F orse non sapevate che i ragazzi hanno una probabilità dieci volte superiore rispetto alle ragazze di essere indirizzati a un centro per la diagnosi dell’autismo. E che, una volta sottoposti a valutazione, è più del doppio la probabilità che gli venga effettivamente diagnosticato. Non dovrebbe sorprendere, dopotutto: l’autismo è un disturbo maschile, giusto? La maggior parte dei siti, degli studi scientifici e degli articoli accademici sull’argomento riporta che l’autismo è molto più comune nei maschi, in media quattro volte di più, anche se sono stati citati rapporti fino a 15 a 1.

Ma cosa pensereste se vi dicessero che, di fronte a casi ipotetici identici, gli insegnanti sono più inclini a riconoscere come autistico e bisognoso di supporto un bambino maschio rispetto a una femmina? Che le ragazze con autismo spesso attendono anni in più rispetto ai coetanei maschi prima di essere valutate? E che, secondo alcune ricerche, fino all’80 per cento delle donne con autismo riceve una diagnosi errata, come ansia sociale, disturbi alimentari o disturbo borderline di personalità, prima che sia riconosciuta la condizione autistica?

Come ha raccontato una madre: “Continuavo a chiedere che fosse valutata, ma, essendo una bambina, era ancora meno probabile che la pediatra ci indirizzasse a uno specialista. Mi disse che di solito è una cosa da maschi, e che lei era solo un po’ diversa”. Oggi la montagna è un po’ più facile da scalare. Tuttavia questi casi mettono in luce una profonda lacuna nella nostra comprensione di cosa sia, in realtà, l’autismo.

Perché, e in che modo, le donne con autismo sono state emarginate? In parte, perché la convinzione che l’autismo fosse una condizione tipicamente maschile era così radicata che alcuni ricercatori hanno ipotizzato l’esistenza di un “effetto protettivo femminile”, o hanno attribuito il disturbo a un “cervello estremamente maschile”.

Per di più la socializzazione di genere ha spinto molte donne con autismo a nascondere la loro condizione, portandole a mascherare e reprimere le difficoltà. Questo le ha spesso private del riconoscimento e del supporto di cui avevano bisogno.

Cominciamo dai pregiudizi nella ricerca stessa. Un’indagine del 2021 ha rilevato che, su oltre 1.400 studi sui cervelli di persone con autismo, più del 30 per cento aveva coinvolto esclusivamente partecipanti di sesso maschile. Una mia ricerca del 2024 ha evidenziato che, tra più di cento studi sui modelli cerebrali dell’autismo, quasi il 70 per cento aveva testato solo maschi o, al massimo, una o due femmine. Su più di quattromila partecipanti con autismo inclusi in questi studi, le donne erano meno del 10 per cento.

Anche le prime versioni dei grandi insiemi di dati pensati per ampliare la portata dei risultati combinando i rilevamenti di diversi studi mostrano lo stesso squilibrio. Il primo rapporto dell’Autism brain imaging data exchange (Abide-I), lanciato nel 2012 e basato su risonanze magnetiche e altri dati relativi a più di 539 individui con diagnosi, riportava le analisi solo su 360 maschi. Un esame dell’intero campione ha poi rivelato che 485 dei set di dati, pari all’88 per cento, provenivano da soggetti maschi, e che il 25 per cento dei centri invitati a partecipare aveva deliberatamente escluso le femmine. Nell’esplorare le cause dell’autismo, molti ricercatori si sono semplicemente concentrati sui maschi.

Com’è potuto succedere? “La ricerca scientifica somiglia un po’ alla barzelletta dell’ubriaco che cerca la chiave sotto un lampione, pur avendola persa dall’altra parte della strada, semplicemente perché lì c’è la luce”, disse Noam Chomsky nel 1993. Per tutto questo tempo, i ricercatori sull’autismo sono stati vittima dell’effetto lampione, concentrandosi erroneamente solo sui maschi.

Eppure essere maschi non rientra in nessun criterio diagnostico formale per l’autismo. Nel 1943 Leo Kanner descrisse undici casi di quello che definì “autismo infantile precoce”: otto erano maschi, tre erano femmine. Tuttavia, con la diffusione della “sindrome di Kanner”, le indagini epidemiologiche cominciarono a riportare una prevalenza molto più alta nei maschi. Hans Asperger enfatizzò ancor di più la mascolinità della condizione, definendola “una variante estrema dell’intelligenza maschile”. Il suo studio fondativo si basava esclusivamente sull’osservazione di quattro ragazzi.

Quando il profilo dello spettro autistico fu ampliato negli anni ottanta, il numero delle diagnosi aumentò a tal punto da far parlare di una vera e propria epidemia. Tuttavia le diagnosi tra le femmine rimasero basse, con alcuni studi che riportavano un rapporto sul totale di appena il 6-7 per cento. Il film Rain man (1988), in cui Dustin Hoffman interpreta un uomo affetto da autismo con abilità straordinarie e gravi problemi comportamentali, ha fornito uno stereotipo dell’autismo che ha influenzato profondamente la percezione pubblica di questa condizione. La rappresentazione dell’autismo semplicemente non includeva le ragazze.

Com’è tipico delle profezie che si autoavverano, l’attenzione si è concentrata sui maschi. I comitati diagnostici hanno elaborato liste di controllo dei segni e sintomi più comuni, producendo profili dettagliati di comportamenti autistici “tipici”. Questi test sono diventati quasi obbligatori, non solo per ottenere una diagnosi riconosciuta, ma anche per l’inclusione negli studi di ricerca. Questi strumenti di valutazione però hanno un problema strutturale: sono tutti derivati dall’osservazione di individui già diagnosticati, per la maggior parte maschi. Ai genitori venivano spesso poste domande su interessi particolarmente focalizzati per cose “da maschio”, come fatti storici, date o marche di auto. Ai medici veniva chiesto di annotare comportamenti da “solitari”: mancanza di contatto visivo, incapacità di interagire con gli altri. Non c’erano caselle da spuntare per interessi più socialmente comuni “da ragazze”, come le Barbie o i pony, né segnali di allarme relativi a scambi sociali in apparenza normali che, a un’analisi più attenta, potevano risultare leggermente artificiosi, perfino recitati, tutte caratteristiche tipiche delle ragazze con autismo.

Dietro la maschera

Solo all’inizio del ventunesimo secolo una serie di testimonianze personali molto forti ha finalmente portato alla luce questa lacuna nella storia dell’autismo. Libri come Odd girl out di Laura James e Autism in heels di Jennifer Cook O’Toole hanno rivelato le difficoltà di vivere da outsider in un mondo intensamente socializzato e spesso disorientante.

Mia (Mary Berridge)

Sono storie di emarginazione, bullismo e senso di esclusione, raccontano la paura di essere riconosciute come diverse, e dei vani sforzi di decifrare le regole invisibili dell’interazione sociale che permettono agli altri di comprendersi senza sforzo, di formare amicizie e di essere riconosciuti socialmente. Parlano di genitori a cui veniva detto che le loro figlie erano “solo timide” e di donne adulte a cui venivano diagnosticati disturbi borderline di personalità, ansia generalizzata, depressione o disturbi alimentari, mentre i medici non riuscivano a riconoscere la diagnosi fondamentale: l’autismo.

Sulla scia di tutto questo, anche la ricerca si è evoluta, offrendo un quadro di riferimento necessario per le differenze di sesso e di genere. Gli scienziati hanno cominciato a includere le donne nei loro gruppi di studio, invece di evitarle del tutto o di escluderle statisticamente come parte del “rumore” nei dati. Sono stati spinti a progettare protocolli di ricerca capaci di identificare gli aspetti dell’autismo che variano tra maschi e femmine. Era ormai chiaro che bisognava abbandonare l’approccio comparativo basato su un modello maschile, che descriveva le donne con autismo come meno compromesse dal punto di vista sociale rispetto agli uomini, o meno inclini a mostrare comportamenti ripetitivi o interessi altamente focalizzati. I ricercatori dovevano riconoscere di aver cercato nel posto sbagliato e di avere rivolto domande fuorvianti alle donne.

Le donne con autismo sono davvero diverse? La risposta più sorprendente riguarda la natura stessa dell’autismo, che sarebbe caratterizzato dalla tendenza a evitare intenzionalmente le situazioni sociali e a isolarsi in modo selettivo. Tuttavia, osservando più da vicino le donne nello spettro autistico, si è scoperto che un aspetto fondamentale del loro comportamento sociale è, al contrario, un intensa ricerca del contatto con gli altri, un tentativo ossessivo di trovare modi per integrarsi e sentirsi parte di un gruppo. In parte ciò è dovuto a una profonda paura di essere etichettate come diverse, che si traduce in estenuanti e continui tentativi di mimetizzarsi, di “apparire il più normale possibile”. Questo impulso può portare a un’attenta osservazione delle espressioni facciali e dei gesti, all’imitazione dello stile di conversazione o perfino alla creazione di copioni sociali, ascoltando le conversazioni altrui e provandole ripetutamente in segreto.

“Quando ero piccola entravo in crisi se dovevo cominciare per prima in qualsiasi attività di gruppo”, mi ha raccontato una donna con diagnosi tardiva. “Ora capisco che ero terrorizzata all’idea di dover adottare un comportamento senza prima poter osservare e imitare un modello ‘accettabile’”.

Queste difficoltà possono essere dissimulate attraverso la creazione di molteplici identità o “maschere” dietro cui nascondersi, sperando che esse consentano di integrarsi nel gruppo e di essere accettate. Chi sceglie di mimetizzarsi può apparire estremamente timida o riservata, come quella ragazza nell’angolo che si sottrae discretamente agli sguardi. Chi si maschera, invece, può mostrarsi estroversa e brillante. “Sono stata la secchiona, la lettrice accanita, la ballerina, la studiosa, l’appassionata di sport, l’intenditrice di cibo, l’esperta di trucco”, spiega Katy Wells nel suo libro The painted clown (2021). “Il ruolo che interpretavo dipendeva da chi avevo davanti. La mia sopravvivenza dipendeva dalla mia capacità di adattarmi, di recitare, di camuffarmi”.

Nella storia dell’autismo questi comportamenti non sono mai stati considerati un campanello d’allarme, e così queste “camaleonti” sono rimaste inosservate, nascoste in bella vista.

Purtroppo, questi sforzi di camuffamento non portano a una vita felice e di successo, né a un senso soddisfacente di appartenenza a diversi gruppi sociali. Quando i medici e i ricercatori hanno cominciato a prestare attenzione, hanno scoperto che il comportamento mimetico era associato a livelli elevati di depressione e ansia, pensieri suicidi e autolesionismo. Le testimonianze personali raccontano anni di problemi mentali, accompagnati da diagnosi errate, trattamenti e farmaci inappropriati, fino a quando i pezzi non si sono messi al posto giusto e finalmente è stata suggerita una valutazione per l’autismo.

Oggi c’è una crescente attenzione al camuffamento, e si cerca di riconoscere la possibile discrepanza tra l’apparenza esteriore di una persona che sembra gestire bene le situazioni sociali e i suoi segnali interiori di difficoltà. Rompendo con le tradizionali valutazioni dell’autismo, si arriva perfino a chiedere direttamente alle persone interessate se e come incontrano difficoltà nelle interazioni sociali. Per esempio: hanno cercato consapevolmente di mantenere il contatto visivo per un certo tempo? Hanno osservato i gesti sociali e altri segnali non verbali, per poi esercitarsi davanti allo specchio?

Il camuffamento, per definizione, è difficile da individuare, ma almeno ora i professionisti e i ricercatori ci stanno provando.

Cervello iperattivo

Queste nuove intuizioni hanno innescato una vera e propria svolta nella ricerca neuroscientifica sull’autismo. All’inizio di questo secolo l’attenzione era comprensibilmente focalizzata sullo studio dell’attività atipica nel “cervello sociale”: una rete di strutture cerebrali che supportano le abilità necessarie per connettersi con gli altri, come comprendere cosa potrebbero pensare, trarre piacere dagli scambi sociali efficaci o evitare situazioni che potrebbero portare al rifiuto sociale.

Sadie (Mary Berridge)

Le prime conclusioni di queste ricerche, applicate all’autismo, indicavano che il disturbo era associato a livelli estremamente bassi di attività nel cervello sociale, evidenziando per esempio una ridotta codifica dei segnali condivisi o un sistema di ricompensa sociale poco attivo, con limitata reattività affettiva alle esperienze sociali, sia positive sia negative. Questo quadro corrispondeva perfettamente alla visione dominante degli individui con autismo come solitari e asociali.

Ma, come sappiamo, queste conclusioni derivavano da studi condotti esclusivamente su uomini. Quando si è cominciato a includere anche le donne sono emerse prove di un cervello sociale iperattivo, con alti livelli di autocontrollo ansioso in contesti relazionali e forti risposte emotive al rifiuto sociale. Un quadro molto diverso.

Questo porta a pensare che le donne nello spettro autistico siano state trascurate non perché mostrano versioni più lievi dei segni fondamentali dell’autismo riscontrati nei maschi, o perché sono più brave a mascherarli, ma perché il loro autismo si presenta in modo diverso. Lungi dall’evitare l’interazione sociale, sembra che siano fortemente spinte a cercarla. Tuttavia, in linea con la visione tradizionale dell’autismo, sembrano non possedere le competenze necessarie per vivere questa interazione in modo efficace. Hanno la motivazione, ma non i mezzi.

Potrebbe essere una forma diversa di autismo, ma resta comunque autismo. In questo caso c’è una forte spinta al contatto sociale, così intensa da portare allo sviluppo di schemi di camuffamento elaborati, e in definitiva dannosi, per nascondere qualsiasi indizio che chi li adotta non sia in grado di integrarsi nei gruppi sociali a cui aspira appartenere. Questo comportamento mimetico rende più difficile riconoscere le difficoltà sottostanti, che però esistono, e le linee guida cliniche e le definizioni diagnostiche devono essere aggiornate per riflettere questa realtà.

È stato proposto di abbandonare il concetto onnicomprensivo dello spettro e di reintrodurre la nozione di sottotipi, come avviene per il diabete, distinguendo per esempio tra autismo di tipo 1 e tipo 2. Questa distinzione potrebbe essere stabilita in base al fenotipo autistico maschile e femminile, considerando che i maschi sono la maggior parte dei “Kanner”, mentre tra i “camaleonti” prevalgono le femmine?

Probabilmente no. Ci sono donne che presentano l’autismo di tipo Kanner, così come ci sono uomini che manifestano comportamenti di camuffamento. Dovremmo evitare di ripetere gli errori del passato, derivanti dall’aggregare in modo impreciso e semplicistico molteplici aspetti del cervello e del comportamento umano in presunte categorie “maschili” e “femminili”, soprattutto alla luce del fatto che la stessa comunità autistica presenta un’ampia varianza di genere.

Una diagnosi di autismo ha spesso un impatto molto positivo sulla vita e sull’immagine di sé delle donne che la ricevono in età adulta

Alcuni hanno suggerito che l’autismo di tipo camaleontico sia così diverso da non rientrare affatto nello spettro. Tuttavia questo trascura il tratto fondamentale che definisce l’autismo: una marcata difficoltà con la fondamentale spinta umana alla socializzazione, in cui sono coinvolte le stesse reti cerebrali interessate dal disturbo. Piuttosto che cercare una nuova collocazione per un gruppo emergente che non si adatta al modello tradizionale, dobbiamo ampliare ulteriormente la nostra comprensione dell’autismo.

Finalmente a casa

Forse una delle lezioni più importanti è che questa storia non sarebbe emersa se le donne con autismo non avessero trovato la propria voce e se i ricercatori non le avessero ascoltate. Sta crescendo il riconoscimento dell’importanza di includere e comprendere formalmente l’“esperienza vissuta” in tutti gli ambiti della ricerca sull’autismo; ora è la stessa comunità autistica a guidare la svolta verso una ricerca partecipativa nello studio del comportamento atipico. Le persone con autismo sono coinvolte come partner in tutte le fasi del processo di ricerca: dalla progettazione allo sviluppo, dal reclutamento dei volontari all’interpretazione dei dati e alla loro discussione.

Integrare questa competenza specifica potrebbe essere utile anche in altri ambiti del comportamento atipico. Il pregiudizio di genere nella diagnosi dell’autismo solleva dubbi più ampi sull’affidabilità delle categorie psichiatriche. La quinta edizione del manuale diagnostico dell’Associazione psichiatrica americana ha circa mille pagine: la diagnosi psichiatrica non è una scienza esatta né imparziale, e va tenuto presente. Le etichette che ne derivano hanno però conseguenze concrete sull’accesso al supporto e alla comprensione, oltre a influenzare in modo rilevante la ricerca e lo sviluppo della pratica clinica.

Per esempio, sta emergendo che una parte significativa dei pazienti con disturbi alimentari è nello spettro autistico, e che questo gruppo ha caratteristiche diverse da chi ha disturbi alimentari ma è senza autismo. Riconoscere questa sovrapposizione e distinguere correttamente tra i due gruppi dovrebbe diventare parte integrante del processo diagnostico.

Inoltre, a prescindere da come si manifesta, una diagnosi di autismo ha spesso un impatto molto positivo sulla vita e sull’immagine di sé delle donne che la ricevono in età adulta. Molte testimonianze parlano del sollievo per aver “finalmente trovato la propria tribù”, con frasi come “la mia vita ha finalmente un senso” o “non sono una neurotipica malata, sono un’autistica sana”. Per quanto imperfetta, la definizione di autismo oggi identifica una comunità reale e riconoscibile, essenziale per chi prova da sempre un profondo bisogno di appartenenza.

Cosa ci dice la scoperta delle donne con autismo “invisibili” su questioni più ampie legate alla socializzazione di genere e al suo impatto disuguale? “Molti dei momenti in cui l’autismo mi ha causato problemi, o mi ha emarginato, sono stati quelli in cui mi sono scontrata con regole non scritte su come dovrebbe essere una ragazza o una donna, e non sono riuscita a seguirle”, ha scritto Joanne Limburg in Letters to my weird sisters (2021).

L’epidemia che non c’è
Prevalenza dell’autismo nei bambini statunitensi di otto anni, diagnosi ogni mille persone (Centers for Disease Control and Prevention)

◆ Negli ultimi decenni le diagnosi di autismo sono aumentate in modo costante in tutti i paesi industrializzati. Ad aprile il segretario alla salute statunitense Robert Kennedy ha annunciato l’avvio di una campagna di test e ricerche per individuare le cause di questa “epidemia”, che prenderà in esame anche il possibile ruolo dei vaccini. In passato Kennedy ha sostenuto la teoria, basata su uno studio ampiamente screditato, secondo cui il vaccino contro il morbillo può provocare l’autismo. In realtà, scrive la Bbc, l’aumento delle diagnosi sembra dovuto soprattutto all’ampliamento dello spettro autistico, al miglioramento del monitoraggio e a una maggiore consapevolezza, anche se non si possono escludere fattori ambientali, per esempio legati all’inquinamento.


Per comprendere le motivazioni del camuffamento, dobbiamo chiederci cosa spinga tanti soggetti con autismo, in gran parte donne, a passare gli anni della crescita cercando di nascondere la propria condizione. Perché una parte di queste persone sembra costretta a fare di tutto per appartenere a un gruppo sociale, anche a costo di esaurimento fisico e mentale, angoscia e maggiore vulnerabilità a relazioni dannose o abusive?

È significativo che queste persone siano soprattutto donne? Stiamo seguendo un copione biologico, determinato da fattori genetici e ormonali, che spingerebbe le femmine più dei maschi a privilegiare il gruppo sociale o il senso di “appartenenza” rispetto ad altri aspetti del benessere psicologico? Oppure è l’effetto di un condizionamento sociale, culturalmente determinato, che promuove conformismo, adeguamento, camuffamento di ogni tratto insolito e inibizione compulsiva di ciò che può risultare socialmente dirompente? O forse queste cause sono intrecciate e inseparabili? Come spesso succede nello studio del comportamento, sono le eccezioni a offrire spunti di riflessione sulle regole neurotipiche.

C’è un aspetto paradossale in tutto questo. Alcuni critici della ricerca neuroscientifica sulle differenze di genere temono che concentrarsi solo sul sesso biologico per spiegare queste differenze possa rafforzare stereotipi sessisti. Dall’altro lato, la presunta “mascolinità” dell’autismo è spesso citata come prova che esistono differenze inconfutabili, e quindi indiscutibili, tra il cervello maschile e quello femminile, attribuendo quindi al sesso biologico la causa di queste discrepanze.

Il primo gruppo tende a minimizzare il concetto di differenze cerebrali legate al sesso, il secondo prende l’autismo come conferma che esistono davvero un “cervello femminile” e un “cervello maschile”. Al centro di questo dibattito c’è però l’attenzione quasi esclusiva sull’autismo maschile, che ha oscurato la nostra cultura e impedito una visione completa dell’autismo.

Sfidare i custodi

Ora sappiamo che le donne con autismo sono state escluse dalle statistiche perché nessuno le cercava (il problema dell’attenzione concentrata sui maschi) e perché si mimetizzavano (il problema del camuffamento). E adesso? Come possiamo fare in modo che nessuno sparisca più, e sostenere i nuovi componenti della comunità autistica quando scoprono la loro condizione? Dobbiamo sfidare i “custodi”, come gli insegnanti e i medici convinti che “solo i ragazzi abbiano l’autismo”, i diagnostici che creano modelli basati sui ragazzi per definire il comportamento autistico, i ricercatori che presumono che i loro dati riguardanti solo gli uomini siano sufficienti a spiegare l’autismo nel suo complesso. Dobbiamo sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che “l’autismo non è più solo maschile” e che gli stereotipi dell’autismo “bianco, nerd, maschile” (diffusi tra gli scienziati e nella cultura popolare) rappresentano solo un sottotipo di un gruppo molto più ampio.

I professionisti e i gruppi di sostegno devono riconoscere che le esperienze di vita delle persone con autismo di tipo camaleontico sono molto diverse da quelle del gruppo di Kanner. Il loro insopprimibile bisogno di appartenenza le rende particolarmente vulnerabili al bullismo e alle relazioni abusive. Il loro autismo può essere nascosto dietro altre condizioni, come l’autolesionismo o i disturbi alimentari, di cui i medici devono essere consapevoli. Il supporto terapeutico deve considerare anche chi si mimetizza o si maschera.

Infine, lo psicologo Damian Milton ha descritto un problema di empatia a doppio senso, il reciproco malinteso tra persone con autismo e neurotipiche. Allo smarrimento delle prime nel mondo sociale dei neurotipici corrisponde la scarsa consapevolezza delle altre su cosa significhi vivere in modo così diverso e su quanto sia difficile comprendere le regole sociali che rendono le interazioni reciproche efficaci e gratificanti. Gli sforzi per far capire ai neurotipici cos’è l’autismo devono ora includere anche le donne, per una visione più ampia e sfumata.

Abbiamo esplorato le molte ragioni per cui le ragazze e le donne sono state escluse dalla storia dell’autismo e perché questo è importante. Abbiamo trovato il modo di andare oltre le loro maschere e individuato il loro comportamento autistico, diverso ma ugualmente valido. Finalmente le abbiamo accolte nei nostri scanner e mappato i loro cervelli, così diversamente diversi. Ora speriamo di poter rendere il mondo un posto migliore per loro. ◆ svb

Gina Rippon è una neurobiologa britannica. Ha scritto The lost girls of autism (Macmillan 2025).

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Questo articolo è uscito sul numero 1620 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati