Il 24 agosto 2025 una motovedetta della cosiddetta guardia costiera libica ha aperto il fuoco in acque internazionali contro la Ocean Viking, la nave della ong Sos Méditerranée Italia, battente bandiera norvegese. A bordo c’erano 87 persone, in gran parte migranti soccorsi in mare. Il 26 settembre un’altra imbarcazione gestita della ong tedesca Sea Watch è stata colpita dopo aver salvato 66 migranti. Il 12 ottobre una motovedetta libica ha sparato contro un’imbarcazione di migranti, in acque internazionali e all’interno della zona Sar di Malta (la porzione di mare in cui un paese è responsabile del coordinamento dei soccorsi), ferendo tre persone.
Le intimidazioni dei libici contro i migranti che fanno rotta verso l’Italia e contro chi li assiste sono in aumento (secondo un rapporto di Sea Watch, in dieci anni sono stati registrati più di 60 attacchi simili), ma il governo di Giorgia Meloni continua a chiudere un occhio, anche perché è l’Italia a pagare la Libia per comportarsi così. Le imbarcazioni che sparano contro le ong e i migranti le fornisce il governo di Roma ai miliziani libici addestrati e pagati con i soldi dell’Unione europea.
Le mani sul petrolio
Tutto questo nasce da un accordo controverso e poco trasparente (l’importo del finanziamento resta un mistero) tra l’Italia e la Libia, rinnovato automaticamente il 2 novembre per ulteriori tre anni. L’intesa è stata firmata nel 2017 dal governo di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni, poi è stata confermata da quattro governi successivi, di diversi orientamenti politici. La Libia è al centro degli interessi italiani per il suo petrolio, che costituisce il 38 per cento dei giacimenti in Africa, e per il suo gas, il quinto giacimento più grande del continente. Un gasdotto sottomarino collega la Libia all’Italia e l’Eni, l’azienda petrolifera italiana, è in Libia dal 1959.
L’accordo sull’immigrazione prevede che l’Italia e l’Unione europea paghino il governo libico affinché ostacoli la partenza di imbarcazioni dalle sue coste (Amnesty international ha calcolato che fino al 2022 siano stati pagati cento milioni di euro), nonostante il rapporto del 2023 presentato dalla missione Fact Finding delle Nazioni Unite definisca la gestione dei migranti in Libia “un abominevole ciclo di violenza”. Questa situazione è l’ennesima conseguenza disastrosa della caduta nel 2011 del dittatore libico Muammar Gheddafi. La successiva guerra civile ha causato un aumento degli sbarchi a Lampedusa, in Sicilia, dove tra il 2014 e il 2017 sono arrivate più di 500mila persone.
L’Italia ha interrotto quel flusso negoziando con la Libia, un paese in mano alla criminalità. I centri di detenzione libici sono prigioni dove sono state documentate torture, abusi sessuali e violenze di ogni genere. Per questo le ong sostengono che rimandare in Libia chiunque fugga dal paese rappresenti una violazione della convenzione di Ginevra del 1951, che all’articolo 33 vieta a uno stato contraente di espellere o respingere un rifugiato verso un confine dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. Inoltre le norme internazionali sul soccorso in mare vietano di sbarcare persone in un paese che non è considerato sicuro, come la Libia. Eppure, secondo i dati delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dal 2016 almeno 169mila persone sono state intercettate in mare e riportate in Libia. È probabile che le cifre siano più alte. Con il decreto Piantedosi, convertito in legge nel 2023, l’Italia impone alle navi delle ong di coordinarsi con il centro di soccorso marittimo di Tripoli e di obbedire agli ordini dei libici.
“Bisognava inviare un segnale forte, invece ne è arrivato uno di totale impunità”
“L’intero memorandum Italia-Libia è una violazione del diritto internazionale, dall’inizio alla fine. Tutti gli esperti del settore concordano con questa affermazione”, spiega Francesca De Vittor, che insegna diritto internazionale presso l’università Cattolica di Milano. Nel 2017 la Libia era già considerata un paese non sicuro ed era divisa in due. Nonostante questo l’Italia ha firmato un accordo con il governo provvisorio di Tripoli, lo stesso che avrebbe dovuto organizzare le elezioni, cosa che non ha mai fatto.
“In realtà l’accordo ha incentivato il traffico di migranti e ha aumentato il potere delle organizzazioni criminali che sfruttano il sistema di detenzione. Il Mediterraneo è in mano alle milizie, ma il governo italiano ha deciso di criminalizzare le ong”, spiega l’avvocata Cristina Laura Cecchini, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ha vinto varie cause in cui erano coinvolte le navi delle ong.
Valeria Turino, direttrice di Sos Méditerranée Italia, ricorda l’attacco subìto dalla nave dell’ong lo scorso agosto, quando nell’arco di venti minuti sono stati esplosi contro l’imbarcazione più di cento colpi: “È grave che l’accordo sia stato rinnovato nonostante l’escalation di violenza a cui abbiamo assistito. Bisognava inviare un segnale forte, invece ne è arrivato uno di totale impunità”. A nulla sono servite le proteste dell’opposizione italiana, delle ong e delle organizzazioni internazionali che hanno chiesto di sospendere l’accordo con la Libia. Meloni, d’altronde, non se lo può permettere. I migranti arrivati in Italia nel 2025, fino al 7 novembre, sono 60.810, il 4,7 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2024. Nell’80 per cento dei casi le imbarcazioni sono partite dalla Libia, e il resto dalla Tunisia, a sua volta in mano a un regime autoritario con cui l’Italia ha firmato accordi altrettanto discutibili. È la rotta migratoria più pericolosa del mondo. L’Oim calcola che dal 2014 in questa porzione del Mediterraneo siano morte 25mila persone.
Questo è in sostanza il modello Meloni contro l’immigrazione. L’altra iniziativa del governo italiano, la deportazione dei migranti in un centro di detenzione in Albania, è fallita, bloccata dai tribunali. Ma in realtà anche l’accordo con la Libia è contestato dalla magistratura italiana. A marzo la cassazione ha stabilito che “l’obbligo di soccorso in mare deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”. A luglio la corte costituzionale ha concluso che “non è vincolante un ordine che conduca a violare il primario obbligo di salvataggio della vita umana”, aggiungendo che “l’inosservanza non può essere sanzionata”, ovvero che i comandanti delle navi non sono tenuti a seguire delle indicazioni che considerano illegittime in base al diritto internazionale. Altri tribunali italiani hanno emesso sentenze a favore delle ong. “Il fatto che gli uomini della cosiddetta guardia costiera libica agiscano in acque internazionali come dei banditi è ampiamente documentato”, spiega Cecchini.
Non è un paese sicuro
Il primo caso esaminato dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu) che poteva mettere in discussione l’accordo, un rimpatrio di migranti in Libia nel 2017, si è concluso a giugno con un’assoluzione per l’Italia. Davanti al ricorso di 12 sopravvissuti di un naufragio i giudici hanno ammesso che la Libia non è un paese sicuro, sottolineando però che la responsabilità di quanto accaduto non era dell’Italia perché l’operazione si era svolta fuori dalle sue acque territoriali, nonostante il governo italiano avesse pagato gli agenti libici.
Comunque i tribunali italiani stanno affrontando con attenzione l’argomento. La ong Josi and Loni Project (Jlp) e l’Asgi stanno localizzando i migranti riportati illegalmente in Libia affinché facciano causa all’Italia per essere risarciti e per ottenere un visto. La prima sentenza di condanna nei confronti del governo italiano è arrivata nel giugno 2024: il caso del mercantile italiano Asso 29, che nel 2018 aveva preso a bordo 250 migranti che erano su una motovedetta libica in avaria e li aveva portati in Libia su ordine delle autorità italiane. La ong Asgi ha contattato alcuni superstiti e ha vinto la causa. In seguito sono arrivate altre vittorie. In totale Asgi ha gestito 700 denunce.
“Le ong non stanno violando il diritto internazionale, lo stanno applicando”
Il 5 novembre 13 ong con sede in Germania, Francia, Italia e Spagna hanno formato un collettivo chiamato Justice fleet (Flotta della giustizia) per compiere un passo ulteriore. Di fronte al rinnovo dell’accordo tra la Libia e l’Italia e incoraggiate dalle ultime sentenze, le ong hanno annunciato che disobbediranno agli ordini del coordinamento di Tripoli. Si concretizza la possibilità di uno scontro frontale sia in mare sia nelle aule di tribunale. “È inevitabile, ma non siamo stati noi a volerlo. Il nostro spirito è stato sempre quello di rispettare il diritto internazionale”, spiega Beppe Caccia, di Mediterranea, una delle ong che hanno formato il collettivo. “L’obiettivo di Justice fleet è creare una massa critica organizzata per disobbedire e vedere se cambia qualcosa”.
Secondo De Vittor, è una decisione coerente: “Di fronte a una guardia costiera libica che rappresenta un pericolo per la navigazione, le ong non solo non stanno violando il diritto internazionale, ma lo stanno applicando. Se rischiano di essere sanzionate è perché è la legge italiana a violare il diritto internazionale. La mia speranza è che gli stati di bandiera delle navi reagiscano”.
Il venditore di polli
Gli aspetti più oscuri del patto con la Libia – un anno fa il governo italiano aveva secretato i contratti di fornitura a Libia e Tunisia di attrezzature per il controllo delle frontiere – sono venuti alla luce con lo scandalo Almasri, che ha messo in difficoltà il governo Meloni. Osama Njeem Almasri, 46 anni, è stato un venditore di polli fino alla caduta di Gheddafi, che gli ha permesso di fare carriera all’interno di una delle milizie attive nel paese. Alla fine Almasri è diventato generale e gli è stata affidata la prigione di Mitiga, uno dei più noti centri di detenzione per migranti. La Corte penale internazionale (Cpi) lo accusa di crimini contro l’umanità: 35 omicidi e 22 abusi sessuali. Tra le vittime c’è anche un bambino di cinque anni.
A gennaio Almasri è stato fermato a Torino, dove si trovava per vedere una partita della Juventus. Il tribunale ha emesso un ordine d’arresto eseguito dalla polizia, ma dopo due giorni il governo italiano ha caricato il generale su un aereo di stato e l’ha riportato a Tripoli, dove è stato accolto come un eroe. L’esecutivo si è giustificato in modo confuso, parlando di problemi procedurali.
Alcuni giorni dopo la partenza di Almasri, tre persone sopravvissute alle sue torture hanno organizzato una sconvolgente conferenza stampa alla camera dei deputati raccontando cosa avevano subìto in Libia dal generale. In seguito sono state presentate diverse denunce contro il governo. Una donna della Costa d’Avorio ha raccontato al quotidiano La Stampa che nel carcere diretto da Almasri è stata violentata per un anno, ogni giorno. “Sono arrivata qui dalla Libia a bordo di un gommone per fuggire dalla morte. Il mio aguzzino, invece, è tornato a casa su un aereo di stato”. Dopo questi racconti la Cpi ha avviato un’indagine a carico dell’Italia, cosa impensabile finora, per violazione dell’articolo 86 dello Statuto di Roma, il trattato che nel 1998 ha istituito la Cpi, e che impone ai paesi di cooperare con la corte. A questo punto l’Italia potrebbe dover comparire davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. “Sarebbe un fatto gravissimo e senza precedenti”, ammette De Vittor.
Questa vicenda già complicata si è intricata ulteriormente quando il 5 novembre Almasri è stato arrestato dalle autorità libiche con l’accusa di violazione dei diritti umani nelle carceri di cui era responsabile. In un paese instabile e segnato da guerre tra milizie, sembra che il generale abbia perso i suoi appoggi interni. “È allucinante. Questo sviluppo crea un conflitto nell’accordo con la Libia, perché uno dei suoi principali protagonisti, a cui è affidata la gestione delle carceri e dei centri di detenzione dei migranti, è stato arrestato per atti criminali”, sottolinea Federica Saini Fasanotti, esperta di questioni libiche e analista dell’istituto Ispi.
Nell’ottobre 2023 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità una serie di sanzioni nei confronti delle principali organizzazioni criminali attive nel traffico di esseri umani, petrolio e armi. Uno dei capi citati era Abdurahman al Milad, conosciuto come Bija e assassinato nel 2024. La sua storia, come quella di Almasri, è emblematica. Fino al 2011 Bija era un semplice venditore di frutta, ma con la guerra è entrato a far parte di una milizia, per poi gestire una rete di sfruttamento dei migranti e controllo delle partenze verso l’Italia. Nonostante questo è stato nominato comandante della guardia costiera. Alcune inchieste giornalistiche hanno dimostrato che nel 2017 Bija ha visitato l’Italia come componente di una delegazione ufficiale, partecipando a diverse riunioni con le autorità italiane. I governi che si sono alternati da allora non hanno mai fornito chiarimenti sulla vicenda, nonostante decine di interrogazioni parlamentari. In alcune foto Bija indossa l’uniforme della guardia costiera a bordo di navi donate dall’Italia.
Blocchi continui
Il lavoro sporco svolto dalla Libia è solo una parte della morsa sui migranti. L’altra la compie l’Italia, impegnata a combattere e a ostacolare le ong che salvano vite nel Mediterraneo: 155mila negli ultimi dieci anni. Oltre a dover informare le autorità libiche ed eseguirne gli ordini quando trovano dei migranti naufraghi, le ong non possono sbarcarli nel porto più vicino, ma devono dirigersi in quello indicato dalle autorità italiane, spesso a tre o quattro giorni di navigazione, perdendo così denaro e soprattutto tempo che potrebbero usare per soccorrere altre persone. Se non seguono le disposizioni delle autorità italiane rischiano la confisca dell’imbarcazione appena entra in porto, com’è successo alla nave della ong Mediterranea, arrivata il 4 novembre a Porto Empedocle con a bordo 92 migranti. L’imbarcazione è stata fermata nonostante stesse eseguendo l’ordine di sbarcare i minorenni emesso dalla procura di Agrigento.
La nave aveva appena ripreso l’attività dopo che un giudice aveva annullato l’ordine del ministero dell’interno di bloccarla per due mesi con l’accusa di aver sbarcato alcuni migranti a Trapani e non a Genova, come da istruzioni. Il tribunale di Trapani aveva stabilito che l’equipaggio aveva avuto ragione a disobbedire “esclusivamente per motivi di solidarietà” e per “tutelare la vita delle persone”. Nello specifico si trattava di tre minorenni gettati in mare dai trafficanti e salvati in extremis. La sentenza ha sottolineato che fermare l’imbarcazione avrebbe pregiudicato “la realizzazione delle finalità e degli obiettivi umanitari e solidaristici” della ong, “meritevoli di tutela perché volti a salvaguardare la vita umana”. Il governo italiano, però, ha bloccato nuovamente l’imbarcazione. A quel punto la ong si è rivolta di nuovo alla magistratura, portando avanti una battaglia apparentemente infinita, in mare e in tribunale, per aiutare i migranti. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati