Partiamo da due librerie. Tutte e due sono fatte di legno di pino, semplice e robusto, assemblato in maniera funzionale. Una probabilmente vi sarà familiare: è l’elemento base del sistema di scaffalature Ivar, prodotto dal famoso marchio svedese Ikea dalla fine degli anni sessanta. Il nome fa rima con quello del fondatore dell’azienda, Ingvar Kamprad, che è morto nel 2018. Il prezzo al pubblico di uno scaffale è di 7 euro.
L’altra libreria, riconoscibile dalle sue traverse diagonali, fa parte del sistema dell’Autoprogettazione dei mobili sviluppato dal designer italiano Enzo Mari. Il concetto è facile da spiegare: Mari voleva rimettere i mezzi di produzione dove pensava che dovessero stare, cioè nelle mani del popolo. Conseguentemente, ideò una famiglia di forme replicabili da chiunque con normali assi di pino, un po’ di chiodi e le giunture più semplici.
Se la somiglianza tra queste due librerie è sorprendente, la loro differenza ideologica lo è ancora di più. Kamprad da giovane era stato un simpatizzante nazista, legato ai fascisti svedesi fin dal 1942, quando aveva sedici anni. Dopo la guerra rimase politicamente un conservatore e, come tutti sanno, l’azienda da lui fondata oggi è vista come il volto rassicurante del capitalismo consumista. Mari, al contrario, era un marxista militante. Alla sua morte, nell’ottobre 2020, è stato elogiato come la coscienza critica del design, un uomo che per tutta la vita ha fustigato i suoi colleghi per il loro vile asservimento alle motivazioni del profitto. “Quello che fanno i produttori oggi è merda, perché mangiano merda… Ho lavorato metà della mia vita per fare in modo che il mondo non fosse quello che è oggi”, aveva detto nel 2015 in un’intervista.
Come è possibile che due librerie, praticamente identiche sia nell’aspetto sia nella costruzione, esemplifichino allo stesso tempo il design critico di sinistra e la strategia di fabbricazione dei mobili più fortunata del sistema capitalista? La questione diventa ancora più stimolante se consideriamo che sia la Ivar che l’Autoprogettazione sono figlie del modernismo, un movimento che emerse negli anni venti con un programma all’insegna del funzionalismo egualitario. Il famoso manifesto di Kamprad, Il testamento di un venditore di mobili (pubblicato nel 1976, solo due anni dopo il progetto fai da te di Mari), è pura espressione di questi temi: creare una vita migliore per molti, fare di più con meno, la semplicità è una virtù. Mari, che condivideva questi valori, creò centinaia di opere di design, sempre semplici nella concezione, pratiche nell’uso e accessibili nel prezzo – giochi per bambini, vasi di plastica, portamatite – prodotti da grandi marchi come Danese, Artemide e Zanotta. Anche gli italiani che non conoscono il suo nome conoscono il suo lavoro: sono gli oggetti della vita di tutti i giorni.
La morte di Mari, il 19 ottobre 2020, è stata particolarmente crudele per il momento in cui è avvenuta. Una grande mostra sulla sua opera, voluta dalla superstar internazionale dei curatori Hans Ulrich Obrist, era stata inaugurata appena due giorni prima alla Triennale di Milano mentre l’Italia era nel pieno della pandemia di coronavirus. A quanto pare è stato proprio il covid-19 a uccidere Mari, a 88 anni, e sua moglie, la critica e curatrice Lea Vergine, che è morta il giorno dopo a 82 anni. Una tragedia così grave e importante non può che far riflettere. Se perfino il più rispettato progetto critico del più rispettato designer critico sembra indistinguibile da un prodotto Ikea, quanto è credibile la prospettiva di un design impegnato politicamente? Probabilmente, l’artista Rirkrit Tiravanija aveva in mente proprio questo dilemma nel 2004, quando realizzò la sua versione del tavolo da pranzo e delle sedie dell’Autoprogettazione in acciaio inossidabile lucidato. A parte i materiali, Tiravanija ha seguito fedelmente le istruzioni di Mari. Eppure, il risultato finale somiglia molto alle sculture ipermercificate di Jeff Koons.
Il design è così strettamente legato al processo di creazione di valore che anche il progetto più idealistico può essere rivendicato dal mercato. Mentre scrivevo questo articolo, uno dei pochi tavoli dell’Autoprogettazione costruito sotto la supervisione di Mari era disponibile su 1stDibs a 22.500 dollari. Se l’esperimento di Mari ha conservato un po’ dell’antico mordente, questo lo si deve soprattutto alle variazioni sul tema. Come osserva Paola Antonelli, curatrice del Museum of modern art (MoMA) di New York, “Proprio perché era un progetto così rigoroso, ogni interpretazione che deviava dal principio diventava un modo per mostrare la debolezza del sistema”.
Certo, qualcuno potrebbe dire che Mari aveva sbagliato tutto e che aveva ragione Kamprad: all’atto pratico, i designer devono ballare la musica del capitalismo, quindi tanto vale che se la facciano piacere. Ci sono certamente interpretazioni diverse nella disciplina. Il design grafico, in particolare, è usato per i gesti di protesta, dalle copertine dei dischi punk agli striscioni fatti a mano. Al contrario, l’architettura e il design dei prodotti, dove girano i soldi veri, sono sempre state attività di servizio. Più specificamente, al servizio del profitto. Lo stesso Mari si sosteneva grazie alle commesse che gli arrivavano dalle aziende; cercava d’infondere in tutti i suoi prodotti dei valori umanistici e di renderli economicamente accessibili, ma realizzava comunque merci, e questo lo faceva soffrire. Nell’intervista citata prima, dice: “Mia moglie, che è una donna intelligente, disprezza indistintamente tutto il design. Anche quello che faccio io”. Ma aveva altra scelta?
È questa la complessa eredità del modernismo. Per capire come questo movimento abbia potuto ispirare figure tanto diverse come Mari e Kamprad, dobbiamo fare un passo indietro e tornare al momento della sua concezione, quando andava a braccetto con il radicalismo politico. I costruttivisti russi abbracciavano l’astrazione perché era libera dai segni esteriori della gerarchia di classe. Il design era come il codice di un mondo nuovo, in cui si realizzavano abiti funzionali simili a uniformi e ceramiche irriducibilmente austere: la cultura materiale come strumento dell’egualitarismo radicale. Nel frattempo, in Germania, i designer del leggendario Bauhaus infondevano nel funzionalismo dell’era delle macchine un analogo senso di urgenza. Il loro famoso motto “less is more” (meno è meglio) non esprimeva solo una preferenza estetica. Era una difesa razionale contro il consumo smodato, una strategia per garantire la partecipazione di tutti.
Se la somiglianza tra la libreria Ivar dell’Ikea e quella del sistema Autoprogettazione di Enzo Mari è sorprendente, la loro differenza ideologica lo è ancora di più
Agli inizi, il modernismo fu un movimento per le pari opportunità che cercava di porsi sullo stesso piano con il pubblico. La sua soppressione per mano dei regimi reazionari – lo stalinismo in Unione Sovietica, il nazismo in Germania – non fece che rafforzare la sua credibilità di stile politicamente progressista. Come spiega la storica Kristina Wilson nel suo libro Livable modernism (Modernismo vivibile), negli anni trenta i designer industriali statunitensi cominciarono a introdurre l’acciaio tubolare e lo stile dell’era delle macchine e a proporli ai consumatori, anche se con qualche esitazione. Wilson racconta come il modernismo entrò prima nelle cucine e nei bagni, per estendersi solo dopo al soggiorno e alla camera da letto.
Ma è stato solo a partire dal dopoguerra che il modernismo ha cominciato ad avere una doppia vita. Considerati ancora la lingua franca dell’avanguardia, i princìpi fondanti del modernismo venivano insegnati nelle scuole d’arte e architettura più innovative, da Cambridge al Cairo, da Tel Aviv a Tokyo. Il Bauhaus si reincarnò a Chicago, dove si era riunito il corpo docente della scuola originale: un mondo del design parallelo alla diaspora degli intellettuali della scuola di Francoforte in California e a New York. Allo stesso tempo, però, il modernismo diventò anche il linguaggio dell’autorità, applicato a prescindere dagli orientamenti politici. Nel 1932, il MoMA aveva proclamato il modernismo come il futuro “international style”; negli anni del dopoguerra quella previsione si avverò. Non c’era praticamente un solo paese al mondo, indipendentemente dal sistema politico, senza le sue file di case popolari di vetro e cemento che, se non altro, si facevano preferire per la loro economicità.
Non era mai stata questa, tuttavia, l’intenzione della prima generazione dei modernisti. Secondo Walter Gropius, fondatore e direttore del Bauhaus, la standardizzazione in architettura era desiderabile soprattutto perché liberava risorse preziose per la personalizzazione. “La soppressione dell’individualità è sempre miope e poco saggia”, scriveva nel 1924. Gli architetti del dopoguerra, evidentemente, non avevano fatto caso a quell’appunto. Il risultato è stato che un programma originariamente concepito per migliorare la vita della classe operaia è stato applicato in modo acritico, con effetti disumanizzanti.
A intorbidare ulteriormente le acque, il modernismo è diventato anche lo stile certificato delle aziende del dopoguerra, prima tra tutte la Ibm (il cui principale consulente per il design, Eliot Noyes, aveva studiato con Gropius a Harvard). Mobilifici come Herman Miller e Knoll trasformarono in realtà il sogno del Bauhaus, mettendo in produzione e commercializzando pezzi originariamente realizzati solo a mano come prototipi. In ogni caso, in quei tempi precedenti all’Ikea quegli oggetti modernisti restavano status symbol relativamente costosi, dunque esposti a una ovvia linea di attacco. Nel suo libro del 1981 Maledetti architetti. Dal Bauhaus a casa nostra (Bompiani 1982) Tom Wolfe sfotte le presunte credenziali progressiste del modernismo. In un passaggio esilarante, lo scrittore statunitense si fa beffe della residua pretesa di avanguardismo della poltrona Barcelona, progettata da Ludwig Mies van der Rohe e Lilly Reich al Bauhaus e prodotta dalla Knoll a partire dal 1947:
Era l’ideale platonico della poltrona, pura pelle Worker Housing e acciaio inossidabile, il pezzo d’arredamento di design più perfetto del ventesimo secolo. Quando vedevi il sacro oggetto sul tappeto Sisal, sapevi di essere in una casa dove un architetto in erba e la sua giovane moglie avevano sacrificato tutto per portare il simbolo della missione divina nella loro casa. Cinquecentocinquanta dollari!
Come spesso nella sua carriera, Wolfe aveva colto lo spirito del tempo, perché il 1981 segnò anche uno spartiacque nella storia del design. Fu l’anno del lancio di Mtv e della DeLorean, oltre che della prima apparizione di Boy George al programma Top of the Pops. Chiaramente, l’austero razionalismo del dopoguerra stava per essere messo da parte con una spallata. Nel design, l’evento chiave fu la presentazione inaugurale del Memphis, un collettivo milanese. I loro progetti erano l’antitesi dei mobili umili e democratici di Mari. Non erano solo merci ma iper-merci, oggetti di scena esuberanti e fotogenici di uno stile di vita esagerato. Perfino i nomi richiamavano gli alberghi di lusso: il mobile-toilette Plaza, il carrello Hilton, la sedia Bel Air.
Il Memphis era certamente un’impresa di gruppo internazionale e intergenerazionale, ma il loro leader era Ettore Sottsass, un genio creativo più vecchio di Mari ma altrettanto appassionato, anche se su posizioni opposte. Sottsass non era particolarmente ideologico, a parte una dichiarata appartenenza alla controcultura: “Ho sempre pensato che il design è dove finiscono i processi razionali e comincia la magia”.
Il più famoso lavoro di Sottsass per il Memphis, la libreria Carlton, contrasta in modo illuminante con l’Autoprogettazione di Mari. Tra i principali sostenitori finanziari del Memphis c’era la Abet Laminati, e i coloratissimi laminati di plastica dai motivi sgargianti dell’azienda venivano usati in quasi tutti i mobili. La libreria Carlton è una specie di dépliant da sala aste magicamente trasformato in oggetto pratico, anche se non molto pratico, visto che i suoi scaffali diagonali sono una presa in giro dell’utilitarismo modernista (Sottsass, con una battuta, diceva che i libri tendono comunque a cadere). Se Mari aveva puntato a una rivoluzione del design dal basso, il Memphis puntava direttamente ai mezzi di comunicazione di massa: la vera funzione degli oggetti era catturare l’attenzione, cosa che facevano brillantemente.
Nonostante l’aspetto liscio e patinato, i mobili Memphis in realtà erano costruiti in officine artigiane tradizionali. Ma non importava, perché i pezzi dovevano fare il loro effetto sulle riviste, non di persona. Come mi ha spiegato una volta Peter Shire, il designer californiano della sedia Bel Air, “il Memphis era dei mezzi d’informazione. Non c’è stato mai nessun problema con la stampa dei colori, venivano sempre riprodotti in modo fedele, perché utilizzavamo colori sintetici. La priorità era cercare l’immagine”.
Anche se i lavori del gruppo valorizzavano l’apparenza, questo non li rendeva necessariamente superficiali. Enfatizzando al massimo la superficie, Sottsass e compagni creavano di fatto una nuova teoria del design, sottintendendo che quest’ultimo dovesse operare soprattutto con le immagini. Questo modo di pensare (una corrente filosofica che oggi passa attraverso un miliardo di account Instagram) sarebbe poi stato chiamato “postmodernismo”, un termine che, pur nella grande confusione generata, segnalava chiaramente che il modernismo – almeno come avanguardia possibile – era finito per sempre. Al suo posto arrivò una combinazione in un certo senso paradossale di liberazione e autocritica. Gli aforismi più citati dell’era postmoderna erano “less is a bore” (il meno è noioso, la risposta dell’architetto Robert Venturi al credo funzionalista) e “la morte dell’autore”. Mettiamoli insieme, e cosa abbiamo? Il massimalismo libero dallo zelo. La parodia più feroce dell’epoca è American psycho, romanzo di Bret Easton Ellis del 1991 su un serial killer ossessionato dai marchi famosi e apparentemente privo di qualsiasi vita interiore (ma possessore di un telefono di Sottsass).
Il termine “postmodernismo” cominciò a girare negli ambienti degli architetti ma fu liberamente associato anche alla moda, alla grafica e alla musica (l’enfasi sull’immagine mediata emerge anche dai nomi dei gruppi musicali e delle riviste dell’epoca: Television, Visage, The Face). Il passaggio dagli anni ottanta agli anni novanta, tuttavia, segnò la riscossa del modernismo. Ancora una volta, lo stile modernista diventò la lingua franca dell’architettura e del design dei prodotti. La differenza era che adesso tutti lo vedevano chiaramente per ciò che era: uno stile come gli altri, non intrinsecamente più progressista.
Se il modernismo un tempo si era presentato come una macchina della verità, una finestra trasparente su un futuro migliore, il postmodernismo era più simile a uno specchio rotto, che poteva stimolare l’autoriflessione ma non restituiva alcuna speranza di una visione del mondo unica e coerente. Per i suoi detrattori, questa forma mentis era non solo apolitica ma anche sostanzialmente amorale, un rifiuto della responsabilità fondamentale del designer di creare un mondo migliore. A questa obiezione, tuttavia, la generazione postmoderna opponeva una risposta particolarmente convincente: chi siamo noi per creare un mondo migliore? Veniva meno così l’idea del designer come salvatore o profeta, quello che sa cosa vuole la gente anche quando la gente non lo sa. Alla fine, questa onnipresenza del dubbio è stata la vera eredità dell’avventura postmoderna.
C’è voluto un po’, ma questa critica interna si è dimostrata provvidenziale per il design. Passato il vento inebriante del relativismo anni ottanta, si è preso atto di un’amara verità: quando viene progettato un oggetto, di solito è già troppo tardi per determinarne l’impatto politico. I prodotti sono soprattutto l’effetto delle relazioni di potere, non la causa.
Questo cambio di prospettiva ha spostato l’attenzione della disciplina, che è passata dagli oggetti a quella che oggi è nota come design culture, cultura del progetto, la matrice sociale in cui gli oggetti sono concepiti, eseguiti e distribuiti. La domanda inizialmente posta nello spirito del relativismo – chi siamo noi per creare un mondo migliore? – è stata riformulata in termini di politica dell’identità: chi siamo esattamente “noi”?
Non sarà sfuggito al lettore che ogni oggetto finora discusso in questo articolo è opera di un maschio bianco. La narrazione, tuttavia, può essere impostata in altri modi rispetto alla semplice contrapposizione tra Kamprad e Mari, destra e sinistra. Facciamo un passo indietro e troveremo una storia più complessa, non lineare. In questa lettura revisionista, a sua volta influenzata dal pluralismo postmoderno – uno sguardo dallo specchietto retrovisore rotto – la proliferazione globale dell’international style assume a ogni passo sfumature diverse a seconda delle istanze locali. Tra le scene più coinvolgenti: i metalmeccanici turchi del Kare Metal Atelier di Istanbul, che negli anni cinquanta riconvertivano laboriosamente tubi idraulici e tondi di rinforzo per cemento armato in mobili modernisti; i ceramisti Maria e Julian Martinez, che nel sudovest degli Stati Uniti sviluppavano i loro caratteristici vasi nero su nero ispirati ai reperti archeologici; i tessitori indiani che intrecciavano il khaddar bianco (un tessuto di cotone fatto in casa) con l’incoraggiamento del mahatma Gandhi. Infine, lo spostamento del centro dell’attenzione da uomini come Gropius, Mari e Sottsass a donne che cercavano una sintesi tra razionalismo modernista e artigianato tradizionale, come Clara Porset in Messico, Lina Bo Bardi, italiana espatriata in Brasile (anche lei comunista convinta) e Charlotte Perriand, nata a Parigi e attiva ricercatrice in Brasile, Corea e Giappone.
Ma riscrivere la storia ci porta fino a un certo punto, perché la domanda politica centrale sul design comincia a porsi solo adesso: chi può essere definito un designer? Quando Venturi ricevette il premio Pritzker nel 1991, alla sua socia Denise Scott Brown non fu dato nessun riconoscimento; nel 2013 è stata fatta circolare una petizione, appoggiata dallo stesso Venturi, per chiedere alla giuria di riparare. Nel 2018 il movimento #MeToo è arrivato anche nel mondo dell’architettura, con le accuse di molestie sessuali a Richard Meier, l’architetto neomodernista che ha progettato l’High Museum di Atlanta e il Getty Center di Los Angeles. Stella Lee, una delle accusatrici di Meier, ha scritto in un editoriale del New York Times che negli studi architettonici c’è un problema ancora più profondo: salari troppo bassi, notti insonni, discriminazioni di genere. “Per rendere effettivo il cambiamento”, ha scritto, “dobbiamo concentrarci sulla cultura e su dove si è sedimentata”.
Per adesso, questo cambiamento tarda ad arrivare. La giuria del Pritzker ha respinto la petizione a favore di Scott Brown, anche se probabilmente la decisione ha danneggiato più il premio che la causa del femminismo (l’anno scorso il Pritzker è stato assegnato a Shelley McNamara e Yvonne Farrell dello studio Grafton Architects, che sono diventate la quarta e la quinta donna a essere premiate in più di quarant’anni). Lo studio di Meier, incredibilmente, non si è assunto la responsabilità delle azioni del famoso architetto, permettendogli di restare come socio di maggioranza. Nel frattempo, gli ultimi sondaggi dicono che solo il 17 per cento delle posizioni di vertice negli studi di architettura è ricoperto dalle donne, e l’11 per cento negli studi di design.
Le cose vanno anche peggio quando si parla di diversità etnica. I professionisti afroamericani sono circa il 3 per cento (anche se i neri sono più o meno il 13 per cento della popolazione degli Stati Uniti). Si è formato un gruppo chiamato Where Are the Black Designers? (dove sono i designer neri?) per chiedere un cambiamento e per dare visibilità ai praticanti del settore. Quest’anno ho condotto con Stephen Burks una serie d’interviste dal titolo Design in dialogue. Uno dei nostri obiettivi è far sentire la voce delle donne e delle persone non bianche, e Burks, uno dei pochi afroamericani con un ruolo di primo piano nel design dei mobili e dei prodotti, è perfetto. Quando gli ho chiesto delle sue esperienze come innovatore, si è soffermato sul problema delle presenze simboliche: “Quando una persona ce la fa, non necessariamente crea spazio per voci diverse”. C’è una tendenza, osserva, a vedere le etnie come monoculture, come se ci fosse un’unica voce o un’unica prospettiva “nera”. Quando si parla di diversità, il design non ha bisogno di qualche modello positivo in più: serve un cambiamento epocale. Lo specchio si sarà pure rotto, ma il soffitto di vetro non mostra ancora crepe.
Viste le condizioni in cui si trova oggi l’ambiente, tuttavia, forse dovremmo semplicemente smettere di progettare. Una volta per tutte. O se proprio dobbiamo continuare – e in questo ci avviciniamo alla posizione di Mari verso la fine della sua vita – almeno concentriamo i nostri sforzi per limitare i danni.
Però non succederà. Mi ricordo quando hanno chiesto a Joris Laarman, giovane designer olandese dalla incomparabile maestria nel maneggiare gli strumenti digitali, come si poteva giustificare l’ennesima poltrona di design. La risposta di Laarman è stata molto semplice: “È come dire: ‘Ci sono già troppe canzoni, quindi che bisogno c’è di scriverne un’altra?’”. Non è una risposta del tutto convincente, dato che le canzoni non finiscono nelle discariche. Ma come osservazione sul comportamento umano, sicuramente suona vera. Ci sarà sempre fame di nuova cultura, oggetti inclusi. Gli esseri umani sono fatti così, e non si possono riprogettare al tavolo da disegno.
Probabilmente è su questo terreno che il design s’impone davvero come strumento politico contemporaneo: è il mezzo migliore che abbiamo per raggiungere un equilibrio intelligente tra le spinte contrapposte della sostenibilità e del desiderio. Un’altra importante designer olandese, Hella Jongerius, ha affrontato il tema insieme all’educatrice Louise Schouwenberg nel manifesto Beyond the new (Oltre il nuovo) del 2017. Il documento rilancia consapevolmente le dichiarazioni utopistiche dell’avanguardia storica: “Termini come ‘autenticità’ e ‘sostenibilità’ diventano parole vuote quando l’obiettivo nascosto è, come sempre, quello del ritorno economico”, scrivono le autrici. “Immaginiamo un futuro dove gli ideali condivisi e i valori morali indicano la strada!”. Nel testo Jongerius e Schouwenberg continuano descrivendo il design contemporaneo come poco più di “una deprimente cornucopia di prodotti inutili, hype commerciali creati intorno a presunte innovazioni e retorica vuota” (una volta tanto, possiamo immaginare Mari che annuisce in segno di approvazione). Infine, invocano un ritorno (rullo di tamburi) al modernismo! “Abbiamo perso di vista gli alti ideali che erano al centro del movimento di gran lunga più influente nel design industriale. Gli ideali del Bauhaus – rendere la qualità più alta possibile accessibile a molte persone – si basavano sull’intimo intreccio di consapevolezza culturale, impegno sociale e ritorno economico”. Jongerius e Schouwenberg, naturalmente, non auspicano un ritorno letterale al design modernista: osservano piuttosto che nel modernismo il guadagno economico era una condizione necessaria, non un obiettivo, e che la novità fine a se stessa era considerata peggio che inutile.
Anche se Beyond the new è stato pubblicato tre anni fa, oggi suona ancora più convincente. Paola Antonelli del MoMA e la critica Alice Rawsthorn hanno lanciato un progetto chiamato Design Emergency in cui si focalizzano sui tentativi del design di rispondere alle crisi tra loro intrecciate del razzismo, del cambiamento climatico e della pandemia. Antonelli e Rawsthorn s’ispirano a progetti epici come The Ocean Cleanup, la controversa organizzazione non profit di Boyan Slat che utilizza un gigantesco tubo galleggiante per raccogliere la plastica dal mare (e che dopo anni di costosi fallimenti sta cominciando a vedere ripagati i suoi sforzi), o la Grande muraglia verde, una fila di alberi di ottomila chilometri che si stanno piantando lungo il confine meridionale del Sahara. Citano però anche iniziative spontanee e su scala più ridotta come quella dell’imprenditrice Roya Mahboob, che ha sponsorizzato la progettazione e la costruzione di ventilatori da parte delle adolescenti di Herat, e il tentativo dei 1.500 abitanti di Kamikatsu, sull’isola giapponese di Shikoku, di diventare un “villaggio a rifiuti zero”, attraverso il riciclo o il riutilizzo di ogni singolo oggetto (al momento al progetto sta partecipando l’80 per cento degli abitanti).
Antonelli e Rawsthorn sono entrambe grandi ammiratrici di Mari, ma la visione del design che stanno proponendo è molto diversa. Il numero della rivista Wallpaper che hanno curato come ospiti, dedicato all’idea base di Design Emergency, era pieno di pubblicità di Dior, Chanel, Rolex e altri marchi di lusso. Chiaramente, il sottinteso è che anche se trovassimo una soluzione di design al cambiamento climatico, questa dovrà necessariamente trovare spazio all’interno del capitalismo, almeno nel prossimo futuro. Non è una scommessa sul sovvertimento radicale del nostro sistema politico ed economico, ma sulla capacità dell’ingegno umano di creare un mondo migliore.
Ognuno troverà questa linea di pensiero convincente o no a seconda del proprio orientamento politico. Parlando solo per me, dirò che c’è almeno un motivo di ottimismo: rispetto alle generazioni precedenti, abbiamo il vantaggio di poter imparare dai loro errori. Forse il design può davvero tornare a rivendicare la visione progressista dei primi modernisti liberandosi dei suoi preconcetti su desideri e bisogni delle persone, conservando un sano autoscetticismo e lavorando per favorire la diversità, in modo che il settore somigli di più alla gente.
Nel frattempo, i designer continuano a muoversi su questo terreno accidentato, creando significato umano strada facendo. Quando Martino Gamper, un designer italiano che lavora a Londra, ha saputo della morte di Mari e Vergine, ha realizzato una coppia di bare nello stile dell’Autoprogettazione. Come i mobili ideati da Mari, sono fatte di legno economico e chiodi comuni. “Creare un oggetto per qualcuno di cui ci importa e che amiamo può essere un processo interessante per tutti noi: segare, martellare e ricordare la persona”, ha spiegato. Si dice che il personale è politico, e questo certamente è vero per il design, in tutte le fasi di produzione e consumo. Il gesto di Gamper è un potente promemoria del fatto che può essere vero anche l’inverso. Il design è una parte intima delle nostre vite. Lo abbiamo sposato, nel bene e nel male, in ricchezza e in malattia, finché morte non ci separi. ◆ fas
Glenn Adamson è uno storico statunitense. È stato direttore del Museum of Arts and Design di New York. Questo articolo è uscito su the Nation con il titolo The communist designer, the fascist furniture dealer, and the politics of design.
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Questo articolo è uscito sul numero 1411 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati