Il 1 maggio 1942 un piccolo gruppo di comunisti festeggiò clandestinamente la festa dei lavoratori nel centro di Vienna. Poco importava che fossero prigionieri della Gestapo e tenuti in isolamento: avevano scoperto da tempo che i loro gabinetti erano collegati agli stessi tubi e, svuotando il sifone e infilando la testa nella tazza, riuscivano a parlarsi. Ne approfittavano ogni giorno: si scambiavano notizie da casa, speranze, paure e gli esiti delle udienze in tribunale. In quella giornata dei lavoratori, attraverso le tubature, viaggiarono poesie, discorsi e, per chiudere, anche L’internazionale.
“Il carcere era l’unico posto in Austria dove nel 1942 si poteva ancora cantare L’internazionale. Fu una festa indimenticabile”, raccontò più tardi Margarete Schütte-Lihotzky, una delle prigioniere, nel suo libro Erinnerungen aus dem Widerstand (Ricordi dalla resistenza).
Schütte-Lihotzky ebbe una vita lunga e intensa. Eppure il suo nome resta indissolubilmente legato a uno spazio progettato quando aveva appena 29 anni: la cucina di Francoforte
Schütte-Lihotzky era stata arrestata nel 1941 per il suo ruolo di corriere del Partito comunista austriaco (Kpö), che guidava la resistenza contro il regime nazista nel suo paese. Riuscì a sfuggire per un soffio alla condanna a morte, ma rimase in carcere fino alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945. Quell’esperienza segnò una frattura nella sua vita: da un lato l’esordio brillante come giovane architetta, spinta dal desiderio di migliorare la vita delle donne della classe operaia; dall’altro quella che lei stessa avrebbe definito la sua “seconda vita”: comunista militante e attivista politica che fu professionalmente emarginata in patria per le sue idee e ricevette i giusti riconoscimenti solo negli ultimi decenni della sua esistenza.
Schütte-Lihotzky ebbe una vita lunga e intensa, ed è morta nel 2000 pochi giorni prima di compiere 103 anni. Eppure il suo nome resta indissolubilmente legato a uno spazio progettato quando ne aveva appena 29: la cucina di Francoforte, prototipo della cucina moderna componibile.
Ideata nel 1926 all’interno di un vasto programma di edilizia popolare a Francoforte, in Germania, la “cucina di Francoforte” introdusse molti degli elementi che oggi diamo per scontati: un piano di lavoro continuo con alzatina piastrellata, mobili e cassetti integrati pensati per ottimizzare lo spazio, tutto all’insegna del comfort e dell’efficienza. Il progetto finale fu installato in diecimila appartamenti della città, e alcuni esemplari originali sono ancora esposti in musei di tutto il mondo, tra cui il Victoria and Albert museum di Londra e il Moma di New York, dove è l’opera più antica della collezione firmata da un’architetta.
Quel progetto s’inseriva in un tentativo più ampio di standardizzare le abitazioni e alleggerire il carico quotidiano della classe operaia. “Schütte-Lihotzky non si limitò a progettare una cucina”, spiega l’architetta austriaca Renate Allmayer-Beck. “Era un’idea per migliorare la vita delle donne offrendo una cucina più funzionale, in cui potessero gestire il lavoro domestico con meno fatica e avere più tempo per sé”.
Schütte-Lihotzky considerava l’architettura una questione politica. Crescere in una famiglia borghese l’aveva tenuta al riparo dalle difficoltà della vita a Vienna, ma da studente di architettura visitò i quartieri operai della città e rimase sconvolta dalle condizioni abitative. Vide famiglie ammassate in stanze condivise da otto o nove persone e “affittuari di letto” costretti a subaffittare un materasso per poche ore al giorno. Fu un’esperienza che consolidò la sua decisione di diventare architetta. “Non conoscevo ancora la frase di Heinrich Zille ‘Si può uccidere una persona con una casa, così come con un’ascia’, ma l’avevo già intuita: all’epoca non capivo ancora le cause profonde di tanta sofferenza, ma desideravo una professione che mi permettesse di alleviarla”, si legge in Warum ich Architektin wurde (Perché sono diventata architetta), il cui manoscritto fu ritrovato dopo la sua morte e pubblicato nel 2004.
Il design sociale sarebbe rimasto il filo conduttore nel suo lavoro. Dopo essere stata una delle prime donne austriache a laurearsi in architettura, nel 1919, collaborò con il movimento viennese per la casa: migliaia di famiglie che dopo la prima guerra mondiale s’insediarono su terreni pubblici alla periferia della città, costruendo rifugi di fortuna e coltivando orti per affrontare la mancanza di alloggi e cibo. Progettando casupole coloniche e kernhaus (casa nucleo), unità abitative standardizzate che potevano essere ampliate in base alle disponibilità della famiglia, cominciò a chiedersi come l’organizzazione degli spazi domestici potesse semplificare il lavoro in casa. Le sue soluzioni prevedevano cucine abitabili e perfino un’estensione avveniristica dell’angolo cottura, in cui tutti gli elementi erano fusi in un unico blocco di cemento. Il suo lavoro attirò l’attenzione dell’architetto tedesco Ernst May, che nel 1926 la invitò a Francoforte, dove avrebbe progettato la sua cucina nell’ambito di un programma di case popolari.
Anche se la cucina di Francoforte era presentata come il progetto di una donna per le donne, Schütte-Lihotzky detestava l’idea che il suo genere le attribuisse automaticamente un sapere domestico innato. Nel suo libro di memorie scrisse che quella narrazione “rafforzava le convinzioni della borghesia e della piccola borghesia dell’epoca secondo cui le donne, in fondo, lavorano in casa davanti ai fornelli”. In realtà, Schütte-Lihotzky non aveva mai gestito una casa né messo mano ai fornelli prima di progettare la cucina, affrontando il compito solo come un problema architettonico. Consultò studi sulla razionalizzazione del lavoro domestico, condusse ricerche sui tempi e sui movimenti necessari per svolgere le attività quotidiane e studiò le cucine a bordo dei treni.
La cucina di Francoforte era compatta ed efficiente, progettata per ridurre i costi e la fatica fisica. Chi la usava poteva passare dal lavello ai fornelli senza fare un solo passo. In nome dell’efficienza, Schütte-Lihotzky scelse anche di spostarla da un angolo della zona giorno a uno spazio separato, una decisione che, all’epoca, lasciò perplessa più di una casalinga.
Progettare la prima cucina prefabbricata, componibile e prodotta in serie in un’epoca in cui nulla di tutto ciò era la norma fu una sfida immensa dal punto di vista logistico e tecnologico. “È proprio questo il nodo cruciale”, spiega Christine Zwingl, direttrice del centro Margarete Schütte-Lihotzky. Secondo Zwingl, l’architetta dovette tenere conto “delle complesse questioni architettoniche e di costruzione, che includevano non solo gli aspetti sociali, ma anche tutte le valutazioni tecniche e gli sviluppi concreti della tecnologia”.
Il centro Margarete Schütte-Lihotzky, con sede nell’appartamento restaurato che l’architetta progettò negli anni settanta e in cui visse fino alla morte, è un museo dedicato alla sua vita e al suo lavoro, ma anche un progetto di ricerca sulla storia delle architette in Austria. Nel settembre 2024 il centro ha completato la ricostruzione della cucina personale di Schütte-Lihotzky e l’ha aperta al pubblico. “È stata un’indagine da detective”, racconta Renate Allmayer-Beck, che ha guidato il progetto servendosi di fotografie e due piante originali. La minuscola cucina è un esempio perfetto del suo funzionalismo elegante e sobrio: ogni centimetro è ottimizzato per la praticità, ma dietro le ante verde scuro si nasconde un interno rosso brillante, senza altra funzione se non quella di sorprendere. Molti dei dettagli riprendono direttamente il progetto del 1926: l’asse da stiro pieghevole contro la parete, i contenitori con dosatore per alimenti secchi inseriti in appositi scomparti, un piano di lavoro aggiuntivo nascosto in cassetti poco profondi.
A partire dagli anni ottanta, Allmayer-Beck e Christine Zwingl lavorarono fianco a fianco con Schütte-Lihotzky, raccogliendo materiale sul suo lascito e organizzando il suo archivio proprio nell’appartamento che oggi hanno ricostruito. “Solo ora ci rendiamo conto di tutti i dettagli, di quanto fosse progettato con cura, con amore e con intelligenza funzionale”, dice Allmayer-Beck.
Tutto cominciò nel 1980 quando Zwingl, allora giovane studente di architettura, assistette a una conferenza di Schütte-Lihotzky. “Eravamo sbalorditi: raccontava una carriera e una vita profondamente internazionali”, ricorda. “Era una donna minuta, dall’aspetto discreto, ma sapeva parlare benissimo e con grande energia”.
All’epoca, Schütte-Lihotzky aveva più di ottant’anni e una vita che da sola riempie diversi libri: nel 1930 si trasferì in Unione Sovietica, unica donna tra 17 esperti incaricati di progettare nuove città come Magnitogorsk, nell’ambito del primo piano quinquennale di Stalin. L’unica condizione che pose per accettare l’incarico fu di non occuparsi di cucine. Al contrario, le fu affidata la progettazione di asili, scuole e centri per l’infanzia, un lavoro in linea con il suo desiderio di sostenere le donne lavoratrici.
Nel 1938 si trasferì a Istanbul per sfuggire alle purghe staliniane e si iscrisse al Partito comunista austriaco, contribuendo alle attività della resistenza. Nel dicembre 1940 tornò brevemente a Vienna, ufficialmente per far visita alla sorella, ma in realtà per consegnare messaggi agli attivisti locali come corriere del Kpö. Fu arrestata dalla Gestapo il 22 gennaio 1941, il giorno prima del suo quarantaquattresimo compleanno e del previsto rientro a Istanbul.
Durante la guerra fredda le sue convinzioni comuniste le resero difficile ottenere incarichi pubblici in Austria, ma continuò a lavorare come architetta indipendente e a collaborare a progetti in Cina, a Cuba e nella Repubblica Democratica Tedesca. “Era una persona davvero straordinaria”, dice Christine Zwingl. “Un modello non solo per la sua professione, ma anche come ha vissuto: consapevole della sua storia, ma con uno sguardo architettonico rivolto al futuro: ‘Noi costruiamo per il domani, e dobbiamo pensarci’”.
Nemmeno l’età avanzata attenuò il suo impegno per un futuro migliore. Diventò una pacifista e femminista di rilievo, contribuendo alla fondazione del consiglio austriaco per la pace, ramo locale del consiglio mondiale per la pace, che era politicamente vicino al blocco sovietico, e nel 1948 fu la prima presidente della Federazione delle donne democratiche austriaca. Quando negli anni settanta la cucina di Francoforte fu criticata dalle femministe della seconda ondata per aver isolato le donne e reso invisibile il lavoro domestico, le accuse la colpirono profondamente.
Nelle sue memorie Schütte-Lihotzky difende la sua creazione: “La cucina ha semplificato la vita delle persone e ha permesso alle donne di lavorare e diventare economicamente più indipendenti dagli uomini”, scrisse. Però ammette: “Sarebbe triste se ciò che allora era considerato all’avanguardia fosse considerato ancora oggi un modello di progresso”.
Molti dei suoi progetti, oscurati da quella che lei stessa definì “quella maledetta cucina”, erano apertamente femministi. A Francoforte progettò alloggi per donne lavoratrici single e per gran parte della sua carriera si dedicò alla progettazione di scuole materne. “La sofferenza delle lavoratrici che non riescono ad affidare i figli piccoli a educatori qualificati durante l’orario di lavoro è nota”, scrisse. “La soluzione non è certo ridurre il numero di donne occupate, ma costruire più strutture per l’infanzia”.
Negli anni ottanta il mondo la riscoprì, e cominciarono a fioccare premi e riconoscimenti. Ma lei continuò a dare priorità all’impegno politico: nel 1988 rifiutò la medaglia austriaca per la scienza e l’arte a causa del coinvolgimento dell’allora presidente Kurt Waldheim nei crimini nazisti. Al suo centesimo compleanno, celebrato al museo di arti applicate di Vienna, dove ballò un valzer con il sindaco, parlarono esponenti di associazioni femministe, politici e la figlia di una compagna della resistenza.
A Francoforte aveva imparato a misurare le distanze a passi, un’abilità che tornò utile quando negli ultimi anni di vita perse la vista. Il suo ristorante preferito distava 264 passi da casa, e quando nel 2021 il centro Margarete Schütte-Lihotzky ha aperto al pubblico il suo appartamento restaurato, i vicini ancora la ricordavano sfrecciare per strada con il bastone sollevato, gridando: “Arrivo!”.
“Tutti si fermavano per lasciarla passare, anche le auto”, ride Allmayer-Beck. “Non è mai stata vecchia. Fino all’ultimo giorno”. ◆ svb
Kaja Seruga è una giornalista freelance slovena che vive a Vienna. Questo articolo è uscito sul periodico online di viaggi statunitense Atlas Obscura con il titolo “Meet the feminist resistance fighter who created the modern kitchen”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati