La danza delle api europee (Apis mellifera), in cui gli insetti agitano l’addome da un fianco all’altro tracciando una figura a forma di otto, è stata osservata fin dall’antichità, ma a svelare finalmente il suo significato segreto fu un ricercatore austriaco iconoclasta, Karl von Frisch, a metà del ventesimo secolo. Inizialmente la scoperta gli valse lo scherno degli altri scienziati, ma alla fine gli fece ottenere il premio Nobel.
Von Frisch cominciò a studiare le api nel 1912. Ebbe un’intuizione che contrastava con l’opinione prevalente: la danza delle api è una forma di linguaggio. Seguendo questa ipotesi, contestò due assunti fondamentali della scienza e della filosofia occidentali: che solo gli esseri umani hanno forme complesse di linguaggio e che gli insetti non sono in grado di comunicare in modo articolato, visto il loro piccolo cervello.
Il linguaggio verbale umano si basa in gran parte sui suoni che emettiamo con le corde vocali e la bocca, sulle espressioni del viso e sul modo in cui usiamo e muoviamo il corpo. Quello delle api, invece, è prevalentemente spaziale e basato sulle vibrazioni. La sua sintassi è molto diversa da quella del linguaggio umano: a determinarla sono il tipo, la frequenza, l’angolazione e l’ampiezza delle vibrazioni prodotte dai corpi di questi animali, compresi gli addomi e le ali, mentre si muovono nello spazio. Ronzando e fremendo, inclinandosi e girandosi, le api trasmettono informazioni molto precise. Una volta che un’ape esploratrice ha trovato una buona fonte di cibo, torna all’alveare per informare le sorelle. Durante la danza, l’ape traccia un otto. Oggi sappiamo che questo schema, visibile a occhio nudo, serve a comunicare la direzione verso la fonte di nutrimento rispetto alla posizione del Sole nel cielo; mentre la durata della danza è correlata alla distanza che le api devono percorrere.
Dare istruzioni
Von Frisch decise di lanciare un ambizioso progetto sperimentale: seguire migliaia di api per analizzare il rapporto tra le loro danze e le diverse fonti di cibo. All’epoca sembrava una cosa impossibile, dal momento che le popolazioni degli alveari si aggirano in media tra le diecimila e le quarantamila api. Ma Von Frisch, grazie a una minuziosa attenzione per i dettagli e a una pazienza quasi infinita, riuscì a dimostrare la sua ipotesi: quando un’ape danza, orienta il suo corpo rispetto alla forza di gravità e alla posizione del Sole. Attraverso impercettibili variazioni nella lunghezza, nella velocità e nell’intensità del movimento, è in grado di dare istruzioni precise sulla direzione, la distanza e la qualità della fonte di nettare. Così facendo, istruisce le altre api dell’alveare, che usano le informazioni per volare verso una pianta mai vista prima.
La ricerca di Von Frisch ha dimostrato la sorprendente precisione del sistema di comunicazione delle api. In uno dei suoi esperimenti più famosi, addestrò questi insetti a dirigersi verso una fonte di nettare nascosta a chilometri di distanza, attraversando un lago e aggirando una montagna. Fu un’impresa sbalorditiva, considerando che aveva mostrato il luogo una sola volta a un’unica ape. In un altro esperimento, dimostrò che alveari diversi hanno schemi di danza leggermente differenti. Sembra che le api imparino questi schemi dalle compagne di alveare. In sostanza, il linguaggio della danza delle api ha dei dialetti, proprio come le comunità umane.
Von Frisch stesso rimase così stupito dalle sue scoperte che inizialmente le tenne segrete. Contraddicendo le opinioni scientifiche dominanti, i suoi risultati dimostrarono che le api da miele sono in grado di imparare, memorizzare e condividere delle informazioni attraverso la comunicazione simbolica, una forma di linguaggio astratto. Come scrisse a un confidente nel 1946: “Se pensi che io sia pazzo, ti sbagli. Però ti capisco”.
Il pozzo magico
I timori di Von Frisch erano fondati. Quando finalmente pubblicò la sua ricerca, molti scienziati la liquidarono dicendo che gli insetti con un cervello così piccolo non erano in grado di comunicare in modo complesso. Il biologo statunitense Adrian Wenner lanciò una sfida alla teoria di Von Frisch, sostenendo che le api localizzano gli alimenti solo grazie agli odori, un’ipotesi che poi si dimostrò sbagliata, anche se gli odori sono segnali importanti per questi insetti. Alla fine, i risultati di Von Frisch furono convalidati in modo indipendente e gli fu assegnato il premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1973. Il comitato del premio concluse la sua dichiarazione facendo riferimento alla “sfacciata vanità” dell’Homo sapiens, che si rifiutava di riconoscere le straordinarie capacità delle api.
Von Frisch si riferiva alle danze delle api come a un “pozzo magico”: più le studiava, più risultavano complesse. Ogni specie, sosteneva lo scienziato austriaco, ha il suo pozzo magico. Gli esseri umani hanno il linguaggio verbale. Le balene hanno l’ecolocalizzazione, che gli consente di visualizzare un intero ambiente attraverso il suono. Le api da miele hanno un linguaggio basato sui movimenti del corpo e sullo spazio. Oggi riconosciamo alcune sottili differenze nei loro movimenti e vibrazioni, che le fanno dimenare, bussare, emettere versi striduli, accarezzare, strattonare, afferrare, stridere, tremare e muovere le antenne, tra le altre cose.
La danza delle api è tuttora considerata da molti scienziati il sistema simbolico animale più articolato mai decodificato dagli esseri umani. Anche se inizialmente molti scienziati sostenevano che dovesse essere definita semplicemente come un metodo di comunicazione, Von Frisch insistette nell’usare il termine linguaggio: attraverso un sistema di segni, le api si scambiano informazioni, coordinano comportamenti complessi e formano gruppi sociali.
I ricercatori, seguendo le orme di Von Frisch, hanno esplorato il pozzo magico ancora più a fondo. Le api emettono molti altri tipi di segnali attraverso movimenti sfumati, comunicando con suoni e vibrazioni in gran parte non udibili o indecifrabili dagli umani. Inoltre, usando un software che automatizza la decodifica delle vibrazioni e dei suoni delle api – un campo noto come vibroacustica – gli scienziati stanno usando degli algoritmi per analizzare questi segnali. Le loro scoperte sono incredibili quanto le prime conquiste di Von Frisch.
Pessimismo e sbalzi d’umore
Anche se è noto da secoli che le regine hanno un proprio vocabolario, che comprende suoni simili a quello del clacson o al verso delle papere, i ricercatori hanno scoperto che anche le api operaie hanno dei loro modi di avvisare, per esempio attraverso un sussurro, usato per indicare di fare silenzio o fermarsi in caso di specifiche minacce; o un grido per segnalare un pericolo, prodotto battendo leggermente sull’alveare. Le api operaie emettono anche segnali di richiamo, richiesta e agitazione che orientano il comportamento collettivo e individuale.
Le api hanno un’ottima vista e sono in grado (con un addestramento minimo) di distinguere i quadri di Monet da quelli di Picasso. Possono riconoscere non solo i fiori e i paesaggi, ma perfino i volti umani, dimostrando una notevole capacità di elaborare informazioni visive complesse. Due esperimenti rivoluzionari condotti nel 2016 e nel 2017, hanno scoperto che le api sono capaci di imparare e trasmettere delle conoscenze, una novità assoluta nelle ricerche sugli invertebrati in occidente: dopo essere state addestrate a tirare una corda per ricevere una ricompensa di zucchero (un compito mai svolto prima), hanno insegnato la nuova abilità alle loro compagne di alveare, dimostrando che possono imparare dall’osservazione di altri esemplari e che queste competenze apprese possono essere condivise e diventare parte della cultura della colonia.
La danza delle api è tuttora considerata da molti scienziati il sistema simbolico animale più articolato mai decodificato dagli esseri umani
È stato anche scoperto un lato oscuro della vita sociale delle api europee: pur essendo generalmente collaborative, precise ed efficienti, sono anche capaci di errori, furti, imbrogli e parassitismo. Possono perfino provare emozioni, manifestando pessimismo e sbalzi d’umore indotti dalla dopamina, analoghi agli alti e bassi delle persone.
Forse la ricerca più notevole è quella di Thomas Seeley, studioso della Cornell university, negli Stati Uniti, che ha dimostrato come le api non usino il linguaggio solo per comunicare informazioni sul cibo. Per diversi decenni Seeley ha concentrato le sue ricerche sulla sciamatura, il modo in cui le famiglie di api si riproducono: una singola colonia si divide in due o più colonie, e un gruppo vola via per trovare una nuova casa. In che modo, si è chiesto Seeley, decide dove andare?
Quando il biologo decise di concentrarsi sulla sciamatura, gli scienziati ne sapevano ben poco. Le api più veloci in uno sciame volano a più di trenta chilometri all’ora e di solito si muovono in linea retta verso l’obiettivo, a prescindere da campi, specchi d’acqua, edifici, colline o foreste sul loro tragitto. Non c’è modo per un essere umano di stare al passo con lo sciame, tanto meno di tenere traccia di diverse migliaia di api per capire chi di loro stia guidando le altre, se lo fa. Seeley voleva capire come scelgono il luogo dove creare il nuovo alveare, una decisione ad alto rischio, dato che l’allontanamento da quello d’origine potrebbe causare la perdita della regina e la morte della colonia, se il luogo scelto è inadeguato.
A metà degli anni duemila Seeley convinse un ingegnere informatico, incuriosito dalle analogie tra gli sciami e le auto senza conducente, a installare una videocamera molto potente nel luogo in cui Seeley conduceva le sue ricerche, sull’isola di Appledore, al largo della costa del Maine, negli Stati Uniti. L’obiettivo era creare un algoritmo in grado d’identificare e tracciare circa diecimila api che sciamavano insieme.
Dopo due anni di lavoro, l’algoritmo finalmente funzionò: grazie a fotocamere digitali in grado di catturare movimenti impercettibili e a nuove tecniche di visione artificiale (che permette di ricavare informazioni dalle immagini) fu possibile identificare ogni ape e analizzare il modello del loro frenetico volo. L’algoritmo rivelò schemi che l’occhio umano non riesce a cogliere; la decodifica della diversità, della densità e delle interazioni in questi schemi spinse Seeley a etichettare lo sciame come “entità cognitiva”.
Forse la sua scoperta più sorprendente fu che le api europee scelgono il punto in cui formare il nuovo alveare in base a processi decisionali democratici e sofisticati, che prevedono una verifica collettiva, un dibattito vigoroso, la costruzione del consenso, il quorum e un complesso segnale per l’inibizione incrociata, prevenendo lo stallo. Uno sciame d’api, in altre parole, è un organo decisionale democratico straordinariamente efficace, che somiglia ad alcuni meccanismi del cervello umano e della società umana. Seeley si spinse fino a sostenere che le interazioni collettive delle singole api erano incredibilmente simili alle connessioni tra i nostri neuroni quando prendono collettivamente una decisione.
Le scoperte di Seeley hanno consolidato le tesi di chi sosteneva la necessità di definire la comunicazione delle api come linguaggio. Dimostrando che la “mente alveare” è più di una semplice metafora, Seeley ha anche stimolato i progressi nello studio dell’intelligenza degli sciami nella robotica e nell’ingegneria. La sua ricerca, basata sulla tecnologia digitale (visione artificiale e apprendimento automatico), ha chiuso il cerchio: le sue scoperte hanno ispirato gli ingegneri informatici del Georgia tech institute of technology a creare l’algoritmo Honey bee, che oggi è parte integrante del cloud computing: nei centri (simili agli alveari) che ospitano i server (le api bottinatrici) ottimizza l’assegnazione dei compiti (fonti di nettare), aiutando così a gestire i picchi improvvisi di domanda ed evitando lunghe attese. Nel 2016 Seeley e i suoi collaboratori hanno ricevuto il Golden goose award, un premio per le ricerche apparentemente astruse che poi si rivelano di grande valore.
La caccia al miele è un’arte antica: alcune delle prime pitture rupestri mostrano esseri umani che cacciano api selvatiche
Una stretta di mano
Grazie a Von Frisch e agli altri studiosi, i ricercatori sanno da tempo che le api reagiscono in modo diverso ai distinti segnali di vibrazione. Negli ultimi anni, l’uso della visione artificiale e di accelerometri miniaturizzati (versioni ultrasensibili dei sensori di movimento dello smartphone) ha permesso di decodificare quelli in gran parte impercettibili per gli esseri umani. Questi progressi tecnologici hanno permesso di analizzare la comunicazione e l’attività delle api per tutta la durata della loro vita.
La prossima svolta – per colmare quello che gli ingegneri chiamano il “divario di realtà” tra i robot e le api – è la creazione di robot che imitino accuratamente questi modelli di vibrazione. Negli ultimi dieci anni Tim Landgraf, professore di matematica e informatica a Berlino, in Germania, si è dedicato a quest’impresa. Gran parte della sua ricerca si è concentrata sull’identificazione automatizzata delle singole api e sul tracciamento dei loro movimenti attraverso la visione artificiale e l’apprendimento automatico. Un esperimento ha analizzato circa tre milioni d’immagini scattate in tre giorni e ha tracciato le traiettorie di ogni ape di un alveare, con un tasso di errore del 2 per cento.
Il lavoro più innovativo di Landgraf riguarda la creazione di robot in grado di comunicare con le api europee nella loro lingua. In collaborazione con i colleghi del centro per l’apprendimento automatico e la robotica della Free university di Berlino, Landgraf ha costruito RoboBee. I primi prototipi “facevano schifo”, come racconta: le api li attaccavano, mordendoli, pungendoli e trascinandoli fuori dall’alveare.
La svolta è arrivata al settimo tentativo. Un numero statisticamente rilevante di api seguiva la danza di RoboBee e poi volava verso la posizione che Landgraf aveva stabilito. In sostanza, aveva creato un equivalente bio-digitale di Google translate per le api.
Alcuni segnali dei suoi robot funzionano e altri no, e Landgraf non è ancora sicuro del perché. La sua ipotesi è che sia necessario emettere prima un segnale preliminare, come una stretta di mano che precede una conversazione. A volte le sue api robot lo emettono per puro caso, e allora quelle vere le ascoltano. Oppure potrebbe essere necessaria una vibrazione creata da un altro dispositivo. Uno di questi strumenti, recentemente inventato dalla ricercatrice Phoebe Koenig della Cornell university, a New York, imita accuratamente il segnale di scuotimento che le api usano per comunicare.
Un giorno, spera Landgraf, i RoboBees saranno considerati “nativi” dalle api stesse, in grado d’impartire ordini e reclutarle con la danza per farle volare in luoghi precisi. I futuri robot potrebbero perfino imparare i dialetti delle api, che variano a seconda dell’habitat. E questa è solo la punta dell’iceberg: il lavoro di Tim Landgraf potrebbe consentire di capire come la colonia stessa elabora e integra diversi tipi d’informazioni, un po’ come un computer vivente distribuito tra migliaia di piccoli cervelli interconnessi.
Ora il matematico sta andando oltre il monitoraggio delle api per costruire alveari intelligenti in grado di comunicare in modo bidirezionale. Vibrazioni, segnali acustici e feromoni potrebbero essere usati per avvertire le colonie di eventuali minacce, come campi vicini trattati con pesticidi o l’arrivo di tempeste, o per guidare le api alla ricerca delle migliori fonti di cibo disponibili.
Effetto stupefacente
Per quanto queste innovazioni possano sembrare rivoluzionarie, Landgraf non è il primo ad aver scoperto come parlare alle api usando la vibroacustica. La comunicazione con le api è infatti un’antica abilità umana.
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Il primo dispositivo vibroacustico conosciuto, il rombo, è considerato uno dei più antichi strumenti musicali. Usato nelle cerimonie dalle popolazioni indigene di tutti i continenti e nei misteri dionisiaci dagli antichi greci, ha una funzione meno nota come strumento di caccia alle api. Il rombo (turndun o bribbun per le comunità native australiane, kalimatoto padōk per il popolo pomo in California, negli Stati Uniti) è all’apparenza semplice: una lunga corda, realizzata anche con i tendini di un animale, è attaccata a un sottile rettangolo di legno, pietra o osso, arrotondato alle estremità. Alla corda è data una leggera torsione iniziale, e poi il rombo è fatto girare in tondo. Il suono, prodotto dall’aria che vibra tra i novanta e i centocinquanta herz, è sorprendentemente forte, simile a quello di un’elica. L’effetto è stupefacente e palpabile: un ronzio che risuona nelle ossa, come se ci si trovasse all’interno di un gigantesco sciame d’api.
Il popolo africano san usa i rombi per provocare la sciamatura delle api e indirizzarle verso nuovi alveari in luoghi facilmente accessibili agli esseri umani. Il termine san per indicare il rombo è “!goin !goin”, che significa letteralmente “battere”, come percuotere un tamburo. Il rombo è fatto oscillare durante una danza che porta i san in uno stato di trance attraverso il quale gli anziani invocano e guidano le api. Gli apicoltori impiegano una versione semplice di questo metodo per calmare le api e guidarle verso un alveare. Molto prima che in occidente la scienza scoprisse la vibroacustica, i san avevano sviluppato un’articolata comprensione della comunicazione delle api. Gli antropologi parlano di una “compresenza” che i san hanno creato con le api, basata su abilità sonore mimetiche.
I san non sono gli unici in grado di comunicare con le api. In alcune zone dell’Africa i cercatori di miele sono guidati verso agli alveari da un uccello: l’indicatore golanera (il suo nome latino, Indicator indicator, ne rivela il compito). La caccia al miele è un’arte antica: alcune delle prime pitture rupestri mostrano esseri umani che cacciano api selvatiche. E i cacciatori di miele per eccellenza del regno animale sono gli indicatori golanera. Sono tra i pochi uccelli (e vertebrati) del pianeta che si nutrono di cera d’api. Ricca di sostanze nutritive e di lipidi energetici, la cera d’api è un alimento ricercato da questi uccelli. Ma nella maggior parte dei casi in Africa gli alveari sono ben nascosti nelle cavità degli alberi, sorvegliati da api feroci che possono uccidere gli uccelli se si avvicinano troppo. Gli indicatori golanera, probabilmente guidati dal loro olfatto, sanno dove si trovano le api ma non riescono a raggiungere la cera. Così si alleano con un animale che non è altrettanto bravo a trovare gli insetti, ma che sa come ottenere la cera: gli esseri umani.
Per cacciare insieme, gli indicatori golanera e le persone hanno sviluppato una sottile forma di cooperazione. Innanzitutto, gli esseri umani emettono un richiamo speciale, segnalando che sono pronti ad andare in cerca di miele. Nel caso dei cacciatori yao della riserva nazionale del Niassa, in Mozambico, su cui si sono concentrati i ricercatori guidati da Claire Spottiswoode dell’università di Cambridge, nel Regno Unito, questo suono è simile a brrr-hmmm: un forte trillo seguito da un grugnito. In risposta, gli uccelli si avvicinano ed emettono uno speciale cinguettio.
Gli indicatori golanera volano quindi in direzione del nido d’api, seguiti dai cacciatori. Quando il cinguettio si attenua e gli uccelli smettono di volare, i cacciatori sanno di essere vicini. Scrutano i rami degli alberi e colpiscono i tronchi con le loro asce per costringere le api a rivelare la posizione del nido. I cacciatori preparano quindi un fascio di foglie e legna, che bruciano proprio sotto di loro per stordirle prima di abbattere gli alberi con le loro asce e aprire l’alveare. Mentre riempiono i secchi da portare a casa, gettano via i favi secchi che non contengono miele, mettendo a disposizione il cibo per gli uccelli. Gli indicatori golanera aspettano pazientemente, scendendo in volo per nutrirsi solo dopo che gli esseri umani se ne sono andati. Prima di tornare, i cacciatori yao raccolgono la cera e la mettono su un piccolo letto di foglie verdi fresche, onorando il contributo degli uccelli alla loro caccia.
Gli scienziati hanno confermato le affermazioni del popolo borana del Kenya settentrionale, i cui esponenti sostengono di poter dedurre la distanza, la direzione e il tempo per raggiungere il nido dai richiami, dall’altezza e dagli schemi di volo degli uccelli. Spottiswoode ha anche verificato che quando i cacciatori di miele emettono il loro suono speciale, la probabilità di essere guidati da un indicatore golanera aumenta dal 33 al 66 per cento, e la probabilità complessiva di trovare un nido di api dal 17 al 54 per cento.
Potremmo aspettarci la capacità di interpretare i suoni umani da parte di animali addestrati come falchi e cani, e perfino da alcuni allo stato brado come i delfini. Ma dagli uccelli selvatici? Anche i suoni scambiati tra cacciatori e indicatori golanera non sono gli stessi in tutta l’Africa. Sono appresi dagli anziani, tramandati da una generazione all’altra. Come imparano gli uccelli a comunicare con gli esseri umani? In realtà non lo sappiamo ancora, ma sappiamo che gli indicatori golanera non imparano a collaborare con gli esseri umani dai loro genitori. I pulcini non li incontrano mai: gli adulti depongono le uova nei nidi di altri uccelli, bucando le uova che trovano per aumentare il tasso di sopravvivenza dei loro piccoli. Poi se ne vanno. Fin dalla nascita, i pulcini hanno becchi affilati e uncinati, che spesso usano per uccidere gli altri uccellini sopravvissuti agli attacchi dei genitori.
Umani, insetti e robot
Come fanno gli indicatori golanera a imparare i richiami degli esseri umani? Spottiswoode e i suoi colleghi stanno combinando le tecnologie digitali con le conoscenze tradizionali per scoprirlo. Hanno sviluppato un’app che consente ai cacciatori di miele di raccogliere dati sulle loro attività. Nelle foreste del Niassa, un’area grande come la Danimarca, con poche strade e nessuna connessione a internet, i cacciatori di miele yao si aggirano armati di dispositivi Android portatili, impiegati dall’università di Cambridge come assistenti nella tutela dell’ambiente, cantando agli indicatori golanera mentre cercano le api.
◆ Le api sono molto importanti per gli esseri umani: non solo perché producono miele, ma soprattutto per la loro attività di impollinazione che garantisce la riproduzione di un numero molto elevato di specie vegetali. Ci sono circa ventimila specie di api. Molte sono in declino, soprattutto quelle più rare, a causa dell’uso di pesticidi, della distruzione del loro habitat e del cambiamento climatico. Nel 2006 è stato individuato un fenomeno chiamato sindrome dello spopolamento degli alveari, che provoca il collasso delle colonie. Le cause sono ancora incerte, ma secondo i biologi l’agricoltura intensiva e l’industrializzazione hanno creato una serie di fattori di stress che non uccidono le api, ma compromettono la loro capacità di andare alla ricerca di cibo e tornare alla colonia.
New Scientist
I creatori degli alveari intelligenti sostengono che le tecnologie offrono il potenziale per migliorare la protezione dell’ambiente grazie alla collaborazione tra esseri umani, insetti e robot dotati di intelligenza artificiale. Gli alveari intelligenti potrebbero usare sensori e telecamere per monitorare le api e fornirgli informazioni per guidare l’impollinazione, evitando luoghi inquinati. Inoltre, le api potrebbero mappare zone pericolose per gli esseri umani o alimentare gli sciami di robot impiegati per la tutela dell’ambiente, o ancora contribuire alle missioni di ricerca e salvataggio.
Man mano che i dati si accumulano, emerge un effetto gemellaggio, con alcuni alveari creati in un mondo digitale che rispecchia quello fisico. Questo potrebbe contribuire a invertire la rotta nella nostra corsa per salvare non solo le api, ma anche molte altre specie. Quando raccolgono il nettare, le api prelevano continuamente campioni dall’ambiente, quindi chi meglio di loro può agire da sentinella per i rischi ambientali? Le api e altri insetti sono stati addestrati con successo a rilevare una serie di sostanze chimiche e inquinanti. La decodifica di un gran numero di danze provenienti da un’area specifica potrebbe aiutare a valutare i paesaggi per la sostenibilità e la conservazione. Potrebbe rendere più efficiente l’impollinazione e fornire indicazioni su come scongiurare il fenomeno diffuso e allarmante della sindrome dello spopolamento degli alveari. Le api potrebbero anche essere reclutate come bioindicatori viventi per sorvegliare, monitorare e raccontare il paesaggio in un modo sofisticato e poco costoso, che gli esseri umani non potrebbero realizzare da soli.
Ma la tecnologia crea anche i presupposti per usare le api come armi. Questi insetti hanno una lunga storia con l’esercito e di recente sono stati usati per alcuni obiettivi di sicurezza. Negli Stati Uniti le forze armate hanno testato attivamente i biorilevatori delle api nelle operazioni contro il traffico di droga, per la sicurezza interna e lo sminamento. La mobilitazione di quelli che gli scienziati dell’esercito chiamano “soldati a sei zampe” richiede una manipolazione genetica e meccanica del sistema nervoso, dei modelli di migrazione e delle relazioni sociali delle api.
Il progetto Stealthy insect sensor addestra le api a mostrare la lingua quando rilevano sostanze chimiche pericolose. Come scrive Jake Kosek su Cultural Anthropology, una volta istruiti, i singoli insetti possono essere messi dentro delle cartucce inserite nei monitor usati dai soldati. Quando le api reagiscono a un esplosivo di tipo militare, per esempio, il microchip del monitor traduce il segnale in un allarme. Le api addestrate vivono per non più di qualche settimana, morendo all’interno della cartuccia. Una cartuccia di ricambio è spedita al soldato e, secondo lo scienziato responsabile del progetto, “basta sfilare una cartuccia con dentro le api e sostituirla con un’altra”.
Mobilitare le api per individuare esplosivi pericolosi può essere un vantaggio per i militari, ma la manipolazione e l’eliminazione delle api da miele su larga scala dovrebbe farci riflettere. I progressi tecnologici nella nostra capacità di capire come vivono e comunicano le api non dovrebbero essere impiegati per trasformarle in strumenti di guerra.
Ci sono altri modi di pensare al nostro rapporto con le api. Per le culture tradizionali come i san e gli yao, comunicare con questi insetti è parte integrante di una cerimonia sacra. Il miele è una questione pratica e spirituale, sia cibo sia sacramento. Questa visione non è limitata ai cacciatori-raccoglitori dell’Africa; in Europa le prime rappresentazioni neolitiche di dee api risalgono a più di ottomila anni fa. E molti dei più antichi testi scritti dell’umanità celebrano la divinità nelle api. Quasi tremila anni fa gli autori della Brihadaranyaka Upanishad, un testo chiave dell’induismo, riportavano la “dottrina del miele”, una teoria sulla natura organica e interconnessa della vita, in cui il miele personifica il nutrimento cosmico per il terreno luminoso dell’essere: “Questa terra è miele per tutte le creature e tutte le creature sono miele per questa terra”.
Osservare le api bioibride che si impegnano in una reciproca (anche se rudimentale) comunicazione tra le specie mi dà un senso di sacro stupore. Assistere alla trasformazione delle api in dispositivi militari di rilevamento usa e getta mi terrorizza. Queste due alternative sono emblematiche del rapporto dell’umanità con la natura. Sceglieremo il dominio o la collaborazione?
Se optiamo per la seconda strada, è probabile che le api abbiano ancora molto da dirci, e noi a loro. E non sarà l’unica specie con cui gli esseri umani cominceranno un dialogo. ◆ svb
◆ Gli scienziati stanno conducendo diverse ricerche che impiegano l’intelligenza artificiale per decodificare la comunicazione degli animali. Fino a poco tempo fa la comprensione delle loro vocalizzazioni si basava sulla lunga e paziente osservazione. Ora i ricercatori hanno cominciato a usare l’apprendimento automatico per gestire l’enorme quantità di dati che possono essere raccolti grazie a sensori applicati agli animali. Elodie Briefer, dell’università di Copenaghen, in Danimarca, ha sviluppato un algoritmo che analizza i grugniti dei maiali per individuare le emozioni positive e quelle negative. Il progetto Elephant ethogram, creato dall’organizzazione non profit statunitense ElephantVoices, è un catalogo online aperto a tutti che raccoglie i comportamenti e le vocalizzazioni degli elefanti, e i loro significati, come una specie di dizionario. Lo statunitense Earth species project ha l’ambizione di tradurre il linguaggio di tutte le specie viventi grazie all’intelligenza artificiale. La domanda da farsi è se le nuove tecnologie saranno usate per proteggere meglio gli animali o per manipolarli e addomesticarli. E se gli animali vogliano davvero parlare con noi. The Guardian, New Scientist, De Standaard
Questo articolo è stato pubblicato su Noēma Magazine. Per leggere la versione originale e altri pezzi in inglese visitate noemamag.com.
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Questo articolo è uscito sul numero 1514 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati