Ultimamente mi capita di sognare la mia esecuzione. L’incubo si svolge più o meno sempre nello stesso modo: scopro con orrore che ho commesso un omicidio; la vittima non è mai una persona che conosco ma ha sempre un volto che ho già visto da qualche parte. Tremo per la paura di essere scoperta, e mi chiedo se costituirmi per mettere fine all’incertezza. Vengo presa, incarcerata e condannata a morte. A quel punto mi ritrovo in una stanza delle esecuzioni, simile a quelle che ho visto tante volte per lavoro. Mi dimeno sul lettino, legata con le cinghie, gli aghi infilati nelle braccia. Scongiuro il boia di non uccidermi. Gli dico che i miei figli saranno devastati, e in qualche modo so che stanno guardando da dietro una vetrata che sembra uno specchio. Sento il bruciore del veleno nelle vene. Poi arriva il vuoto.

Forse tutti sognano di morire, anche se non proprio in questo modo. Un tempo avevo degli incubi in cui ero io la vittima di un crimine, ma dopo aver assistito alle prime esecuzioni ho cominciato a immaginarmi, inconsciamente, come la carnefice. Forse è il frutto di un’identificazione eccessiva con gli uomini che ho visto morire, e della mia idea della religione cristiana, in cui siamo tutti peccatori e colpevoli. Sono particolarmente interessata al perdono e alla misericordia, due dei precetti più rigidi della mia fede. Se è possibile provare queste forme di compassione per gli assassini, è possibile provarle per tutti.

Qualche anno fa queste domande, insieme a un omicidio che ha sconvolto la mia famiglia, mi hanno spinta a offrirmi volontaria per assistere a un’esecuzione, una delle tredici che si sono svolte nel penitenziario federale di Terre Haute, nell’Indiana, durante i sei mesi del primo mandato di Donald Trump. Quasi tutti i 23 stati dove è in vigore la pena capitale permettono a un certo numero di giornalisti di essere presenti all’attuazione della condanna, una possibilità concessa anche dal governo federale. Ho inviato la domanda all’ufficio competente e, con mia sorpresa, è stata approvata.

Era da un po’ che cercavo di mettere insieme i miei pensieri sulla pena di morte, distillandoli in ritagli e mozziconi di scrittura, ma l’unica certezza che avevo, entrando nella camera della morte in Indiana, nel dicembre 2020, era la semplice sensazione che è sbagliato uccidere le persone, anche se sono cattive. L’esecuzione a cui ho assistito allora e quelle successive non hanno cambiato la mia convinzione che la pena di morte deve essere abolita. Ma, in un modo per certi versi inaspettato, hanno cambiato la mia idea del perché.

La pena capitale segue una logica emotiva. La vendetta è primordiale. L’ingiustizia vuole una riparazione. L’omicidio è il più orrendo dei crimini, e sembra appropriato abbinarlo alla più orrenda delle pene. Tutto questo aveva una logica per me quando ero bambina, in Texas; e così, mentre andavo a Terre Haute, mi chiedevo se una parte istintiva di me avrebbe provato soddisfazione: giustizia è stata fatta.

Tutto verde

Il caso di Alfred Bourgeois era uno di quelli che vengono solitamente citati per giustificare la pena di morte. Bourgeois era un uomo profondamente sgradevole: nel 2004 era stato condannato per aver torturato e ucciso la figlia di due anni e mezzo, Ja’karenn Gunter, nella base aeronavale di Corpus Christi, in Texas. Dalle indagini era venuto fuori che Bourgeois aveva sbattuto la testa della bambina sul cruscotto del suo camion, dopo un periodo prolungato di abusi e negligenze. Il caso era di competenza federale perché il reato era stato commesso in una base militare, e il governo stava per mettere a morte Bourgeois con un’iniezione letale.

La stanza delle esecuzioni del carcere di San Quentin, in California (Wally Skalij, Los Angeles Times/Getty)

Nei miei ricordi, quella sera era tutto verde: il prato ben curato intorno al centro stampa del carcere che splendeva nella pioggia, la vernice sulla cornice della vetrata nella sala dei testimoni, gli occhi da gatto di Alfred Bourgeois. Anch’io ero verde: seduta nervosamente di fronte alla vetrata affacciata sulla stanza dell’esecuzione, il sudore si addensava all’attaccatura dei capelli mentre mi soffiavo aria calda in faccia dietro la mascherina che indossavo per proteggermi dal covid. C’è stato un crepitio quando hanno avvicinato il microfono alla bocca di Bourgeois per fargli dire le ultime parole. Si è dichiarato innocente, come avrebbe cercato di dimostrare con scarso successo la sua figlia maggiore dopo l’esecuzione.

Poi le guardie hanno dato il via all’iniezione. Non mi aspettavo che Bourgeois cominciasse a dimenarsi sul lettino. L’iniezione letale è spacciata per una cosa facile. La sua morte non lo è stata.

Uccidere Bourgeois era apparentemente una questione di giustizia, o almeno di vendetta. Ma non ho provato nessun senso viscerale di soddisfazione. Quando sono uscita, sotto la pioggia, ho vomitato sul cemento. L’esecuzione mi era sembrata innaturale e disturbante come l’omicidio stesso. Ho pubblicato un articolo raccontando quell’esperienza, sperando, forse ingenuamente, che una descrizione onesta dell’esecuzione potesse spingere qualcuno, da qualche parte, a fermarsi un attimo a riflettere sulla pena di morte. Per lo stesso motivo ho deciso che avrei fatto di nuovo la testimone. Ho disegnato una tabella sulla lavagna della mia cucina lasciando lo spazio per i nomi e le date, in modo da tenere traccia delle condanne a morte e delle esecuzioni in programma.

Sapevo che significava di fatto schierarsi con gli assassini, anche se su un unico punto, cioè se dovessero essere messi a morte o no. Moralmente la cosa mi metteva a disagio. Volevo stare dalla parte giusta delle cose: contro la pena capitale, per motivi di principio che avevano a che fare con la dignità della vita umana; ma allo stesso tempo contro l’idea di difendere gli assassini in qualsiasi modo potesse sminuire la gravità dei loro crimini. Mi sembrava una posizione precaria.

La seconda esecuzione a cui ho assistito riguardava un altro omicidio particolarmente atroce, stavolta in Mississippi. Nel 2009 Kim Cox aveva denunciato l’ex marito, David Neal Cox, accusandolo di aver molestato la figlia preadolescente, Lindsey. Cox fu arrestato e incriminato per aggressione sessuale e abuso di minore. Nove mesi dopo fu rilasciato su cauzione. Andò a cercare Kim e Lindsay alla roulotte della sorella di Kim e le prese in ostaggio. Durante un braccio di ferro con la polizia di otto ore, Cox sparò due volte a Kim. Con la moglie a terra, in fin di vita, aggredì sessualmente Lindsey. Kim era già morta quando le forze speciali presero d’assalto la roulotte e misero in salvo la figlia. Cox si dichiarò colpevole di tutte le accuse.

“In tutto il sud il tentato stupro era un reato punito con la pena massima, ma solo se l’imputato era nero e la vittima era bianca”, dice Banner

Nel settembre 2012 una giuria del Mississippi lo condannò a morte. Nel 2018 Cox cominciò a scrivere alla corte suprema dello stato chiedendo di licenziare i suoi avvocati. Voleva rinunciare a qualsiasi ulteriore appello: “Desidero che sia compiuta la mia condanna in quanto uomo colpevole e meritevole della morte”.

Ho chiesto di assistere all’esecuzione di Cox e sono partita per il penitenziario di stato del Mississippi, chiamato Parchman Farm, nelle pianure basse del Delta. Era autunno, ma la stagione non aveva toccato il profondo sud; c’erano ancora grilli insonni la sera e alberi maestosi vestiti d’estate. Gli agenti carcerari mi hanno fatta salire insieme agli altri testimoni su un furgoncino bianco e ci hanno portati alla stanza dell’esecuzione passando per strade secondarie.

Cox ha pronunciato le sue ultime parole, dicendo che “era un brav’uomo, una volta”. Sul momento non sapevo che pensare di quella frase, e onestamente non lo so neanche adesso. Voleva dire che era irrecuperabile, che la strada dal bene al male è a senso unico? O intendeva il contrario? E quale sarebbe stata l’affermazione più strana da fare nella sua posizione? Nella stanza dei testimoni, in penombra, ho trascritto le sue parole. Quanto all’esecuzione, stavolta ero preparata. Non mi è venuto il voltastomaco quando ho visto la faccia di Cox cambiare colore sul lettino, da pallida ad arrossata, mentre il veleno distruggeva il suo corpo.

Dopo l’esecuzione Burl Cain, capo del dipartimento penitenziario del Mississippi, ha parlato con i giornalisti. Ha sottolineato che era andato tutto liscio, in parte grazie al suo rapporto personale con Cox, che ha descritto come cordiale. Nel suo discorso finale, il detenuto lo aveva ringraziato per la sua gentilezza. Cain ha detto di aver confortato Cox, parlandogli degli angeli che avrebbero portato la sua anima in paradiso. Un giornalista gli ha chiesto se, secondo lui, Cox era veramente cristiano. Cain ha citato Matteo: “Non giudicate, per non essere giudicati”.

Orrore pubblico

Nel 1764 il filosofo italiano Cesare Beccaria pubblicò Dei delitti e delle pene, uno dei primi testi con argomentazioni a favore dell’abolizione della pena di morte, che all’epoca era comminata non solo per l’omicidio volontario ma anche per reati come l’omicidio preterintenzionale, l’incendio doloso, la rapina, il furto, la sodomia, la bestialità, la contraffazione e la stregoneria. Beccaria sosteneva che i governi non avessero l’autorità per violare i diritti dei cittadini togliendogli la vita e che la pena di morte fosse un deterrente meno efficace della detenzione. Il suo libro ebbe una grande influenza nelle colonie americane. Fino al 1860 (cioè fino alla guerra civile americana) nessuno stato del nord eseguì condanne a morte per reati diversi dall’omicidio e dal tradimento. Nel sud la situazione era diversa. A metà dell’ottocento in Louisiana si poteva essere condannati a morte per una varietà di comportamenti che potevano diffondere il malcontento tra i neri liberi o in schiavitù: fare un discorso, mostrare un cartello, stampare e distribuire materiali, perfino avere una conversazione privata. “In tutto il sud il tentato stupro era un reato punito con la pena massima, ma solo se l’imputato era nero e la vittima era bianca”, spiega lo storico Stuart Banner nel saggio del 2002 The death penalty (non risulta che uno stupratore bianco sia mai stato impiccato nel sud prima della guerra civile). La pena di morte aveva una connotazione innegabilmente razzista.

Detenuti condannati a morte nella prigione di Angola, in Louisiana (Andrew Testa, Panos)

Con il passare del tempo la lista dei metodi consentiti per la messa a morte si è ristretta. Le impiccagioni pubbliche caddero in disgrazia nell’ottocento, quando quello spettacolo cominciò a essere considerato non solo volgare ma anche di cattivo esempio. Le fucilazioni, sanguinose e brutali, diventarono estremamente rare alla metà del novecento. Le esecuzioni cominciarono a essere confinate nelle mura della prigione alla fine dell’ottocento, quando si passò all’elettrocuzione. La sedia elettrica fu usata migliaia di volte, anche se aveva esiti spesso raccapriccianti, come i condannati che prendevano fuoco. Nel 1921 fu introdotto il gas letale, ma anche quel metodo procurava la morte tra tormenti atroci.

Alla fine degli anni sessanta il Fondo per la difesa legale e l’istruzione della Naacp (National association for the advancement of colored people) lanciò una campagna nazionale per contestare la pena di morte non solo su un terreno strettamente morale ma anche su una serie di basi giuridiche, tra cui il divieto di “punizioni crudeli e inusitate” previsto dall’ottavo emendamento della costituzione. Poi, nel 1972, la corte suprema prese in esame tre casi di pena di morte, tra cui Furman contro la Georgia. Gli avvocati di William Henry Furman, condannato per concorso in omicidio, sostenevano che la pena capitale per come veniva applicata negli Stati Uniti – in modo arbitrario e con un forte pregiudizio razziale – violava le tutele dell’imputato previste dall’ottavo emendamento. Il caso spaccò la corte, con cinque giudici che espressero pareri separati a favore di Furman. Di quei cinque, solo due valutarono la pena di morte incostituzionale in senso assoluto. Per gli altri tre era incostituzionale per come veniva applicata. Un risultato della sentenza fu una breve moratoria sulle esecuzioni in tutti gli Stati Uniti.

Fu un momento cruciale. Come ha detto Austin Sarat, studioso della pena di morte, il “vecchio abolizionismo” – in cui si contestava la messa a morte in termini morali, sottolineando il valore della vita e della dignità umana – stava cedendo il passo a uno nuovo in cui il messaggio si concentrava sugli ostacoli di ordine pratico all’applicazione giusta e umana della pena.

Le esecuzioni ripresero nel 1977, dopo una serie di revisioni delle leggi statali. Quello stesso anno i politici dell’Oklahoma, spinti dai macabri effetti del malfunzionamento della sedia elettrica, approvarono una legge che autorizzava le esecuzioni tramite iniezione letale, una procedura che Ronald Reagan paragonò alla puntura con cui i veterinari fanno addormentare un animale. Con il tempo l’iniezione letale è stata introdotta in tutti gli stati in cui era in vigore la pena di morte. Come con gli altri metodi, ci sono stati fallimenti pubblicizzati che hanno portato ad accese controversie giudiziarie.

Ho visto come le cose possono andare male nell’estate del 2022, quando ho ricevuto una telefonata da Joel Zivot, un medico che lavorava con i detenuti nel braccio della morte in Alabama. Secondo Zivot lo stato aveva combinato un casino durante l’esecuzione di Joe Nathan James Jr. – un uomo condannato a morte per aver ucciso Faith Hall, la sua ex fidanzata – e stava tenendo la cosa segreta. I familiari avevano riferito di aver dovuto aspettare tre ore prima di entrare nel carcere. Nel frattempo non si sapeva dove fosse James e, quando finalmente la tenda della stanza dell’esecuzione era stata aperta, il condannato sembrava incosciente. Il caso aveva attirato la mia attenzione anche per un altro motivo: la famiglia di Hall, tra cui le sue due figlie, si era opposta all’esecuzione, dicendo che Hall credeva nel perdono e che non avrebbe voluto la morte di James. Pensavo fosse molto raro che la famiglia della vittima prendesse una posizione del genere. Mi sbagliavo.

Sotto il bicipite c’erano dei tagli che facevano pensare a un tentativo di flebotomia, una procedura con la quale si incide la pelle per accedere alla vena

C’era poco tempo. James era morto da due giorni e la sepoltura era imminente. Il referto ufficiale dell’autopsia, pubblicato dal dipartimento di medicina legale dello stato, non sarebbe stato disponibile prima di diversi mesi. Con l’aiuto dell’avvocato di James e di suo fratello Hakim, io e Zivot abbiamo contattato un patologo per fare una seconda autopsia e capire davvero come era andata l’esecuzione.

L’operazione si è svolta in un obitorio di Birmingham in una giornata caldissima. La luce scintillava sull’asfalto. Dentro, dei ventilatori quadrati arieggiavano la piccola stanza rivestita di maioliche. Il corpo di James era steso su un tavolo operatorio, avvolto in un sudario e in un telo di plastica. Quando sono arrivata aveva il torace già aperto, tagliato al centro, con gli intestini raccolti di lato. La parte superiore del cranio era stata segata; il cervello era stato rimosso e infilato in una busta trasparente. Il patologo ha sollevato i polmoni per pesarli. Ho girato intorno al tavolo per guardare la parte interna delle braccia di James.

I sospetti di Zivot erano giusti: invece di inserire correttamente i due aghi richiesti per l’iniezione, sembrava che gli addetti all’esecuzione avessero fatto diversi buchi sulle mani e sulle braccia di James in cerca di una vena utilizzabile. Vicino alle punture si erano formati dei lividi. Appena sotto il bicipite c’erano dei tagli che facevano pensare a un tentativo di flebotomia, una procedura con la quale si incide la pelle con il bisturi per accedere alla vena. Il numero di tagli indicava che c’erano stati molti tentativi.

Qualche giorno dopo ho scritto un articolo sulla morte di James, scagliandomi contro le autorità dell’Alabama per la sofferenza inflitta al condannato e per il tentativo di insabbiarla. Ci tenevo a dire che James era un essere umano e un membro della società. È stato più o meno in quel momento che ho cominciato a sognare di morire tramite iniezione letale.

La misericordia è la scelta più etica perfino nei casi più difficili, anche se pensiamo di poter giudicare il carattere di qualcuno dal suo gesto peggiore

Annullata

Joe Nathan James Jr, David Neal Cox e Alfred Bourgeois erano uomini che non avevo mai conosciuto di persona. L’esperienza del confronto con le loro morti era stata intensa, ma anche, in un certo senso, distante. Poi le cose sono cambiate.

Per raccontare esattamente quello che era successo a James dovevo mettermi in contatto con altri uomini nel braccio della morte in Alabama. Non sapevo cosa aspettarmi, ed ero diffidente. All’inizio gli incontri sono stati sbrigativi, ma con il passare del tempo sono diventati più familiari. Ho cominciato ad apprezzare le personalità dei detenuti, i rapporti che instauravano tra di loro, la complessità dei loro mondi interiori. Alcuni erano laconici, professionali; altri erano più cordiali e loquaci.

L’esecuzione successiva in programma in Alabama nel 2022 era quella di Alan Eugene Miller, che nell’estate del 1999 aveva sparato a due colleghi e a un ex supervisore. Gli altri detenuti del braccio della morte lo chiamavano Big Miller perché pesava quasi 160 chili. Secondo Charles Scott, uno psichiatra assunto dalla difesa, Miller era in preda al delirio quando aveva aperto il fuoco. Secondo lo psichiatra chiamato dall’accusa, invece, all’epoca del delitto l’uomo soffriva di disturbo schizoide di personalità. La malattia mentale è estremamente comune tra i detenuti del braccio della morte, ma la corte suprema non l’ha mai ritenuta un motivo sufficiente per escludere la pena capitale. Quando parlava, con gli altri e anche con se stesso, Miller aveva la tendenza ad andare fuori tema. Un conoscente lo descriveva “infantile”.

All’inizio ho interagito con Miller soprattutto attraverso avvocati, amici e familiari. Era stato lui stesso a chiamarmi dopo aver letto il mio articolo su James. Era teso, ma educato; aveva la voce acuta e stridula. La data dell’esecuzione era stata fissata, e voleva che ci fosse qualcuno presente per documentare quello che stava per succedergli. Il dipartimento penitenziario dell’Alabama non aveva risposto alla mia richiesta di assistere come giornalista, ma c’era un altro modo. Ogni condannato ha diritto a sei “testimoni personali”, e Miller mi ha inserita nella lista.

La sera del 22 settembre 2022 ho aspettato la mezzanotte con i familiari di Miller. Passata quell’ora l’ordine di esecuzione sarebbe scaduto legalmente e la procedura sarebbe stata rimandata. Era la prima volta che potevo osservare come l’esecuzione viene vissuta dalla famiglia del detenuto. I familiari di Miller erano persone alla mano. Mi aspettavo che sarebbero stati tristi – e lo erano – ma avevano anche un certo umorismo macabro. Date le circostanze, qualsiasi cosa avessi chiesto sarebbe stata fuori luogo, e invece mi hanno messo a mio agio e hanno risposto a tutte le mie domande. Stavamo condividendo un momento intimo: un lutto preventivo, un incontro con la morte.

Poco dopo che siamo entrati nella stanza dei testimoni, una guardia carceraria ci ha accompagnati fuori, dicendo che l’esecuzione era stata improvvisamente annullata. Era quasi mezzanotte, ma lo stato non era ancora pronto a procedere. Il ritardo era dovuto all’appello finale di Miller ma anche a un malfunzionamento tecnico nella camera: più tardi Miller ha raccontato di essere stato legato e punto molte volte con gli aghi dagli addetti all’esecuzione che non trovavano le vene. Serviva del tempo per ottenere un altro ordine di esecuzione dal tribunale, quindi per il momento Miller sarebbe stato risparmiato.

Lacci e aghi

Qualche tempo dopo ho parlato con Kenneth Eugene Smith, il cui nome nella lista delle esecuzioni in Alabama veniva dopo quello di Miller. Uno dei suoi amici in carcere ci aveva messi in contatto. Fin da subito, Smith è stato affabile e cortese. La pressione rivela il carattere, e mentre scoprivo la sua personalità sono arrivata alla conclusione che chiunque fosse stato in passato, era anche un simpatico nonno del sud. Mi ha ricordato gli uomini che avevo conosciuto da bambina in Texas. Abbiamo parlato di religione, dei nostri figli, di libri e film fantasy, della sua vita in carcere. Alla fine ho cominciato a pensare a lui come a un amico. La sua esecuzione era prevista per novembre.

Il caso di Smith era complicato. Nel 1988 Charles Sennett, un pastore dell’Alabama, aveva deciso di far uccidere sua moglie Elizabeth. Sennett aveva un’amante ed era pieno di debiti, così aveva stipulato una ricca assicurazione sulla vita della moglie e aveva cominciato a cercare un killer a pagamento. Smith e un suo amico, John Forrest Parker, avevano accettato l’incarico. Un giorno di marzo i due erano andati in macchina a casa dei Sennett in campagna e, una volta entrati, avevano trovato Elizabeth.

Secondo la testimonianza del medico legale, Elizabeth era morta per ferite multiple provocate da un’arma da taglio. Ricostruire le circostanze esatte è difficile ma, secondo la deposizione di Smith, Parker aveva pestato Elizabeth prima con i pugni, poi con un bastone o con qualsiasi cosa gli capitasse per le mani (Parker ha ammesso di aver picchiato la moglie del pastore, ma ha detto di non averla mai accoltellata). Mentre Parker aggrediva Elizabeth, Smith saccheggiava la casa portando via un videoregistratore. L’ultima volta che l’aveva vista, disse alla polizia, Elizabeth era stesa vicino al caminetto, coperta da un lenzuolo. Smith e Parker erano scappati con la macchina di Parker.

Charles Sennett si suicidò prima di poter essere incriminato per la morte della moglie. Nel 1989 Parker e Smith furono condannati per omicidio.

Protesta contro l’esecuzione di Kenneth Smith ad Atmore, in Alabama, il 25 gennaio 2024 (Edmund D. Fountain, The New York Times/Contrasto)

La sentenza di Parker è stata eseguita nel 2010, quella di Smith era imminente. Gli ho proposto di fargli da testimone, e lui ha accettato. Il 17 novembre 2022 ho passato la sera con uno dei suoi avvocati in una camera d’albergo, trasferendo via via le informazioni che ricevevo alla moglie di Smith, Deanna “Dee” Smith, sistemata in un hotel vicino. L’ultimo appello di Smith era stato respinto, aspettavamo solo di essere chiamati nella stanza dei testimoni. Ma non è venuto nessuno: ancora una volta, gli addetti all’esecuzione non erano riusciti a rispettare la scadenza della mezzanotte. L’esecuzione è stata annullata. Quella notte, dopo che Smith è stato riportato in cella, ho parlato con lui e Dee in videochiamata. Smith era sotto shock. Mi ha detto che lo avevano legato e gli avevano infilato inutilmente degli aghi, come probabilmente era già successo a Miller e forse anche a James. Gli avevano addirittura infilato un lungo ago sotto la clavicola, cercando la vena succlavia.

Dopo la sospensione dell’esecuzione di Smith, Kay Ivey, la governatrice dell’Alabama, ha ordinato una moratoria di alcuni mesi sulle esecuzioni in modo che lo stato potesse rivedere le sue procedure e i suoi protocolli (i risultati di questa revisione non sono mai stati resi pubblici). Quando la moratoria è stata revocata e sono state fissate le date per la seconda esecuzione, Smith e Miller mi hanno chiesto di nuovo di assistere. Sarebbero morti per soffocamento tramite ipossia da azoto, una tecnica che secondo gli esperti non era mai stata usata prima in un’esecuzione. Smith sarebbe morto il 25 gennaio 2024, Miller il 26 settembre dello stesso anno.

Capisco perché tante persone sono favorevoli alla pena di morte (negli Stati Uniti più del 50 per cento). L’omicidio è un crimine non solo contro una persona e la sua famiglia ma contro la società, e il modo in cui lo stato risponde ci riguarda tutti. Prima che la morte entrasse nella mia vita, ero certa che chiunque ne fosse toccato fosse favorevole a infliggere la più grave delle pene.

Immaginare il perdono

In un pomeriggio del giugno 2016 ero a letto con la nostra bambina appena nata quando Matt, mio marito, è entrato in camera e mi ha detto che sua sorella Heather, di 29 anni, era morta. Era stata accoltellata in modo così brutale che i primi soccorritori pensavano che le avessero sparato. Il sospettato era Javier Vázquez-Martínez, un uomo di 25 anni con cui Heather aveva una relazione. Lo avevano catturato dopo un inseguimento della polizia ad Arlington, in Texas. Secondo il verbale, era in stato di ubriachezza e aveva con sé droga, una bottiglia di liquore aperta e un coltello. Interrogato dalla polizia, Vázquez-Martínez ha negato di aver aggredito Heather, ma diversi testimoni hanno riferito agli agenti che nelle settimane precedenti l’aveva picchiata in modo così violento che era stata ricoverata in ospedale. È questa la parte a cui Marty, mio suocero, pensa più spesso. Marty è un carrellista in pensione e vive ancora ad Arlington, dove siamo cresciuti io, Heather e Matt.

Dopo che la polizia lo ha informato della morte della figlia, è entrato in contatto con un’associazione dei parenti delle vittime, che l’ha aiutato ad affrontare il processo. Poi è stato convocato per un incontro con un procuratore distrettuale a Forth Worth. Pur essendo nato e cresciuto in Texas, dove la grande maggioranza dell’opinione pubblica è a favore della pena di morte, Marty non è andato alla riunione con l’idea di chiederla per l’assassino della figlia. “So che Heather non l’avrebbe voluto. Non credo che sia la cosa giusta da fare. Non credo che serva a nessuno”. Vázquez-Martínez è stato condannato a quarant’anni di carcere.

Più tardi Steven è andato a cercare i familiari della vittima. Li ha abbracciati e ha chiesto scusa. Un gesto che aspettava di fare da tutta la vita

I familiari delle persone assassinate sono spesso capaci di straordinarie prove di misericordia, ma raramente perdonano. “Siamo persone molto comprensive, ma io non l’ho perdonato”, mi ha detto Marty. Il perdono è un processo in cui si arriva a vedere chi ha commesso un reato come un proprio pari dal punto di vista morale, e riconoscerlo di nuovo come parte dell’umanità condivisa. Ma la misericordia – rinunciare a infliggere la pena massima che un condannato può meritare – non richiede uno sforzo del genere. Se è difficile immaginare il perdono senza misericordia, è facile immaginare la misericordia senza il perdono. Socialmente, la misericordia sancisce il valore della vita umana. Per chi la esercita, è una dimostrazione della propria caratura morale; per chi la riceve, è un dono del cielo.

Molti detenuti nel braccio della morte sono più degni di amore di quanto si possa pensare all’inizio, e in questi casi forse la misericordia risulta più facile. Ma la misericordia è la scelta più etica perfino nei casi più difficili, anche se siamo convinti che alcune persone meritino la pena di morte, anche se pensiamo di poter giudicare il carattere di qualcuno dal suo gesto peggiore, anche se sappiamo con certezza che è colpevole e non si è pentito.

Nel De clementia Seneca invita alla clemenza per motivi stoici: è meglio contenere i propri impulsi che assecondarli, specialmente quando prestano il fianco a tendenze distruttive come l’ira e la crudeltà. L’autocontrollo è una virtù, ed è possibile educare i propri desideri a cambiare gradualmente. Scegliere la misericordia vuol dire porre dei limiti al proprio potere di rivalsa e riconoscere la nostra natura imperfetta. Per un cristiano, la misericordia deriva dalla carità. E nello spazio liminale dove i familiari delle vittime vengono coinvolti nel procedimento giudiziario – per dare la propria benedizione o per respingere le tesi dell’accusa – mostrare misericordia è una decisione particolarmente eroica. Pensarla in questi termini significa capire che la dimensione morale della pena capitale non riguarda solo ciò che facciamo agli altri. Riguarda anche ciò che facciamo a noi stessi.

Di tanto in tanto, il perdono e la misericordia si incontrano e portano alla riconciliazione. Nella primavera del 2001 James Edward Barber uccise Dorothy “Dottie” Epps, una donna di 75 anni, ad Harvest, in Alabama, dopo aver bevuto alcol e assunto crack. Non lo fece per soldi né per altri motivi. Durante la sua testimonianza disse che nella sua mente l’episodio era confuso, ma che ricordava di essere entrato nella casa di Epps e di aver preso un martello. Per un po’ di tempo, ha raccontato, “si è rifiutato completamente di credere” a ciò che aveva fatto. È rimasto a tormentarsi nel carcere della contea, prendendosela con il mondo per la vergogna e la rabbia. Stava vivendo, secondo le sue stesse parole, “una vita inutile”.

Un po’ alla volta però Barber è cambiato. Isolato e inquieto, ha cominciato a leggere la Bibbia, rimanendone conquistato. Si è iscritto a dei corsi per corrispondenza. In carcere aveva fatto un percorso impeccabile, ma gli mancava ancora un passo.

La svolta è arrivata nel 2020, quando Barber ha ricevuto una lettera di Sarah Gregory, la nipote di Epps. Dentro c’era il perdono: “Sono stanca, Jimmy, stanca di portare nel cuore questo dolore, quest’odio e questa rabbia. Devo farlo e ti perdono sinceramente”. Barber è rimasto sconvolto e ha scritto anche lui una lettera: “Sarah, mi dispiace, non sono mai riuscito ad avvicinarmi a quello che ho nel cuore e nell’anima”. La lettera continuava: “In quella prigione della contea brutta, sporca e malvagia ho fatto una promessa a me stesso, che non sarei mai diventato un ‘galeotto’. Ho deciso che quando avrei lasciato il carcere, sulle mie gambe o in un sacco, sarei stato un uomo migliore di quando ci sono entrato”. Gregory ha risposto: “Ricevere la tua lettera è stato il tassello finale della libertà. Quando nel mio cuore ti ho perdonato mi sono tolta un peso, ma la tua risposta mi ha portato una libertà e un sollievo indescrivibili”. I due hanno cominciato a parlare al telefono della vita, di dio e del figlio di Gregory. “Voglio bene a quella ragazza più che a qualsiasi altra persona al mondo”, mi ha detto Barber.

Man mano che l’ora di Barber si avvicinava, Gregory si è resa conto che non voleva che morisse. “Domani perderò un amico”, mi ha detto il giorno prima dell’esecuzione. “Non avrei mai pensato che l’avrei detto. È stato un mio amico, e mi mancherà”.

La notte del 21 luglio 2023 ho visto Barber morire in una camera della morte dell’Alabama. Dopo l’esecuzione i suoi avvocati hanno letto la sua dichiarazione finale: “Ho capito fin dall’inizio che le sole parole non potevano esprimere il mio dolore per ciò che era successo per mano mia. Perciò speravo che il modo in cui avrei vissuto la mia vita sarebbe stata una testimonianza, per la famiglia di Dorothy Epps e anche per la mia, del rimorso e della vergogna che provo per ciò che ho fatto”. Non spettava a lui dire se i suoi sforzi sarebbero stati ripagati. Ma bastavano per Gregory.

Barber è stato il primo detenuto a essere messo a morte dopo che l’Alabama ha revocato la moratoria e ha ripreso le iniezioni letali. Ci eravamo scritti tramite l’app di messaggistica del carcere dell’Alabama, e sua cognata mi aveva mostrato una lettera che Barber le aveva scritto. Era contento, gentile, incoraggiante e riconoscente per tutto, anche nella sua situazione. L’ho conosciuto abbastanza bene per dire con certezza che il suo rimorso e il suo pentimento erano sinceri. La pena di morte è, in una certa misura, indiscriminata: sono stati condannati a morte sia innocenti sia colpevoli. Ma la pena di morte ha l’aggravante di essere anche moralmente indiscriminata, perché uccide colpevoli che potrebbero essere diventati delle brave persone. Quando arriva il momento dell’esecuzione, il detenuto potrebbe essere diventato una persona completamente diversa da quella che ha tolto una vita.

Ventisette stati hanno abolito la pena di morte o l’hanno sospesa. Secondo il Fondo per la difesa legale e l’istruzione della Naacp, fino all’estate del 2024 2.213 persone negli Stati Uniti erano rinchiuse nel braccio della morte, contro le 3.682 del 2000. Durante l’ultimo decennio, ogni anno sono state pronunciate dai tribunali meno di cinquanta condanne a morte. Il dipartimento della giustizia ha dichiarato una moratoria sulle esecuzioni federali dopo l’insediamento di Joe Biden, nel 2021, e prima di lasciare l’incarico l’ex presidente ha commutato la pena di morte di 37 dei 40 detenuti nelle prigioni federali. “Non è un moto irreversibile”, mi ha detto Sarat, “ma penso che il movimento contro la pena capitale sia molto consistente”.

In risalita
Numero di condanne a morte eseguite negli Stati Uniti tra il 1977 e il 2024 (death penalty information center)

Ma la pena di morte c’è ancora. Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che invita i procuratori federali a chiederla in tutti i casi in cui è applicabile. A marzo la South Carolina ha eseguito una condanna con il plotone di esecuzione, per la prima volta in quindici anni, e la Louisiana ha ripreso le esecuzioni dopo una lunga pausa, tramite ipossia da azoto. Preoccupati dalle difficoltà con l’iniezione letale, anche l’Oklahoma e il Mississippi hanno permesso quel metodo d’esecuzione. È veloce e indolore, dicono quelli che la promuovono. Come andare a dormire.

Alberi e marionette

Dopo essere sopravvissuto al primo tentativo di esecuzione, Kenny Smith sarebbe stato il primo condannato a morire per ipossia da azoto negli Stati Uniti. Sono arrivata al carcere William C. Holman poco dopo le 8 di mattina del 24 gennaio 2024, il giorno precedente all’esecuzione. Mi hanno accompagnato sua moglie Dee e i suoi nipoti. Siamo passati attraverso un metal detector e abbiamo lasciato documenti, portafogli e chiavi a una guardia fuori della sala visite. Anche se conoscevo Smith da un anno e mezzo, non l’avevo mai incontrato di persona. Non me lo aspettavo così alto e massiccio, una presenza imponente, ammorbidita dalla barba grigia e dall’atteggiamento paterno. “Vieni qua, piccoletta”, mi ha detto, spalancando un sorriso mentre si alzava dal tavolo. “Dammi un abbraccio”.

Mi sono seduta al tavolo davanti a Smith, circondato dai suoi familiari: il figlio Steven Tiggleman, la nuora Chandon Tiggleman e la madre, Linda Smith.

Le ore passavano. Dee e gli altri avevano delle buste di plastica piene di monete da un quarto di dollaro per i distributori automatici. Non era permesso portare da mangiare dall’esterno, perciò abbiamo bevuto succhi e bibite gassate e mangiato patatine, ciambelle al miele e caramelle. Smith si è appoggiato sulla spalla della madre. A un certo punto un addetto del carcere è entrato e ci ha scattato delle foto. Smith e io ci siamo alzati per una foto; in qualche modo è riuscito a tirare fuori un sorriso. Dall’altro lato della parete un gruppo di mennoniti ha cominciato a cantare Amazing grace. La conversazione sembrava procedere a ondate, tra dolci fantasticherie che culminavano in risate e poi sprofondavano nel silenzio.

Paese spaccato
Cosa pensano gli statunitensi della pena di morte per le persone condannate per omicidio, % (gallup)

La sera mi sono unita alla famiglia di Smith per la cena. Ci siamo incontrati in un casinò a pochi minuti dal carcere. Il locale era tutto agghindato per il mardi gras: alberi di natale artificiali spruzzati d’oro, verde e viola; marionette mascherate da Arlecchino rivestite di perline multicolori. Ci siamo seduti nella bisteccheria del casinò. Mentre mangiavamo ha cominciato a piovere, e non ha smesso fino al giorno dopo. Le grondaie del carcere si erano allagate e rovesciavano acqua sul pavimento di pietra quando ci siamo presentati per l’ultima visita a Smith.

Dentro non si potevano più portare monete per merendine e bibite. Smith avrebbe potuto vomitare dentro la maschera, un’eventualità che lo stato sperava di evitare vietandogli di mangiare dopo le dieci del mattino del giorno dell’esecuzione. Per il suo ultimo pasto aveva fatto colazione con bistecca e uova con contorno di frittelle di patate. Poi ci siamo seduti tutti insieme su sedie di metallo mal rivestite e abbiamo parlato. A turno tutti piangevano, facendosi forza l’un l’altro. Smith ha pianto tra le braccia della madre. Steven, un uomo riservato e cortese, ha parlato a voce bassa con il padre. Smith ha dato un bacio a Dee, le ha massaggiato le spalle e l’ha rassicurata.

A un certo punto io e Smith ci siamo allontanati e ci siamo seduti in un angolo della sala visite. Anch’io ero emozionata. Smith mi ha dato una pacca sulla schiena con aria paterna e mi ha detto che potevo chiedergli tutto quello che volevo. Gli ho chiesto della sua vita e di quali riflessioni avesse fatto. Smith non era arrabbiato per la sua situazione, o frustrato per il tempo che aveva trascorso lontano dalla società. Aveva una vita prima di andare in carcere, mi ha detto. Aveva fatto una cosa terribile, ma aveva anche lavorato, aveva avuto dei figli, aveva trovato l’amore e si era fatto degli amici. Aveva mantenuto queste relazioni da dietro le sbarre, dove molte persone finiscono isolate e sole. Smith aveva una vita interiore intensa.

La stessa gentilezza

Poco dopo quella conversazione, i funzionari del carcere mi hanno cancellata dalla lista dei testimoni personali di Smith perché avevo portato carta e penna nella sala visite, cosa che mi avevano detto di non fare. Ovviamente il problema erano gli articoli che avevo già scritto e pubblicato, anche se il dipartimento penitenziario dell’Alabama non lo ammetterebbe mai. Mi è stato impedito di assistere agli ultimi istanti di vita di Smith e da quel momento in poi mi è stato vietato di fare la testimone in Alabama (per questo non ho potuto assistere all’esecuzione di Eugene Miller, nel settembre 2024).

I racconti degli altri mi hanno permesso di seguire gli eventi quella sera. Intorno alle 7, la corte suprema ha respinto l’appello finale di Smith, autorizzando lo stato a eseguire la sentenza. Gli addetti hanno di nuovo legato Smith a un lettino, stavolta con una maschera respiratoria industriale sulla faccia. Mentre la famiglia guardava dalla vetrata, il gas ha cominciato a fluire. L’ossigeno nel sangue di Smith è progressivamente diminuito, gli occhi gli si sono girati all’indietro e sono cominciate le convulsioni. Per 22 minuti Smith si è contorto e ha ansimato, cercando di respirare; poi, finalmente, è morto.

Più tardi, durante una conferenza stampa, Steven è andato a cercare i familiari della vittima, Elizabeth Sennett. Li ha abbracciati e ha chiesto scusa, un gesto, mi ha detto, che aspettava di fare da tutta la vita, tormentato dal peso della colpa che legava le due famiglie. Uno dei figli di Sennett, Mike, ha ricambiato l’abbraccio. Quando i giornalisti e le troupe televisive se ne sono andati, Dee, Steven e suo fratello Michael si sono trattenuti con me nel patio di un Holiday Inn a fumare e sorseggiare whisky da un bicchiere di carta. Dee piangeva, sussultando sommessamente. In albergo aveva stretto tra le braccia un orsetto di pezza verde che le aveva dato Smith, fatto con gli abiti che gli avevano dato in carcere e una ciocca di capelli cucita all’interno. Aveva lo sguardo fisso sul telefono, dove stavano arrivando le notifiche della notizia della morte del marito.

Siamo rimasti in piedi a parlare fino a mezzanotte, poi ho detto a tutti che era meglio se tornavo al mio albergo. Mi sentivo un po’ disorientata. Mi affioravano in testa frammenti delle conversazioni della giornata. Non mi capacitavo del fatto che Smith fosse sopravvissuto una volta per poi essere comunque ucciso. Qualche giorno prima dell’esecuzione, un giornalista aveva chiesto a Smith che messaggio avrebbe voluto mandare all’opinione pubblica. “Beh, direi di lasciare spazio alla misericordia”, aveva risposto. “È una cosa che non esiste in Alabama. La misericordia non esiste in questo paese quando si tratta di situazioni difficili come la mia”.

Aveva ragione. Dopo la morte di Smith ho appeso le foto di noi due sul frigorifero con una calamita, vicino ai compiti e ai disegni dei miei figli. Continuerò a cercare opportunità per fare da testimone alle esecuzioni, anche se fuori dell’Alabama. Saluterò la prossima persona che incontrerò nel braccio della morte con la stessa gentilezza che mi hanno dimostrato Miller, Barber e altri. E cancellerò i vecchi nomi dalla tabella sulla lavagna della mia cucina, scrivendo i nuovi al loro posto. ◆ fas

Elizabeth Bruenig è una giornalista statunitense, che per l’Atlantic si occupa di religione e politica. Ha lavorato al New York Times e al Washington Post.

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Questo articolo è uscito sul numero 1634 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati