Tra i tanti corrispondenti coraggiosi che si sono occupati della guerra nell’ex Jugoslavia, Ed Vulliamy e Maggie O’Kane sono stati spesso elogiati per il loro lavoro. Instancabilmente attirati dalla prima linea, entrambi hanno scritto reportage lucidi e intensi. Ciò che ha fatto più discutere, però, è stato il loro rifiuto di essere neutrali. Per molti giornalisti, compresi alcuni loro colleghi al Guardian, era fondamentale mantenere la distinzione tra essere testimoni – osservatori “neutrali” – e diventare parte attiva nel conflitto. Secondo alcuni, Vulliamy e O’Kane superavano una linea che non andava oltrepassata.
La guerra – una serie di conflitti etnici cominciati nel 1991 e durati per quasi un decennio – ha provocato circa 140mila morti e quattro milioni di sfollati. Nel loro lavoro d’inviati, Vulliamy e O’Kane diventarono partigiani in particolare della causa dei musulmani bosniaci. Per O’Kane “non c’era una vera parità di colpe”. Anche per Vulliamy i musulmani, più di tutti gli altri, erano il “popolo vittima” della guerra; i suoi articoli sono diventati un appassionato atto di accusa contro i loro oppressori.
Nel loro lavoro d’inviati per il Guardian, Ed Vulliamy e Maggie O’Kane diventarono partigiani in particolare della causa dei musulmani bosniaci
Un critico di Vulliamy e O’Kane al Guardian ha detto che il loro approccio trasformava il reporter in un “partecipante indignato”. Un altro loro collega ha parlato di una “scuola Maggie O’Kane della corrispondenza dall’estero”: “Penso che lei sia stata l’incarnazione di questo tipo di giornalismo. Una specie di versione per la carta stampata di quello televisivo, dove l’articolo comincia con il primo piano di una scena angosciosa e poi si allontana per descrivere il contesto. Tutto però deve sempre cominciare con un bambino che piange e muore di fame o una vedova in lacrime, ed è un tipo di giornalismo molto diverso rispetto a quello molto più analitico a cui ci hanno abituato i nostri corrispondenti”. Una volta, dopo che un pezzo sulla politica è stato spostato per far posto a un’altra sconvolgente corrispondenza dalla Bosnia, Richard Gott, allora caporedattore della sezione cultura del giornale, lo ha descritto come “pornografia politica”.
In realtà, entrambi gli stili – il reportage crudo e il commento contestuale – hanno contribuito alla copertura della guerra fatta dal Guardian. Giornalisti come Ian Traynor e Martin Woollacott fornivano analisi acute e puntuali. Il lavoro migliore metteva insieme gli elementi di contesto e di reportage.
Avendo varcato la linea della neutralità, Vulliamy è diventato tra le polemiche il primo giornalista a testimoniare davanti al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (Tpij) dell’Aja, incaricato di perseguire i crimini di guerra. Ha agito secondo coscienza, ignorando i consigli di molti. “Alcuni dei colleghi che ammiro di più mi hanno fortemente sconsigliato di testimoniare”, ha rivelato. Successivamente Vulliamy ha testimoniato in altri sei processi, tra cui quello al leader serbo-bosniaco Radovan Karadžić. La sua vita è cambiata. “Ero un pacifista convinto, credevo che la guerra fosse sempre sbagliata; ora credo che sia necessaria per mettere fine a cose che sono perfino peggio della guerra”. O’Kane si è messa a completa disposizione per fornire i contatti di superstiti e testimoni quando gli inquirenti, dopo aver letto i suoi articoli, hanno provato a rintracciarli, ma non se l’è sentita di comparire come testimone al tribunale dell’Aja. “Penso che renderebbe più pericoloso e più difficile fare il nostro mestiere. Saremmo visti come una minaccia e come un nemico combattente”.
È stata la guerra a far conoscere O’Kane al Guardian. Il suo retroterra di cattolica irlandese a Belfast le ha fornito la chiave per capire le complessità delle rivalità tra le comunità in Jugoslavia. Ricorda che da bambina, a circa otto anni, fu svegliata da una bomba che mandò in frantumi le finestre della sua stanza, riempiendole il letto di vetri rotti. Nell’atmosfera dell’Irlanda del Nord negli anni settanta, alcuni componenti della sua famiglia allargata erano stati attirati dall’Ira, l’organizzazione paramilitare che sosteneva l’uscita dal Regno Unito, e forse per questo motivo suo padre, quando O’Kane aveva dodici anni, decise di trasferire la famiglia a Skerries, un paesino sul mare a nord di Dublino. La sua prima esperienza nel giornalismo è stata come corrispondente di cronaca nera per il quotidiano Sunday Tribune di Dublino e per la rivista Magill. Il direttore di Magill era il giornalista e poi romanziere Colm Tóibín, che si era accorto dell’attenzione ai dettagli di O’Kane e le consigliò di leggere A sangue freddo, il classico della cronaca nera di Truman Capote.
O’Kane ha scritto i suoi primi pezzi dalla Croazia, e in particolare dalla città di Dubrovnik, sull’Adriatico, che all’epoca era sottoposta a blocco navale. Era entrata clandestinamente in città grazie alla complicità di un membro dell’equipaggio di una nave che trasportava un gruppo di osservatori della Comunità europea.
I suoi reportage si sono subito fatti notare per come davano voce alla gente comune travolta dagli eventi. Questo valeva soprattutto per i cittadini intrappolati a Sarajevo, la capitale della Bosnia, una città dalla quale O’Kane ha scritto a intervalli regolari durante i quattro anni di assedio. La prima volta ci è andata nell’estate del 1992, viaggiando su un convoglio della Croce rossa che finì sotto un attacco in cui morirono diverse persone. In quella occasione O’Kane lasciò la capitale bosniaca insieme a un corteo di veicoli che trasportavano la bara di Jordi Pujol, un giovane fotografo spagnolo ucciso in città da una bomba; il cadavere fu il loro passaporto ai posti di blocco.
Come Ed Vulliamy, O’Kane aveva realizzato dei documentari per la televisione prima di occuparsi del conflitto per il Guardian, e forse è stata questa sensibilità visiva a dare alla sua scrittura una qualità quasi da primo piano cinematografico. O’Kane ha scritto che stare a Sarajevo, con le milizie serbe che sparavano in maniera indiscriminata dalle colline circostanti, era come stare in una casa delle bambole a cui un gigante aveva staccato il tetto. Due mesi dopo ha raccontato un altro assedio, stavolta dal punto di osservazione delle forze serbe che controllavano le batterie di mortai intorno a Goražde. Il suo articolo cominciava così: “Il comandante Slavo Gub è in piedi in cima a una montagna e svita le gambe di un cavalletto verde per montare i mirini telescopici. Le strade di Goražde saltano fino alla montagna”. Quest’ultima frase fu un bagno di realtà immediato per Peter Murtagh, che quella sera era di turno alla redazione esteri del quotidiano. Rimase così colpito da quella immagine che andò dal direttore del Guardian, Peter Preston, e gli disse: “Devi leggerlo”. Preston aprì il pezzo e mentre leggeva disse, senza staccare lo sguardo: “Questa giovane donna si è appena guadagnata un lavoro”. O’Kane avrebbe continuato a scrivere per il Guardian per più di vent’anni, passando il suo primo decennio in una serie di zone di guerra, tra cui l’Afghanistan, l’Iraq e la Cecenia.
Mentre O’Kane era a Dubrovnik fu raggiunta da Ed Vulliamy, fresco autore di un reportage sulla battaglia di Vukovar, in Croazia, che all’epoca stava entrando nella sua fase finale e più brutale. L’assedio della città, durato quattro mesi, sarebbe finito tre settimane più tardi. Fu immediatamente seguito dal massacro di più di duecento persone, fucilate dalle milizie serbe e sepolte in una fossa comune.
Ad accomunare O’Kane e Vulliamy era una feroce determinazione a sfidare il potere. O’Kane, dalla relativa sicurezza di Spalato dopo quella prima visita a Sarajevo, scrisse una lettera aperta al primo ministro britannico John Major, pubblicata nella sezione dei commenti sotto il titolo “Salvi Sarajevo, signor Major”. La lettera era un incessante elenco delle sofferenze inflitte alla popolazione multietnica della capitale bosniaca dalle milizie controllate da Radovan Karadžić, da poco presidente della Repubblica serba di Bosnia Erzegovina. “Ho intervistato Karadžić diverse volte”, scriveva, “e ogni volta mi sembra un po’ più pazzo”.
Ed Vulliamy era stato incaricato di tenere d’occhio la Jugoslavia dalla sua base a Roma. Mentre si trovava a Dubrovnik, una flottiglia di trenta piccole navi, guidata da un traghetto che trasportava medicinali e viveri, aveva avuto il permesso di superare il blocco. A bordo c’era anche il presidente croato della Jugoslavia, Stjepan “Stipe” Mesić, che aveva messo insieme il convoglio. Vulliamy era in Jugoslavia da più di un mese e aveva diritto a una pausa. Aveva in tasca un passaporto per un’evasione dalla realtà, il biglietto per la partita di calcio Napoli-Milan. “Pensai che come erano entrati sarebbero usciti, perciò mi sono fatto dare un passaggio da Stipe Mesić sul traghetto, sperando di arrivare ad Ancona in tempo per raggiungere Napoli e vedere la partita”. O’Kane sarebbe rimasta a Dubrovnik per altre due settimane.
Il 29 luglio 1992 il Guardian pubblicò l’articolo più sconvolgente di O’Kane scritto fino a quel momento. Il reportage occupava tutta la prima pagina, con il titolo “L’incubo dei musulmani sotto il lungo e caldo sole jugoslavo”. Il linguaggio di O’Kane era inequivocabile. Descrivendo la zona di Prijedor, a una cinquantina di chilometri a nordest di Banja Luka, scrisse: “Nei quattro campi di concentramento di questo spicchio settentrionale della Bosnia che i serbi rivendicano per la loro nuova Repubblica serba ci sono almeno quattordicimila detenuti musulmani”.
O’Kane aveva raggiunto Banja Luka in autobus da Belgrado. La città stava per essere chiusa. L’autobus su cui viaggiava O’Kane, mimetizzata tra gli altri passeggeri serbi, aveva superato una serie di posti di blocco dove le auto che trasportavano i giornalisti venivano fatte tornare indietro. Quando arrivò in albergo si accorse di essere l’unica ospite.
Intorno alle quattro del mattino ricevette una visita. “Era un addetto della Croce rossa, un giovane serbo. Mi disse: ‘Devi capire che sta succedendo’. È stato lui a mettermi in allarme”. Il suo ospite la portò in una casa dove erano alloggiati ragazzi sotto i 16 anni e uomini sopra i sessanta che erano stati rilasciati dai campi. O’Kane intervistò una famiglia che era stata imprigionata nel “campo di concentramento di Trnopolje”. Uno degli altri campi di concentramento di cui si parlava nell’articolo era quello di Omarska. O’Kane riportò le parole di un testimone: “Sono rimasti seduti lì per due mesi, non c’è un tetto, non c’è acqua per lavarsi e non c’è spazio per sdraiarsi”.
Il più grande orrore raccontato nel reportage era il calvario di un gruppo di donne e bambini ammassati su un treno per il trasporto del bestiame. O’Kane citò un altro testimone: “Venivano da Trnopolje. Ho visto solo le facce di poche donne, avevano le braccia che uscivano da finestre sbarrate nella parte alta del vagone, ma sapevo che i vagoni dovevano essere pieni per via del rumore. Le donne piangevano e i bambini gridavano. Gridavano ‘Acqua!’. Solo un bicchiere d’acqua. Era una giornata caldissima. Non c’era un bagno”. Li stavano portando a Zenica in un’operazione di pulizia etnica. Cinque giorni dopo, quando il treno arrivò nella città bosniaca, a 180 chilometri da Trnopolje, undici di loro erano morti.
L’articolo ricevette una risposta immediata da Karadžic. Il leader serbo-bosniaco, che quel giorno si trovava a Londra per dei colloqui, scrisse in una lettera al direttore: “Il vostro articolo sulla prima pagina del giornale di oggi è sensazionalistico e non può essere ignorato. È completamente falso che i serbo-bosniaci abbiano organizzato campi di concentramento o che facciamo prigionieri civili. Ho proposto ai giornalisti britannici di fare una lista dei posti dove secondo loro esistono questi campi. Mi assicurerò che possano visitarli”.
Il giorno della promessa di Karadžić, Paul Webster, il caporedattore esteri, andò a bere qualcosa con O’Kane e Vulliamy. Era una riunione per il passaggio di consegne: Vulliamy stava per prendere l’aereo per tornare in Jugoslavia al posto di O’Kane. Ricorda Vulliamy: “Paul ci fece un discorso indimenticabile, terrificante, il migliore che abbia mai sentito da un caporedattore: ‘Entrate nel vivo, ma non voglio sentire una parola da voi a meno che non abbiate una storia da prima pagina’”. Quella stessa sera Webster chiamò Karadžić, contattandolo al telefono della sua auto mentre era diretto all’aeroporto di Heathrow. Gli disse che il Guardian accettava il suo invito e che avrebbe mandato immediatamente qualcuno.
Stava per consumarsi uno degli episodi più controversi della guerra. Dopo una serie di ritardi che si erano trascinati per cinque giorni, i giornalisti furono scortati per una visita a Omarska e poi a Trnopolje. “All’inizio esitavo a chiamare Omarska e Trnopolje campi di concentramento per via delle tante unicità dell’Olocausto e della sua importanza”, scrisse Vulliamy. “Dopo averci riflettuto, però, posso dire che sono esattamente campi di concentramento”. È a Trnopolje che fu fotografato e ripreso Fikret Alić che guarda scheletrico attraverso il filo spinato, in quella che è diventata in breve tempo la più nota immagine della guerra nell’ex Jugoslavia.
Gli indugi delle Nazioni Unite e il mancato accordo su una linea di condotta da parte dei paesi della Nato contribuirono ad aggravare il terribile bilancio sul conflitto. Nella primavera del 1993 furono finalmente create delle “zone di sicurezza” protette dalle forze dell’Onu, inizialmente nei dintorni di Srebrenica. Si sarebbero dimostrate tutt’altro che sicure.
In un articolo pubblicato dal settimanale di Sarajevo Slobodna Bosna, il ventiseienne giornalista bosniaco Haris Nezirović raccontò che 35mila persone vivevano nei seminterrati, nelle auto sfasciate, nelle case distrutte e tra le rovine delle strade di Srebrenica, inondate di rifugiati in fuga dai combattimenti nei villaggi circostanti.
Nell’aprile del 1993 Srebrenica era sotto assedio ormai da un anno. Un messaggio di un radioamatore, che il Guardian pubblicò in prima pagina, dava il senso di disperazione della gente: “Vi scongiuriamo di fare qualcosa, qualsiasi cosa. Nel nome di Dio, fate qualcosa”. Il 6 maggio una risoluzione dell’Onu ratificò lo status di Srebrenica come zona di sicurezza, ma nel frattempo le forze serbe erano entrate in città.
Il 14 agosto il Guardian pubblicò un editoriale dal tono inequivocabile. “Dobbiamo dire con grande chiarezza qual è la posizione di questo giornale. Invieremmo in Bosnia molti più soldati con i caschi dell’Onu; e li autorizzeremmo non solo a difendersi, ma a rendere davvero sicure le zone di sicurezza e Sarajevo una città protetta. Siccome sappiamo cosa sta succedendo, non vediamo alcuna possibilità di tirarci indietro”.
Il titolo di un articolo di Hella Pick, sulla stessa pagina, sintetizzava dolorosamente il caos dell’indecisione: “Balbettano mentre la Bosnia brucia”. I paesi della Nato avevano finalmente dato il via libera agli attacchi aerei, ma solo a condizione che si limitassero a sostenere la consegna di aiuti umanitari. Pick, una delle corrispondenti estere e diplomatiche più esperte del Guardian, spiegò la polarità delle posizioni statunitense e britannica. “Londra e Washington sono agli estremi opposti in questo dibattito interminabile, con gli americani più zelanti e profondamente risentiti per il disagio britannico a farsi risucchiare in una feroce guerra civile. Gli europei non si stanno assumendo le loro responsabilità, e tra tutti la Gran Bretagna è il paese più vigliacco”.
L’assedio intanto continuava. Il 5 febbraio 1994 una bomba di mortaio esplose tra la folla nel mercato all’aperto di Markale, nel centro di Sarajevo, uccidendo 68 persone. Era, secondo il Guardian, “il peggior atto di macelleria nei ventidue mesi di assedio della città”. Due giorni dopo la Nato istituì una zona di esclusione delle armi pesanti intorno a Sarajevo, accompagnata dalla secca dichiarazione del presidente statunitense Bill Clinton: “La Nato ora è pronta ad agire”. Martin Woollacott, in un commento in prima pagina, osservò: “Per la prima volta nella cupa storia del conflitto bosniaco, l’occidente ha credibilmente minacciato di usare la forza, e sembra che gli effetti siano stati magici: nel giro di poche ore è stato concordato un cessate il fuoco a Sarajevo”.
La pace, però, non durò a lungo. Le forze serbo-bosniache risposero alla dichiarazione della zona di esclusione intorno a Sarajevo entrando con la forza nella “zona di sicurezza” di Goražde. L’iniziativa serba provocò il primo attacco della Nato nei due anni di guerra: il 10 aprile 1994 due F-16 statunitensi bombardarono le postazioni serbe, ripetendo il raid il giorno successivo. Per rappresaglia i serbi intensificarono i bombardamenti su Goražde, presero in ostaggio 150 dipendenti dell’Onu, uccisero due uomini delle forze speciali britanniche e abbatterono un caccia di Londra. Ricominciarono anche i bombardamenti indiscriminati su Sarajevo, e la situazione drammatica di altre cosiddette zone di sicurezza si aggravò.
Nel maggio 1995, durante una settimana di pesanti bombardamenti, Julian Borger scrisse: “Le Nazioni Unite hanno rinunciato a ogni pretesa di proteggere le sei zone di sicurezza bosniache che hanno istituito nel 1993”. Borger parlò con un negoziante che stava lavando via il sangue dal pavimento: “Vaffanculo all’Onu”, furono le sue uniche parole.
Sembrava che nulla potesse scongiurare il terribile destino di Srebrenica. Nel luglio 1995, mentre la città veniva invasa, i 350 caschi blu olandesi dell’Onu che avevano il compito impossibile di proteggere l’area furono costretti a capitolare dopo l’annullamento degli attacchi aerei che gli avevano promesso. Il 13 luglio Srebrenica cadde definitivamente. Le testimonianze dei profughi e quelle del personale olandese costretto a evacuare la base dell’Onu confermavano che c’era stato un massacro. Un articolo dell’Observer firmato da John Sweeney e Charlotte Eagar riportò la dichiarazione di un capitano olandese: “Gli uomini musulmani sono stati separati dalle famiglie e portati in un palazzo bianco. Ho sentito degli spari provenienti dall’edificio”.
L’orrore di Srebrenica sarebbe emerso in tutti i suoi dettagli nei mesi seguenti. All’inizio di agosto, il corrispondente del New York Times Mark Tran riferì che gli Stati Uniti avevano presentato al Consiglio di sicurezza “prove inoppugnabili”, tra cui fotografie aeree di fosse comuni, che circa 2.400 uomini bosniaci erano stati massacrati dopo la caduta di Srebrenica. Il rapporto dell’Onu e le testimonianze dei dirigenti della Croce rossa lasciavano intendere che, con ogni probabilità, il numero delle vittime era molto più alto. Dopo la caduta di Srebrenica migliaia di persone scapparono nelle campagne circostanti cercando di raggiungere il terreno più sicuro di Tuzla, 260 chilometri a nordovest, dove era stato creato un campo profughi. Il 15 luglio il Guardian pubblicò in prima pagina un’immagine che sarebbe diventata emblematica degli orrori di questa guerra nel cuore dell’Europa. Borger scrisse le parole che l’accompagnavano: “In una folla di più di diecimila profughi sparsi per i campi di granturco di Tuzla, ieri una giovane donna si è impiccata. Nessuno sapeva il suo nome. Nessuno ha pianto per lei quando il suo corpo è stato tirato giù da un albero, e un unico poliziotto ha vegliato sulla sua salma abbandonata davanti all’ingresso del campo sovraffollato e nervoso”. La donna, scriveva Borger, era “una delle disperse d’Europa, strappata più di una volta agli amici, ai parenti e ai luoghi familiari”.
Verso la fine di luglio l’esercito croato fece partire un’offensiva contro l’enclave serba di Krajina, in Croazia, provocando un esodo iniziale di ventimila profughi, un numero destinato a crescere di dieci volte. Il 5 agosto il Guardian pubblicò a tutta pagina il reportage di Borger da Zagabria con il titolo: “I croati lanciano la guerra totale”. Ian Traynor, in un profilo del leader croato Franjo Tudjman, lo descrisse come “un presidente che è passato da fanatico comunista a fanatico nazionalista”. La foto di prima pagina del Guardian del 9 agosto dava le dimensioni del disastro che si era abbattuto sui serbi di Krajina: una colonna di auto, camion, uomini, donne e bambini era arrivata al confine con la Serbia, formando una coda di sessanta chilometri.
Lunedì 28 agosto una bomba da mortaio esplose all’ingresso del grande mercato coperto di Sarajevo, uccidendo 43 persone. Vulliamy scrisse l’articolo di prima pagina da Zagabria, sottolineando la possibilità, forse voluta, che l’attacco interrompesse i colloqui di pace guidati dagli Stati Uniti. Il Guardian riportò la raccapricciante testimonianza da Sarajevo di Srećko Latal, un cronista dell’Associated Press: “I giornalisti aiutavano tassisti e venditori ad accatastare i corpi sui camion per portarli di corsa all’ospedale. Alcuni corpi perdevano pezzi mentre i superstiti li sollevavano. Tessuti inzuppati di sangue si sfaldavano e si spezzavano, c’erano arti che cadevano a terra. I poliziotti raccoglievano braccia e gambe e le infilavano in buste di plastica”. Tutti quegli atroci dettagli erano insoliti per il giornale. Rappresentavano il culmine dell’esasperazione e dell’angoscia.
La Nato cominciò a bombardare degli obiettivi militari intorno a Sarajevo alle due di notte di mercoledì. Il giorno successivo il Guardian titolò: “Il momento decisivo”. Ad accompagnare il reportage firmato da Vulliamy, Ian Black e John Palmer c’era la foto drammatica di un enorme pennacchio di fumo che si sollevava da una discarica di munizioni a Pale, la cittadina nei pressi di Sarajevo dove i serbo-bosniaci avevano messo il loro quartier generale. L’articolo descriveva le “diciotto ore di bombardamenti concertati dell’aviazione e dell’artiglieria contro le postazioni militari serbe in tutta la Bosnia”. Un editoriale definiva il bombardamento “un grande azzardo”.
Il giorno dopo, venerdì 1 settembre, le lettere al direttore esprimevano opinioni divergenti sul bombardamento e sulla reazione del Guardian. Una lettera di alcuni deputati condannava il massacro del mercato, ma anche l’intervento della Nato. “La comunità internazionale perde tutta la sua autorità morale quando aggiunge altre atrocità alle tante che si sono già consumate”.
Il 5 settembre, tra l’insoddisfazione per i mancati progressi nel ritiro delle armi pesanti che circondavano Sarajevo, la Nato lanciò la più grande offensiva della sua storia, attaccando le postazioni serbe.
Nel frattempo il negoziatore capo degli Stati Uniti, Richard Holbrooke, era arrivato a Belgrado per i colloqui con il presidente serbo Slobodan Milošević. In un commento, Jonathan Steele descrisse la politica di Washington come “prima bombarda e poi tratta, una rivisitazione del Vietnam”. L’“americanizzazione” della guerra non era automaticamente un male, osservava Steele, ma “c’è sempre qualcosa d’intrinsecamente vigliacco ed eccessivo nella scelta delle bombe”.
L’11 settembre il Guardian scrisse che per la prima volta dei missili Tomahawk erano stati lanciati dall’incrociatore Uss Normandy nell’Adriatico. Gli obiettivi principali erano i sistemi di difesa aerea serbi a Banja Luka, in risposta al continuo rifiuto serbo di rispettare la zona di esclusione delle armi pesanti intorno a Sarajevo. Diversi giorni dopo la Nato accettò di sospendere gli attacchi aerei per 72 ore dietro la promessa che le forze ribelli serbo-bosniache avrebbero almeno messo fine all’assedio di Sarajevo.
Una delle ultime città a essere riconquistate dall’esercito musulmano bosniaco fu Donji Vakuf, a metà strada tra Sarajevo e Banja Luka. Quel risultato, scrisse Ian Traynor, fu un’iniezione di fiducia per l’esercito, quasi tutto di profughi, che aveva combattuto per riprendersela.
Tony Harrison, autore della memorabile poesia A cold coming, che il Guardian aveva pubblicato durante la guerra del Golfo, ne scrisse un’altra, The cycles of Donji Vakuf, che finì in prima pagina. La poesia era ispirata in parte dalla vista di uno dei vincitori, un kalashnikov su una spalla, un mandolino rubato sull’altra, le ginocchia che gli toccavano il mento mentre si allontanava su una bicicletta da bambino.
La guerra era entrata nella sua fase finale. A novembre i rappresentanti dei principali protagonisti del conflitto s’incontrarono vicino a Dayton, in Ohio, negli Stati Uniti, per quella che un titolo del Guardian definì “La ricerca di una pax americana per la Bosnia”. I colloqui erano in corso quando Karadžić e il generale Ratko Mladić furono incriminati dal tribunale dell’Aja per crimini di guerra, con particolare riferimento al massacro di Srebrenica.
Milošević – in seguito anche lui processato all’Aja – rappresentò gli interessi serbi a Dayton in assenza di Karadžić. Il 21 novembre 1995 Milošević, Tuđjman e il presidente bosniaco Alija Izetbegović siglarono l’accordo, in quello che il pezzo sulla prima pagina definì il più grande trionfo di politica estera – e il più grande azzardo politico – della presidenza Clinton.
L’accordo di Dayton, e la divisione del territorio che ne scaturiva, sembrava un tacito imprimatur alla pulizia etnica dei quattro sanguinosi anni precedenti, presentato come un compromesso essenziale in nome della pace. L’idea della multietnicità fu abbandonata e la ex Jugoslavia fu di nuovo divisa in base a confini etnici – o più precisamente religiosi – tra l’ ortodossa Repubblica serba di Bosnia Erzegovina, la Bosnia Erzegovina in gran parte musulmana e la Croazia cattolica. L’accordo ribadiva che il Kosovo, con la sua maggioranza musulmana albanese, faceva parte della Serbia. A quel punto gli occhi erano puntati sul Kosovo come il probabile focolaio del prossimo conflitto. ◆ fas
Ian Mayes è un giornalista britannico. Questo articolo è un adattamento del suo libro Witness in a time of turmoil. Inside the Guardian’s global revolution, volume one: 1986-1995 (Testimoni in un’epoca di tumulti: la rivoluzione globale del Guardian). È uscito sul Guardian con il titolo “‘We know what is happening, we cannot walk away’: how the Guardian bore witness to horror in former Yugoslavia”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1620 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati