Poiché ho scritto il mio romanzo Dove mi trovo in italiano, la prima a dubitare di potergli dare una forma inglese sono stata io. Naturalmente tradurlo è possibile; si può tradurre, più o meno bene, qualsiasi testo. Non mi sono certo sentita in apprensione quando i traduttori hanno cominciato a volgere il romanzo in altre lingue, per esempio in spagnolo, in tedesco, in olandese. Anzi, quella prospettiva mi ha gratificata. Ma quando è arrivato il momento di rifare questo libro particolare – concepito e scritto in italiano – in inglese, la lingua che conosco meglio – la lingua dalla quale mi sono con una certa enfasi allontanata proprio in quanto mi era stata data in primo luogo per nascita – mi sono sentita con due piedi in una scarpa.
Mentre scrivevo Dove mi trovo, il pensiero che potesse essere altro da un testo italiano mi sembrava irrilevante. Quando scrivi, devi tenere gli occhi sulla strada, guardare diritto davanti a te, e non sorvegliare la guida d’altri o anticiparla. I pericoli, per chi scrive come per chi guida, sono ovvi.
E tuttavia, anche mentre scrivevo, due domande mi hanno tallonata: 1) il testo sarebbe stato tradotto in inglese? 2) chi lo avrebbe tradotto? Le domande nascevano dal fatto che sono anche una scrittrice di lingua inglese e per molti anni ho scritto esclusivamente in quella lingua. Al punto che, se scelgo di scrivere in italiano, la versione inglese leva subito la testa come un bulbo che germoglia troppo presto, a metà inverno. Tutto ciò che scrivo in italiano nasce con una simultanea potenziale esistenza – forse la parola migliore qui è destino – in inglese. Mi viene in mente un’altra immagine, forse stridente: il terreno di sepoltura per il coniuge ancora in vita, perimetrato, in attesa.
La responsabilità del traduttore è tanto gravosa ed esposta al caso quanto quella di un chirurgo addestrato al trapianto di organi o a ricondurre al cuore la circolazione sanguigna, sicché ho esitato a lungo su chi avrebbe potuto eseguire l’intervento. Ho ripensato ad altri autori migrati in lingue diverse dalla loro. Erano stati traduttori di se stessi? E in quale punto l’atto di tradurre si era indebolito e quello di riscrivere aveva preso il sopravvento? Temevo di tradire me stessa. Samuel Beckett, nel tradursi in inglese, aveva notevolmente modificato il suo francese. Juan Rodolfo Wilcock, un argentino che aveva scritto le sue opere principali in italiano, le aveva tradotte in spagnolo “con fedeltà” . Un altro argentino, Jorge Luis Borges, che era bilingue, spagnolo e inglese, aveva tradotto numerose opere dall’inglese in spagnolo, ma aveva lasciato ad altri la traduzione dallo spagnolo in inglese. Leonora Carrington, la cui prima lingua era l’inglese, si era sottratta al compito arruffato di tradurre molte delle sue storie in francese e spagnolo, come aveva fatto lo scrittore italiano Antonio Tabucchi nel caso di Requiem, il grande romanzo che aveva scritto in portoghese.
Se un autore migra in un’altra lingua, il rientro nella lingua precedente potrebbe essere interpretato come un passo indietro, un’inversione di marcia, un “ritorno a casa”. Questa idea è falsa e comunque non era affatto il mio obiettivo. Anche prima di decidere di tradurre io stessa Dove mi trovo, sapevo che “tornare a casa” non era più un’opzione. Mi ero calata troppo nelle profondità dell’italiano, e l’inglese non rappresentava più l’atto rassicurante, essenziale, di risalire a prendere aria. Il mio baricentro si era spostato; o almeno, aveva cominciato a muoversi avanti e indietro.
Ho cominciato a scrivere Dove mi trovo nella primavera del 2015. Vivevo in Italia da tre anni, ma ormai avevo preso la decisione tormentata di tornare negli Stati Uniti. Come per la maggior parte dei miei progetti di scrittura, non sentivo, in principio, che le parole di volta in volta scarabocchiate su un taccuino si sarebbero trasformate in libro. Quando ho lasciato Roma, nell’agosto di quell’anno, ho portato con me quel taccuino. Ma l’ho lasciato a languire nel mio studio di Brooklyn – anche se retrospettivamente l’espressione appropriata mi sembra “l’ho ibernato” – fino a quando in inverno sono tornata a Roma e mi sono trovata a riprendere il taccuino, che aveva viaggiato con me, per aggiungere nuove scene. L’anno seguente mi sono trasferita a Princeton, nel New Jersey. Ma, grosso modo ogni due mesi, volavo a Roma per brevi soggiorni o per tutta l’estate, sempre con il taccuino nel bagaglio a mano, finché nel 2017, una volta che il taccuino s’è tutto riempito, ho cominciato a digitarne il contenuto sul computer.
Grazie a un sabbatico, nel 2018, in occasione della pubblicazione del libro, sono tornata a Roma per un anno intero. A chi mi chiedeva della versione in inglese, ho risposto che era troppo presto per pensarci. Se ci s’impegna in una traduzione, o anche si valuta la traduzione di un altro, è necessario innanzitutto capire la specificità del libro, così come il chirurgo, idealmente, ha bisogno di studiare l’organismo del paziente prima di entrare in sala operatoria. Sapevo che avevo bisogno di far passare tempo, un bel po’ di tempo. Dovevo distanziare il romanzo, rispondere alle domande dei miei lettori italiani, ascoltarne le risposte. Perché, pur avendo ormai scritto il libro, mi sentivo come forse si erano sentiti i miei genitori immigrati mentre mi crescevano: ero autrice di una creatura intrinsecamente straniera, tanto riconoscibile quanto irriconoscibile, nata dalla mia carne e dal mio sangue.
Quanto all’eventuale traduzione in inglese, si sono subito formati due partiti. I membri del primo mi esortavano a fare da me. I loro avversari, con uguale veemenza, mi spingevano a tenermi alla larga. Per tornare all’analogia con il chirurgo, certe volte dicevo a chi era del primo partito: quale chirurgo, nella necessità di sottoporsi a un’operazione, si porterebbe il bisturi? Non preferirebbe affidarsi all’abilità di altre mani? Consigliata da Gioia Guerzoni, una traduttrice italiana mia amica e aderente al secondo partito, ho cercato Frederika Randall, che traduceva dall’italiano in inglese. Frederika era una statunitense che risiedeva a Roma da decenni, in una zona non lontana da dove vivo io: la stessa parte della città in cui, a grandi linee (anche se non lo specifico mai) è ambientato il mio libro. Quando si è detta disposta a tradurre la prima decina di pagine, in modo da avere un’idea della tonalità della traduzione, mi sono sentita sollevata. Era sicuramente la persona ideale per la traduzione del mio romanzo, non solo in quanto traduttrice di estrema abilità, ma perché conosceva molto meglio di me l’ambientazione e l’atmosfera del libro.
La mia idea era che forse, a traduzione terminata, avrei preso in esame al massimo una o due questioni e, più in generale, avrei assunto un ruolo rispettosamente collaborativo. Col tono indulgente delle nonne, caso mai, come mi ero sentita quando Mira Nair aveva trasformato uno dei miei romanzi in un film. Questa volta, forse, sarei stata una nonna appena appena più coinvolta di quanto mi ero sentita all’epoca della traduzione di Ann Goldstein di In altre parole (fatta in un periodo in cui diffidavo di qualsiasi mio riconnettermi all’inglese e non mi piaceva affatto il ruolo di nonna). Ma sotto sotto ero convinta che, nel momento in cui avessi visto la versione inglese, essa mi avrebbe svelato in modo netto e definitivo che il libro in quella lingua non riusciva a funzionare, e non per colpa di Frederika ma perché il testo stesso, di per sé difettoso, si sarebbe rifiutato di conformarsi, come una patata o una mela che, guaste dentro, una volta tagliate ed esaminate devono essere per forza accantonate, inutilizzabili come sono per qualsiasi piatto.
Invece, quando ho letto le pagine che aveva preparato per me, ho scoperto che il libro c’era nella sua interezza, che le frasi producevano senso e che il mio italiano aveva linfa sufficiente per sostentare un altro testo in un’altra lingua. A questo punto è accaduta una cosa sorprendente. Ho cambiato partito e ho sentito il bisogno di cimentarmi io stessa, proprio come la scorsa estate quando, guardando mia figlia che faceva le capriole sott’acqua, avevo avvertito la spinta a imparare. Sì, quell’atto scombussolante di capovolgersi, che mi aveva sempre terrorizzata, fino al giorno in cui, grazie a mia figlia, avevo finalmente capito quale manovra bisognava compiere, era esattamente ciò che dovevo fare col mio libro. Frederika, vissuta tra inglese e italiano per tanto tempo, era profondamente bipartisan. Aveva capito perché ero riluttante a tradurre il libro io stessa, e tuttavia, quando le ho detto che stavo cambiando idea, non si è sorpresa. Come mia figlia, mi ha incoraggiata. Spesso accade, quando si varca una soglia per la prima volta, di aver bisogno di un esempio, e lei, proprio come mia figlia, mi aveva dimostrato che si poteva fare.
Ero ancora a Roma – un posto che non m’ispira, se si tratta di lavorare dall’italiano all’inglese – quando ho preso la mia decisione. Se vivo e scrivo a Roma, ho un baricentro italiano. Avevo bisogno, quindi, di tornare a Princeton, dove sono assediata dall’inglese, dove Roma mi manca. Tradurre dall’italiano per me è sempre stato un modo per tenermi in contatto, quando sono lontana dall’Italia, con la lingua che amo. Tradurre significa modificare le proprie coordinate linguistiche, aggrapparsi a ciò che scivola via, affrontare l’esilio.
Ho cominciato a tradurre nell’autunno del 2019. Non ho guardato le pagine di Frederika; anzi, me le sono nascoste. Il libro è fatto di 46 capitoli relativamente brevi. Avevo l’obiettivo di affrontarne uno per seduta, e fare due o tre sedute a settimana. Mi sono accostata al testo, che mi ha accolta come certi vicini, se non con calore, con la gentilezza sufficiente. Mentre saggiavo la via per rientrare nel libro e mi spingevo avanti, lui cedeva con discrezione. Di tanto in tanto c’erano blocchi stradali e mi soffermavo a valutarli, o li sorpassavo, con determinazione, per non fermarmi a pensare troppo a ciò che stavo facendo, per arrivare alla fine.
Un blocco ovvio è stato il titolo. La traduzione letterale, where I find myself, mi suonava pesante. Il libro non ha avuto titolo inglese fino alla fine di ottobre quando, con pochi capitoli ancora da tradurre, sono salita su un aereo per Roma. Non molto tempo dopo il decollo, mi è esploso in mente whereabouts. Una parola intrinsecamente inglese e fondamentalmente intraducibile, proprio come l’italiano “dove mi trovo”. Da qualche parte nell’aria, sulle acque che separano la mia vita inglese da quella italiana, il titolo originale si è riconosciuto – oserei dire si è trovato – dentro un’altra lingua.
Una volta terminato, ho fatto circolare la prima stesura all’interno di un gruppo ristretto che non leggeva l’italiano e che però mi conosceva bene per i miei libri in inglese. Poi ho aspettato, in ansia, anche se il libro originale era già nato da più di un anno e aveva ormai una sua vita non solo in italiano ma, come ho detto, anche in altre lingue. Solo dopo che quei lettori mi hanno fatto sapere che il libro funzionava, mi sono convinta che l’operazione avventata che avevo fatto su me stessa non era stata vana.
Mentre Dove mi trovo si andava trasformando in Whereabouts, naturalmente sono dovuta tornare sull’originale. Ho cominciato a notare un po’ di ripetizioni che avrei voluto evitare in inglese. Certi aggettivi sui quali avevo troppo confidato. Alcune incongruenze. Avevo calcolato male, per esempio, il numero delle persone presenti a una cena. Sono passata a inserire segnapagine adesivi, e quindi a stilare un elenco di correzioni da inviare a Guanda, il mio editore in Italia, perché le riportasse eventualmente nelle successive edizioni. In sostanza, la seconda versione del libro ne stava ora generando una terza: un testo italiano la cui revisione stava nascendo dal mio autotradurmi. Quando si traduce se stessi, ogni difetto o debolezza dell’originale diventa immediatamente e dolorosamente evidente. Tanto per tenermi alle mie metafore mediche, direi che l’autotraduzione sembra uno di quei coloranti radioattivi che consentono ai medici di guardare attraverso la nostra pelle e individuare danni alla cartilagine, blocchi pericolosi e altre disfunzioni.
Per quanto sconfortante fosse questo progressivo disvelamento, ne ero contenta, perché mi dava la possibilità d’individuare problemi, di prenderne coscienza, di trovare nuove soluzioni. L’atto brutale dell’autotraduzione ti libera, una volta per tutte, dal falso mito del testo definitivo. È stato solo grazie all’autotraduzione che ho capito finalmente cosa intendeva Paul Valéry quando diceva che un’opera d’arte non è mai finita, ma solo abbandonata. La pubblicazione di qualsiasi libro è un arbitrio; non esiste, come accade per gli esseri viventi, un tempo ideale di gestazione e un tempo ideale per la nascita. Un libro è finito quando sembra finito, quando si sente finito, quando l’autore è stufo, quando è impaziente di pubblicarlo, quando l’editore glielo strappa. Tutti i miei libri, in retrospettiva, sembrano prematuri. L’atto di autotradursi consente all’autore di riportare un’opera già pubblicata al suo stato più vitale e dinamico, al work in progress, e intervenire e ricalibrare dov’è necessario.
Alcuni insistono nel dire che non c’è una cosa come l’autotraduzione, e che essa o si muta necessariamente in un atto di riscrittura o diventa l’editing – leggi: miglioramento – che precede la pubblicazione. Questa possibilità tenta alcuni e respinge altri. Personalmente io non ero interessata a modificare il mio libro italiano per arrivare a una versione più agile, più elegante e matura in inglese. Il mio scopo era riprodurre con rispetto il romanzo come l’avevo originariamente concepito, ma non così ottusamente da riprodurre e perpetuare anche certe soluzioni infelici.
Mentre Whereabouts passava dall’editing alle bozze, e diversi redattori e revisori lo soppesavano, le modifiche a Dove mi trovo continuavano ad accumularsi, tutte – ripeto – relativamente di scarso rilievo, ma per me significative comunque. I due testi hanno cominciato a procedere in tandem, ciascuno secondo il proprio statuto. Quando il tascabile di Dove mi trovo uscirà in italiano – al momento in cui scrivo non è ancora accaduto – lo considererò la versione definitiva, per ora almeno, visto che ormai penso a un qualsiasi “testo definitivo” come in linea di massima, per quello che mi riguarda, penso a una lingua madre: un concetto intrinsecamente discutibile ed eternamente relativo.
Se un autore migra in un’altra lingua, il rientro nella lingua precedente potrebbe essere interpretato come un passo indietro, un’inversione di marcia, un “ritorno a casa”
Per il primo giorno di lavoro sulle bozze di Whereabouts, durante l’autunno del coronavirus, sono andata alla Firestone library, a Princeton, dove avevo prenotato un posto, e mi sono accomodata a un tavolo rotondo di marmo bianco. Ero con la mascherina e a parecchi metri di distanza da altre tre persone, ammesse come me in una stanza che di persone poteva agevolmente contenerne cento. Mentre mi soffermavo sul testo inglese dubitando di qualche passaggio, mi sono accorta che avevo lasciato a casa la copia malconcia di Dove mi trovo. Il mio versante di traduttrice, concentrato sul trasloco in inglese del libro, stava già inconsciamente distanziando l’italiano e se ne dissociava. Naturalmente, nell’ultima fase di revisione di una traduzione, pare sempre strano, e tuttavia è fondamentale, prescindere del tutto dal testo originale. Quest’ultimo d’altra parte non può restare nei dintorni, come ho fatto io quando i miei figli sono andati a scuola per la prima volta e sono rimasta in qualche angolo dell’edificio, attenta ai pianti di protesta. È necessario che si verifichi una vera separazione, per quanto falsa. Nelle fasi finali della revisione di una traduzione nostra o di altri si raggiunge un livello di concentrazione simile a quel concentrarsi esclusivo, quando si nuota in mare, sui pregi dell’acqua e sulle nostre sensazioni, invece che ammirare le creature che lo attraversano o ciò che si è posato sul fondo. Quando si è così concentrati sul linguaggio, interviene una sorta di cecità selettiva e, contemporaneamente, una visione ai raggi X.
Rileggendo le bozze di Whereabouts, ho cominciato a riflettere, nel mio diario, sul processo di traduzione. In effetti, il testo che ora state leggendo, e che ho scritto in inglese, deriva da appunti presi in italiano. In un certo senso, questo è il mio primo esercizio bilingue di scrittura, e il suo argomento, l’autotraduzione, mi sembra particolarmente appropriato. Ecco, in inglese in traduzione e qui in italiano, alcune delle note che ho preso:
- La cosa profondamente destabilizzante dell’autotraduzione è che il libro minaccia di scombinarsi, di precipitare verso un possibile annientamento. Pare annichilire. O sono io che lo annichilisco? Nessun testo dovrebbe essere sottoposto a un tale minuzioso controllo; a un certo punto cede. È questo leggere e controllare, è l’indagine ostinata implicita nell’atto di scrivere e di tradurre, che inevitabilmente urta contro il testo.
- Non è un compito per deboli di cuore. Ti costringe a dubitare della validità di ogni parola. Getta il tuo libro – già pubblicato, già tra tante altre copertine, già venduto sui banchi delle librerie – in uno stato di revisione che genera profonda incertezza. È un’operazione che sembra fin dall’inizio una condanna, un’operazione in un certo senso contro natura, come gli esperimenti di Victor Frankenstein.
- L’autotraduzione è uno sbalorditivo andare contemporaneamente sia avanti sia indietro. C’è una tensione permanente, l’impulso ad avanzare è minato da una strana forza gravitazionale che lo trattiene. Ci si sente messi a tacere nel momento stesso in cui si parla. Mi vengono in mente due terzine vertiginose di Dante, con il loro linguaggio centrato sulla ripetizione e la loro logica contorta: “Qual è colui che suo dannaggio sogna, / che sognando desidera sognare, / sì che quel ch’è, come non fosse, agogna, / tal mi fec’io, non possendo parlare, / che disïava scusarmi, e scusava / me tuttavia, e nol mi credea fare”(Inferno XXX, 136-141).
- Leggendo l’inglese, ogni frase che sembra sbagliata, finita fuori strada, mi riporta sempre a una lettura errata di me in italiano.
- Whereabouts uscirà da solo, senza il testo in italiano sulla pagina a fronte, come nel caso di In other words. L’assenza dell’originale rafforza, per quel che mi riguarda, il legame tra le due versioni, quella che ho scritto e quella che ho tradotto. Le due versioni giocano a tennis. La palla, che vola da una parte all’altra della rete, rappresenta entrambi i testi.
- L’autotraduzione comporta il prolungamento della relazione con il libro che hai scritto. Il tempo si dilata e il sole splende anche quando dovrebbe cadere il buio. Questo eccesso di luce disorienta, sembra innaturale, ma è anche vantaggioso, magico.
- L’autotraduzione offre al libro un secondo atto, ma a mio avviso il secondo atto riguarda meno la versione tradotta e più l’originale che, smontando e rimontando, viene riadattato e riallineato.
- Ciò che ho modificato in italiano è ciò che, con il senno di poi, mi sembrava ridondante. La sinteticità specifica dell’inglese ha costretto, a volte, anche il testo italiano a stringere la cinghia.
- Suppongo che l’aspetto stimolante della traduzione di me stessa sia stato tenere costantemente a mente, mentre cambiavo le parole passando da una lingua all’altra, che io stessa ero cambiata in profondità, e che di un tale cambiamento avevo la capacità. Mi sono resa conto che anche il mio rapporto con la lingua inglese, grazie all’innesto dell’italiano, era irrevocabilmente modificato.
- Nella mia testa Whereabouts non sarà mai un testo autonomo, né lo sarà il Dove mi trovo tascabile, che sarà debitore del processo prima di traduzione, poi di revisione, di Whereabouts. Essi condividono gli stessi organi vitali. Sono gemelli siamesi, anche se in superficie non si somigliano affatto. Si sono nutriti l’uno dell’altro. Nel corso della traduzione, quando hanno cominciato a condividere e a scambiarsi elementi, mi sono sentita quasi una spettatrice passiva.
- Credo di aver cominciato a scrivere in italiano per sottrarmi alla necessità di un traduttore. Pur essendo grata a coloro che in passato avevano reso in italiano il mio inglese, qualcosa mi stava spingendo a parlare in quella lingua per conto mio. Ora ho assunto io il ruolo che mi ero prefissata di cancellare, ma rovesciandolo. Diventare la mia traduttrice mi ha ancora più insediata nella lingua italiana.
- In un certo senso il libro rimane in italiano, nella mia testa, malgrado la sua metamorfosi in inglese. Le modifiche che ho fatto nel testo inglese sono sempre state al servizio dell’originale.
Nel rivedere le bozze di Whereabouts, ho notato che in inglese avevo saltato un’intera frase. Essa ha al centro la parola “portagioie” che, nella versione originale, la protagonista considera la parola più bella della lingua italiana. Ma la frase può esprimere tutto il suo spessore solo nell’originale. Jewelry box non ha la poesia di “portagioie”, dato che joy (gioia) e jewel (gioiello) non coincidono come invece accade in “gioie”. Ho poi tradotto la frase, ma ho dovuto modificarla. Questo con tutta probabilità è il passaggio più significativamente rifatto, tanto che ho dovuto aggiungere una nota a piè di pagina. Mi ero prefissata di evitare note, ma in quel caso specifico il me italiano e il me inglese non hanno trovato un terreno comune.
Il penultimo capitolo del romanzo s’intitola Da nessuna parte. L’ho tradotto come Nowhere, che interrompe la serie di titoli con preposizioni. Un lettore italiano lo ha sottolineato e ha suggerito di tradurre più letteralmente In no place. Ho preso in considerazione la cosa, ma alla fine il mio orecchio inglese ha prevalso e ho optato per una forma avverbiale che, con mia soddisfazione, contiene il where del titolo.
C’è stato un caso in cui mi sono tradotta in modo grossolanamente errato. Era un punto cruciale e tuttavia mi sono accorta dell’errore solo alla fine. Mentre rileggevo per l’ultima volta, ad alta voce, le bozze in inglese, senza tener conto dell’italiano, mi sono resa conto che la frase era sbagliata e che avevo completamente, involontariamente, stravolto il significato delle mie stesse parole.
Ci sono volute, inoltre, diverse letture per correggere un verbo che la parte italiana del mio cervello, nell’atto di tradurre, aveva reso in modo svagato. Una persona, se fa quattro passi, in inglese takes steps, non certo makes steps. Ma dato che leggo e scrivo in entrambe le lingue, il mio cervello ha sviluppato punti ciechi. Così, solo controllando più e più volte, ho potuto salvare un mio personaggio, in Whereabouts, dal making steps. Ciò detto, è assolutamente possibile, in inglese, to make missteps, cioè fare passi falsi.
Alla fine, la cosa più difficile da tradurre, in Whereabouts, sono state le righe scritte non da me ma da due scrittori: Italo Svevo, che cito nell’epigrafe, e Corrado Alvaro, che cito nel corpo del testo. In quel caso mi sono sentita responsabile non delle mie parole, ma delle loro e quindi con esse ho lottato di più. Anche quando il libro andrà in stampa, continuerò a preoccuparmi di quelle righe. Il desiderio di tradurre – di avvicinarsi il più possibile alle parole di un altro, di varcare il confine della propria coscienza – si fa ancora più acuto quando l’altro rimane inesorabilmente, incontrovertibilmente, al di là della nostra portata.
Credo sia stato importante che, prima di confrontarmi con Dove mi trovo, mi sia fatta un po’ di esperienza traducendo altri autori dall’italiano. Provare a tradurre me stessa, quando il processo che mi avrebbe portata a scrivere in italiano era solo all’inizio – ne ho brevemente accennato in In altre parole – mi turbava e ciò dipendeva in gran parte dal fatto che non avevo mai tradotto dall’italiano. All’epoca tutta la mia energia tendeva ad approfondire la nuova lingua e a scansare l’inglese il più possibile. Ho dovuto affermarmi come traduttrice dei libri altrui, prima di abbandonarmi all’illusione di poter essere un’altra me stessa.
Essendo una persona a cui non piace guardare ai lavori che ha alle spalle, ma che anzi preferisce nei limiti del possibile non tornare a leggere i suoi libri, ero tutt’altro che una candidata ideale, come traduttrice di Dove mi trovo, soprattutto perché la traduzione è la forma di lettura e rilettura più intensa che ci sia. Se si fosse trattato di uno dei miei libri in inglese, sarebbe stata sicuramente un’esperienza letale. Ma quando lavoro con l’italiano, anche un libro che ho composto io stessa mi scivola in modo sorprendentemente facile nelle mani e dalle mani. Questo perché la lingua è in me e contemporaneamente lontana da me. L’autrice che ha scritto Dove mi trovo è e non è l’autrice che lo ha tradotto. Sperimentare questa coscienza divisa è, se non altro, tonificante.
Per anni mi sono addestrata ad accostarmi al testo, quando mi si chiedeva di leggere da un mio lavoro ad alta voce, come se l’avesse scritto un altro. Forse la spinta a separarmi in modo netto da ciò che ho fatto in precedenza, libro dopo libro, è stata la condizione necessaria per riconoscere le diverse scrittrici che mi hanno sempre abitata. Scriviamo libri in un momento determinato del tempo, in una fase specifica della nostra coscienza e del nostro sviluppo. Ecco perché leggere parole che ho scritto anni fa mi sembra alienante. Non sei più la persona la cui esistenza dipendeva dalla produzione di quelle parole. Ma l’alienazione, nel bene e nel male, marca la distanza e mette in prospettiva, due cose cruciali per l’atto di autotraduzione.
L’autotraduzione mi ha portata a una conoscenza profonda del mio libro e, quindi, a uno dei miei sé passati. Tendo, come ho detto, ad andarmene più velocemente possibile dai miei libri e invece adesso ho un certo affetto residuo per Dove mi trovo, proprio come per il suo corrispettivo inglese, un affetto nato dall’intimità che, in opposizione all’atto solitario della scrittura, si può raggiungere solo con l’atto collaborativo della traduzione. Sento anche, nei confronti di Dove mi trovo, un’accettazione che non ho mai avuto nei confronti degli altri miei libri. Essi ancora mi perseguitano, indicandomi scelte che avrei potuto fare, idee che avrei dovuto sviluppare, passaggi che andavano ulteriormente rivisti. Tradurre Dove mi trovo, scriverlo una seconda volta in una seconda lingua lasciando che, in gran parte intatto, rinascesse, me lo ha fatto sentire più vicino, il legame si è raddoppiato; gli altri miei libri invece sono come una serie di relazioni, appassionate e all’epoca capaci di cambiarmi la vita, ma che ora, poiché non si sono mai spinte oltre il punto di non ritorno, si sono raffreddate come braci.
La mia copia di Dove mi trovo è un volume tutto orecchiette, sottolineato e contrassegnato con post-it che indicano correzioni da fare e cose da chiarire. Da testo pubblicato si è trasformato in qualcosa che somiglia a una bozza rilegata. Non avrei mai pensato di fare cambiamenti, se non avessi tradotto il libro dalla lingua in cui l’ho concepito e creato. Io soltanto potevo inserirmi nei due testi e modificarli dall’interno. Ora che la versione inglese sta per essere stampata, il suo posto è stato occupato dalla copia italiana, che nel frattempo, ai miei occhi almeno, ha perso la patina di libro pubblicato e ha riassunto l’identità di opera da ultimare. Mentre scrivo, Whereabouts sta per essere chiuso, pronto per la pubblicazione, e invece Dove mi trovo ha bisogno di essere riaperto per alcuni piccoli ritocchi. Il libro originale ora mi sembra non ancora completato, anzi è finito in fila dietro al suo corrispettivo inglese. Si è trasformato in simulacro, come un’immagine allo specchio. Ed è, e insieme non è, il punto di partenza di ciò che, razionalmente e irrazionalmente, è poi seguito. ◆ ds
Jhumpa Lahiri è una scrittrice statunitense di origine bengalese. Da qualche anno scrive soprattutto in italiano. Il suo ultimo libro è Dove mi trovo (Guanda 2018). Questo articolo è uscito su Words Without Borders con il titolo Where I find myself: on self-translation. Traduzione di Domenico Starnone.
©2021 Jhumpa Lahiri. Tutti i diritti riservati.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1414 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati