alle esperienze sessuali imbarazzanti”. Per lei e le sue colleghe il sesso “anche quando è brutto (come accade spesso)” è “comunque educativo”. L’idea che le donne debbano temprarsi gode di un consenso trasversale negli Stati Uniti: la giornalista Bari Weiss ha espresso una posizione simile commentando le accuse contro il comico Aziz Ansari nel 2018. Le accuse, pubblicate online, avevano scatenato un putiferio, anche perché nella fretta sembra che non fossero stati rispettati gli standard giornalistici, come garantire il diritto di replica (in seguito Ansari ha dichiarato che il sesso era stato “consensuale sotto ogni aspetto” ma che “le parole della donna lo avevano profondamente colpito”).
Grace (uno pseudonimo) aveva detto di essersi sentita costretta a fare sesso e di aver provato a lanciare segnali – verbali e non verbali – di non averne voglia, che secondo lei Ansari aveva ignorato. Per molti la storia di Grace è diventata il caso esemplare di un uomo potente e aggressivo deciso a fare sesso senza avere il minimo interesse verso il piacere della donna (e forse neanche verso il proprio?). Per altri Grace aveva preteso che Ansari le leggesse nel pensiero, e non era riuscita a esplicitare i suoi desideri né la mancanza di godimento: non era riuscita né a dire di sì con slancio né a dire di no con chiarezza.
C’è, ha scritto Weiss, “un’espressione utile per quello che ha vissuto quella donna con Ansari. Si chiama cattivo sesso. E fa schifo”. Weiss ammette che le donne sono socialmente abituate a “mettere il desiderio dell’uomo davanti al proprio”. Ma la soluzione a questo problema non è provare risentimento verso gli uomini “perché non riescono a capire i loro ‘indizi non verbali’. Spetta alle donne essere più verbali. Dire: ‘Questo mi eccita’, oppure: ‘No, questo non mi va’”. Weiss biasima Grace: “Se lui ti spinge a fare qualcosa che non vuoi fare, usa la tua vocina, alzati e vattene”. In modo simile, Kipnis, nel podcast Public intellectual di Jessa Crispin, lamentava il fatto che le studenti “non riescono a superare” trenta secondi o un quarto d’ora di cattivo sesso. E Meghan Daum sul Guardian ha parlato del divario tra il sostegno pubblico al #MeToo di molte donne e le loro conversazioni private. Scrive: “Ho sentito femministe che dicevano: ‘Crescete, benvenute nel mondo’”. Così si suggerisce una forte opposizione tra ragazzine fragili e ferite da una parte e donne adulte e sicure di sé dall’altra, ed è chiaro quali delle due dovremmo voler essere.
Questo è un femminismo in cui ogni donna ha il dovere di essere assertiva e sicura di sé, e soprattutto nessuna deve essere percepita come ferita o offesa. In un sistema in cui contano le capacità individuali, il solo fatto di sentirsi ferita è già un segnale di debolezza. Inoltre il cattivo sesso è descritto come una caratteristica inevitabile, un dato brutale e immodificabile a cui le donne devono abituarsi.
Kipnis e Weiss possono ritenersi progressiste sostenendo che le donne possono e devono sfoderare potere e capacità di agire. Eppure, nel fare riferimento in modo così leggero all’ineluttabilità del cattivo sesso quando si è giovani sovraccaricano le donne di un peso sproporzionato nel gestire i rischi del sesso. Considerano un dato inalterabile il disprezzo maschile del piacere e dell’autonomia femminili, e un obbligo delle donne gestirlo, criticando quelle che non riescono a reagire con adeguata disinvoltura.
Tornando al 1993, la pagina di apertura del New York Times sulla politica del consenso di Antioch diceva che l’adolescenza, e in particolare gli anni dell’università, sono “un periodo di sperimentazione, e sperimentare significa commettere errori”; nessun regolamento sarà mai in grado di “proteggere tutti i giovani dall’orribile disagio del giorno dopo”, un momento da cui “si può imparare molto”. Ma se si può imparare dal cattivo sesso, la lezione è uguale per uomini e donne? Forse gli uomini imparano che possono cavarsela senza preoccuparsi del piacere della donna, e le donne imparano che devono dare la priorità al piacere maschile. Chi impara che il suo ruolo è ottenere piacere a qualsiasi costo e chi impara a dover soffrire in solitudine le conseguenze del sesso?
Il consenso è un dato, il minimo indispensabile per fare sesso. Il consenso affermativo, sostiene lo studioso Joseph Fischel in Screw consent, è lo standard minimo per una legge sulla violenza sessuale, il meno peggio rispetto alla forza, alla resistenza o al non consenso. Esigere una minima indicazione, non necessariamente verbale, per un accordo favorevole al sesso mostra rispetto nei confronti dell’autonomia sessuale di una persona, ed è una misura migliore rispetto al silenzio o alla resistenza. Ma il consenso ha un campo di azione limitato e gli viene chiesto di sostenere un peso troppo grande, di risolvere problemi per i quali non è attrezzato.
Non soddisfatte dal concetto di consenso, dalla cultura sessuale nei campus universitari e dal #MeToo, le sostenitrici dell’assertività delle donne si appellano confusamente all’idea che buona parte del sesso consensuale, anche quello con un consenso affermativo, sia comunque brutto: triste, sgradevole, umiliante, unilaterale, doloroso. Il cattivo sesso non deve essere un’aggressione per rivelarsi spaventosa, carica di vergogna o destabilizzante. Si rendono conto che il consenso, come concetto legale, non è in grado di spiegare bene come il sesso possa essere brutto anche senza essere strettamente aggressivo. Ma è come se fossero paralizzate da questa evidenza e non riescano a indagare (o a preoccuparsi per) le dinamiche che determinano il cattivo sesso, un tipo di sesso che per le sue disparità in fatto di piacere è di estrema importanza. Invece di rassegnarci all’inevitabilità del cattivo sesso, o ammantarlo di romanticismo come se fosse una semplice disavventura giovanile, dovremmo considerarlo in modo serio, sottoponendolo a un continuo scrutinio.
Il cattivo sesso è la conseguenza di norme di genere per cui le donne non possono essere agenti paritari nel godimento sessuale, mentre gli uomini hanno diritto alla gratificazione a tutti i costi. Dipende dall’inadeguatezza e dalle disuguaglianze nell’alfabetizzazione sessuale, nell’accesso all’educazione sessuale e ai servizi sanitari relativi alla sessualità. Sfrutta dinamiche di potere disuguali tra le parti, e si basa su nozioni razzializzate di innocenza e colpa. Il cattivo sesso è una questione politica, e ha a che vedere con la disparità di accesso al piacere e all’autodeterminazione. Dovremmo trattarlo così invece di arroccarci dietro un criticismo individualista e minimizzante verso le ragazze che usano i mezzi a loro disposizione per affrontare il dolore della vita sessuale.
La nozione di consenso non solo affermativo ma “entusiasta” cerca di alzare l’asticella nella cultura sessuale: non vogliamo solo che le donne acconsentano al sesso iniziate dagli uomini, ma anche che siano loro stesse a desiderarlo, a provare eccitazione e ad avere desideri ed esigenze. Così il consenso affermativo si trasforma in qualcosa di più ambizioso: desiderio, piacere, entusiasmo, apprezzamento. Il problema con il consenso non è che il sesso non possa o non debba essere contrattuale: la sicurezza delle lavoratrici sessuali si basa proprio sul concetto di contratto e su una sua possibile violazione, in modo che sia chiaro quando sono aggredite. E il punto non è neppure che il consenso sia poco sexy o poco romantico. Il problema è che l’attaccamento al consenso come regola per i nostri ragionamenti sul sesso – il fatto che ne siamo “calamitati” come dice Fischel – ignora un aspetto cruciale della persona: gli individui non hanno gli stessi rapporti di potere tra di loro. L’attaccamento al consenso come quadro più ampio per i nostri ragionamenti sul sesso, che sia bello o brutto, equivale a consolidare l’illusione del liberalismo, per cui, come dice Emily A. Owens, “l’uguaglianza esiste e basta”.
Molte delle esperienze sessuali a cui le donne danno il consenso sono indesiderate, ma le accettano perché sono costrette, hanno bisogno di sfamare se stesse e le loro famiglie o non vogliono correre pericoli. Le donne, in tutte le parti del mondo, ogni giorno, acconsentono al sesso perché sentono di non avere altra scelta, perché sono debitrici nei confronti di un uomo, perché un uomo le minaccia, perché potrebbe farle soffrire licenziandole, sfrattandole, denunciandole come immigrate o per un reato che hanno commesso (per esempio la prostituzione, dove è illegale). Molte leggi sul consenso richiedono che il consenso sia non coercitivo, ma la realtà è che le donne acconsentono a un sesso di cui farebbero volentieri a meno perché sono spaventate dalle conseguenze.
È fondamentale mantenere una distinzione tra consenso ed entusiasmo, proprio perché così possiamo descrivere cosa succede in queste dinamiche di potere disuguale. Relazione di potere disuguale significa che il consenso in sé non può fare la differenza tra sesso bello o brutto, anche se può entro certi limiti distinguere il sesso da una violenza sessuale. Il consenso può essere sexy, ci viene ripetuto con un’insistenza che potrebbe derivare da tutte le critiche che lo deridono come barboso, dovrebbe essere esibito come un elemento giocoso nella contrattazione sessuale; può essere trasformato, come consiglia il sito xoJane.com, “nella fase dei preliminari, in una parte integrante dell’incontro sessuale, con i due partner che si punzecchiano a vicenda, si provocano e s’interrogano su cosa sono disposti (o non disposti) a fare”.
Ma questo funziona solo se presumiamo un certo tipo di partner, uno che è già interessato alla complessa autonomia dell’altro. Tutto dipende dalla possibilità o meno della donna di rifiutare, e non si limita alla questione legale della coercizione. Dipende, tra le altre cose, dalla disponibilità dell’uomo con cui si trova a sentirsi dire di no, dalla sua capacità di negoziare senza abusare del suo maggiore potere fisico e sociale, dal fatto che sfrutti o ignori la consapevolezza che raramente una donna denuncia una violenza sessuale e che se lo fa quasi sempre tutte le possibilità sono contro di lei. Quest’uomo le sta chiedendo di fare sesso mostrandosi aperto alla possibilità che lei dica no? Può incassare un no? Si altererà, ignorerà la cosa, cercherà di convincerla, insisterà, farà il prepotente, la punirà? Qualsiasi modello di consenso si rivela inutile se l’uomo non è aperto alla possibilità di un no da parte della sua partner sessuale, o a un suo mutamento di desiderio, e se reagirà a entrambe le cose con una rabbia scaturita dall’umiliazione. Una donna può andarsene da un incontro sessuale legittimamente sentendosi maltrattata, mentre l’uomo si sente a posto quando sa che ha “acquisito” il consenso.
Lui ha chiesto, lei ha detto di sì. Niente di tutto ciò significa che dobbiamo disfarci del consenso: è fondamentale ed è il minimo indispensabile. Ma non può sostenere il peso di tutti i nostri desideri di emancipazione; dobbiamo sapere quali sono suoi limiti. Il consenso – la disponibilità a fare sesso – non deve fondersi con il desiderio sessuale, il godimento e l’entusiasmo. Non perché dobbiamo rassegnarci al cattivo sesso, ma proprio per il motivo opposto. Che le donne così spesso sperimentino un sesso avvilente è un tema profondamente politico e sociale, e il consenso non può risolvere il problema al posto nostro. ◆ vr, als
Katherine Angel è una scrittrice e studiosa britannica nata a Bruxelles. In Italia ha pubblicato Bella di papà (Blackie 2021). Questo articolo è uscito sul Guardian con il titolo Why we need to take bad sex more seriously. È un estratto del suo nuovo libro, Tomorrow sex will be good again: women and desire in the age of consent, che sarà pubblicato in Italia nel 2022 da Blackie.
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Questo articolo è uscito sul numero 1412 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati