Aveva detto che sarebbe stato un pontificato “breve”, di “quattro o cinque anni”, ma il destino ha voluto diversamente. Con una salute fragile e molti acciacchi, Francesco è morto il 21 aprile 2025 a 88 anni. È stato il terzo papa più longevo della storia della chiesa cattolica e il primo papa gesuita e non europeo, “arrivato dalla fine del mondo”, come aveva dichiarato presentandosi la sera del 13 marzo 2013, quando è diventato il successore di Benedetto XVI. Francesco, è stato il 266° pontefice e da outsider ha agitato le acque invitando la chiesa ad aprirsi alla realtà contemporanea, a essere missionaria, a non condannare, ad accudire e includere tutti. Si è distinto per il suo stile umile, autentico, semplice, austero e vicino soprattutto agli ultimi e agli “scartati”.
|
|
Podcast | |
Questo articolo si può ascoltare nel podcast di Internazionale A voce.
È disponibile ogni venerdì nell’app di Internazionale e su internazionale.it/podcast
|
|
Cosciente dell’importanza dei mezzi di comunicazione e del fatto che un’immagine, spesso, dice più di mille parole, il papa ha avuto fin dal principio un enorme impatto attraverso i suoi gesti. Come quando ha abbracciato un uomo sfigurato e malato in piazza San Pietro, o quando, come faceva a Buenos Aires, nel suo primo giovedì santo a Roma è andato in un carcere minorile e ha lavato i piedi ai detenuti, comprese le donne e i musulmani. Critico acerrimo del clericalismo, degli orpelli e di una curia romana che ha riformato mettendola al servizio delle altre chiese del mondo, Francesco è stato un papa che da uomo libero ha osato fare ciò che mai era stato fatto, in sintonia con il suo tempo. Un tempo che descriveva come “una nuova epoca” segnata dai conflitti, dalle guerre, dalle ingiustizie, da una pandemia, dall’irruzione dei social media, dal movimento MeToo, che ha dato voce alle vittime di abusi e molestie sessuali, dalla proliferazione delle notizie false, dall’avanzamento dell’intelligenza artificiale e ultimamente anche dall’ascesa dell’estrema destra nazionalista, chiusa in se stessa e ostile ai migranti.
Molto amato anche dai non cattolici e dagli intellettuali, Francesco è stato invece osteggiato dai settori più conservatori del cattolicesimo. Con una visione della realtà in bianco e nero, questi si sono opposti alla sua concezione della chiesa come un “ospedale da campo” chiamato a curare le ferite del mondo moderno e ad accogliere tutti, senza eccezioni: dai divorziati risposati alle persone lgbt+, ai migranti e ai carcerati. “Tutti, tutti, tutti”, ripeteva spesso negli ultimi anni.
Bergoglio ha sorpreso tutti fin dall’inizio, quando ha deciso di chiamarsi Francesco
Jorge Mario Bergoglio è stato una figura singolare, sempre capace di sorprendere. La sua vita è stata una corsa a ostacoli. Primo di cinque figli in una famiglia di immigrati italiani della classe media, Bergoglio era nato il 17 dicembre 1936 a Buenos Aires. Dopo un’infanzia e un’adolescenza come tante, ha raccontato di aver ricevuto la vocazione sacerdotale il 21 settembre 1953, a 16 anni, dopo una confessione, entrando però in seminario solo a vent’anni, nel 1957. Dopo aver contratto una polmonite che lo portò sull’orlo della morte e gli costò la rimozione della parte superiore del polmone destro, a 21 anni decise di entrare nell’ordine dei gesuiti, con il sogno di fare il missionario in Giappone. Nel 1963 fu ordinato prete e nel 1973, ad appena 36 anni, fu nominato provinciale, il più giovane nella storia recente dell’ordine, con cui ebbe una relazione complessa.
Erano tempi segnati da grandi aspettative e profondi conflitti, non solo dentro la chiesa cattolica, scossa dai venti di cambiamento del concilio Vaticano II, ma anche in Argentina, nel pieno di un’atroce guerra sporca. Nonostante la sua giovane età, Bergoglio affrontò con determinazione la sfida come responsabile, anche se fece diversi errori. “Dovevo affrontare situazioni difficili e prendevo le mie decisioni in modo brusco e personalista”, ha ammesso in un’intervista alla rivista gesuita Civiltà Cattolica nel 2013.
All’epoca i suoi avversari lo dipingevano come una figura rigida, conservatrice e avversa ai settori progressisti e alla teologia della liberazione. L’accusa più grave che Bergoglio dovette affrontare durante gli anni da provinciale fu quella di complicità con la dittatura militare, a cui avrebbe “consegnato” i sacerdoti gesuiti Orlando Yorio e Francisco Jalics, scomparsi il 23 maggio 1976.
La storia era andata in modo molto diverso: in silenzio, Bergoglio aveva fatto il possibile affinché i militari liberassero Yorio e Jalics, oltre ad aver aiutato moltissime persone a nascondersi e a scappare da un’Argentina vittima del terrorismo di stato.
In seguito, tra il 1979 e il 1985, Bergoglio fu rettore del Colegio Máximo, un istituto gesuita alla periferia di Buenos Aires, dove insegnava teologia e le cui porte erano sempre aperte per la gente dei quartieri poveri vicini.
Di carattere deciso e a volte imperscrutabile – al punto che alcuni gesuiti lo avevano soprannominato la Gioconda – suscitava interesse ma anche ostilità. Tra il 1990 e il 1992 fu inviato come confessore nella città di Córdoba, nel nord dell’Argentina, in una sorta di esilio.
Verso Roma
La sua carriera ebbe una svolta quando l’arcivescovo di Buenos Aires, il cardinale Antonio Quarracino, ottenne che Giovanni Paolo II lo nominasse primo vescovo ausiliare della capitale argentina, nel 1992, e più tardi, nel 1997, vescovo coadiutore. Diventato nel 1998 il primo arcivescovo gesuita di Buenos Aires, ancora una volta Bergoglio fu costretto a gestire situazioni burrascose: prima uno scandalo finanziario che aveva coinvolto il suo predecessore e poi il caos economico e politico dell’insolvenza argentina. Inoltre dovette affrontare una guerra piena di colpi bassi scatenata contro di lui da un’ala della chiesa argentina orientata a destra e legata a un settore conservatore della curia romana.
Bergoglio interpretò la carica di arcivescovo in modo molto diverso dai suoi predecessori. L’anticonformismo che sarebbe emerso quando, da papa, avrebbe deciso di non vivere nel palazzo apostolico del Vaticano ma nell’austera residenza Santa Marta, a Buenos Aires lo portò a rompere molti schemi: scelse di risiedere non nella struttura riservata all’arcivescovo ma in una sobria camera della curia, continuò a spostarsi con l’autobus e la metropolitana, regalando l’auto ufficiale e trovando un altro incarico al suo autista.
Come arcivescovo fu instancabile, con una grande capacità di lavoro, un’acuta intelligenza politica e una memoria degna di uno statista. Incontrava chiunque bussasse alla sua porta e instaurava un rapporto personale con tutti i sacerdoti di cui era responsabile. Diede il suo sostegno soprattutto ai cosiddetti preti villeros e il loro lavoro nei quartieri più poveri di Buenos Aires, assistendo i più bisognosi e partecipando alle manifestazioni di religiosità popolare.
Ma come ha fatto a diventare papa questo arcivescovo proveniente dall’altro capo del mondo, che l’11 febbraio 2013, mentre Benedetto XVI comunicava l’intenzione di dimettersi, aveva presentato la sua lettera di rinuncia alla sede di Buenos Aires e aveva già pronta una stanza in una struttura riservata ai sacerdoti in pensione? A catapultarlo sul trono di Pietro è stata in realtà una combinazione di fattori. Il suo prestigio era cresciuto grazie al suo lavoro in diverse congregazioni del Vaticano. Cultore del basso profilo, era stato il secondo più votato dopo Joseph Ratzinger nel conclave del 2005. Inoltre Bergoglio aveva avuto un ruolo cruciale nella redazione del documento della conferenza generale dei vescovi latinoamericani ad Aparecida, in Brasile, nel 2007.
Il conclave del marzo del 2013 non aveva un candidato di rilievo come lo era stato Ratzinger. D’altro canto, tra i cardinali regnava un clima anti-italiano: i protagonisti degli scandali dei mesi precedenti, con il furto di documenti riservati commesso dal maggiordomo del papa (il famoso Vatileaks), intrighi, veleni, denunce, nepotismo e perfino l’ombra di una lobby gay, erano stati infatti tutti prelati italiani. In quel momento si cercava qualcuno che avesse la capacità di governare e fosse in grado di ispirare la gente, qualità che Bergoglio possedeva innegabilmente, anche se alcuni lo consideravano fuori dai giochi a causa dei suoi 76 anni. Il suo intervento in una delle riunioni precedenti al conclave, il 9 marzo, aveva fatto colpo su molti cardinali. In quell’occasione l’arcivescovo di Buenos Aires aveva parlato di evangelizzazione, invitando la chiesa a uscire da se stessa e andare nelle periferie geografiche ed esistenziali.
Uomo libero che a differenza dai suoi predecessori non aveva mai studiato a Roma, Bergoglio ha sorpreso tutti fin dall’inizio, quando ha deciso di chiamarsi Francesco, il santo dei poveri e della natura, patrono d’Italia. Un nome che nessuno prima di lui aveva usato e che, inoltre, rappresentava già un programma di governo, come ha ribadito uno dei suoi documenti più importanti, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013, in cui sottolineava la necessità di una “conversione del papato”.
Mettendo da parte le differenze, ha scelto di concentrarsi su ciò che unisce i credenti
Bergoglio era consapevole di essere stato eletto non perché un altro papa era morto, ma perché un altro papa aveva rinunciato, un fatto che segnava l’inizio di una convivenza inedita con il papa emerito. Questa strana coabitazione, durata quasi dieci anni fino al 31 dicembre 2022, con la morte di Ratzinger, è stata serena, come ha raccontato lo stesso Francesco nel libro intervista Il successore (2024), che ha smentito il falso mito dei due papi nemici. D’altro canto Francesco ha confermato che alcuni settori si sono opposti al suo pontificato e hanno cercato invano di strumentalizzare Benedetto XVI come una figura a lui contrapposta.
Un vento di novità
Francesco ha sorpreso anche con il suo rifiuto dei simboli pontifici. Non ha voluto indossare né le scarpe rosse (ha tenuto le sue calzature ortopediche nere) né la croce pettorale dorata (non ha abbandonato la sua croce argentata con l’immagine del buon pastore) e nemmeno il manto, rinunciando alla limousine e all’appartamento nel palazzo apostolico, che a suo parere si era trasformato in una sorta di cella dorata e lo avrebbe tenuto lontano dalla realtà provocandogli “problemi psichiatrici”. Francesco ha preferito vivere nella comunità di Santa Marta, suscitando forti malumori nella curia e nella gendarmeria vaticana. Non c’era più un papa facile da proteggere e da “controllare”, ma un papa che intendeva gestire i suoi impegni indipendentemente dalla curia. Oltre all’agenda degli impegni ufficiale, organizzata dalla prefettura della casa pontificia, Francesco ne aveva una parallela, che compilava la sera e che diventava pubblica solo se le persone che incontrava lo comunicavano.
Quindi è passato all’azione. Come avevano chiesto vari cardinali nelle congregazioni generali (le riunioni dei cardinali che precedono il conclave), ha subito imposto una riforma delle finanze vaticane. Dopo gli scandali che avevano segnato gli anni di Benedetto XVI era necessario fare piazza pulita. Un compito estremamente difficile. Per questo ha creato la Segreteria per l’economia (Spe) affidandola al cardinale australiano George Pell. Controllando i conti in rosso del Vaticano, Pell si è fatto subito molti nemici all’interno della curia, fino a quando ha dovuto abbandonare l’incarico, nel 2017, accusato di aver commesso abusi nel suo paese. Paradossalmente, nonostante fosse un alleato del papa nella missione risanatrice, Pell è stato uno dei leader dell’opposizione conservatrice contro Francesco. Morto nel 2023 a 81 anni, in un articolo postumo ha definito il pontificato di Bergoglio come “un disastro sotto molti aspetti, una catastrofe”. Ma al di là di questo, attraverso i successori di Pell alla guida della Spe e ricorrendo a diversi motu proprio – i decreti emessi dal pontefice – Francesco è riuscito a stabilire nuovi sistemi e meccanismi, con controlli, bilanci e gare d’appalto in quella che prima era una vera e propria giungla. Ha nominato anche un revisore generale e una commissione per gli investimenti, rinnovando gli statuti dell’Istituto per le opere di religione (Ior).
Tra scandali ed emarginati
Con un’altra scelta coraggiosa, Francesco ha tolto alla segreteria di stato la gestione dei fondi riservati. Grazie ai nuovi controlli è stato svelato lo scandalo relativo a un fallimentare investimento immobiliare a Londra, che ha portato a una sentenza per appropriazione indebita. In quell’occasione, per la prima volta, un tribunale vaticano ha condannato un cardinale, l’influente ex sostituto alla segreteria di stato Angelo Becciu. Al contempo, con l’obiettivo di smantellare quella corte che aveva definito “l’ultima monarchia assoluta in Europa”, Francesco ha introdotto una riforma drastica della curia romana, l’amministrazione centrale della chiesa. Per ottenere appoggio in questo processo e nel governo universale della chiesa, Francesco ha creato subito dopo la sua elezione un consiglio dei cardinali di tutti i continenti, un’altra grande novità del suo papato.
Il 19 marzo 2022, dopo nove anni di lavoro, ha promulgato la costituzione apostolica Praedicate Evangelium, che ha riformato drasticamente la curia romana. Un altro cambiamento importante è stata l’apertura ai laici e alle donne degli incarichi direttivi in Vaticano, un’istituzione storicamente dominata dagli uomini. La prova di una vera rivoluzione in questo senso è arrivata a gennaio del 2025, con la nomina della suora italiana Simona Brambilla alla guida del dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, il “ministero” che si occupa di tutti i religiosi e le religiose del mondo. A partire da marzo la religiosa Raffaella Petrini è a capo del governatorato, l’ente che gestisce quasi duemila dipendenti e il funzionamento quotidiano della Città del Vaticano.
In parallelo alle dure critiche rivolte al sistema economico capitalista (per le quali qualcuno lo ha definito comunista), Francesco ha messo i poveri e i migranti al centro del suo pontificato. Il 19 marzo 2013, in occasione della sua prima messa solenne, ha fatto sedere in prima fila, accanto ai capi di stato e di governo, Sergio Sánchez, un cartonero (raccoglitore di cartoni usati da riciclare) e attivista con cui era amico dal 2005. Poco tempo dopo ha detto che il suo sogno era quello di una “chiesa povera per i poveri”, formata da “pastori che devono avere l’odore delle pecore”. Il suo primo viaggio è stato nell’isola di Lampedusa, simbolo del dramma dei migranti che trovano la morte nel Mediterraneo, ormai diventato un enorme cimitero.
Sempre pensando agli scartati, Francesco ha fatto installare docce e dormitori sotto il colonnato della basilica di San Pietro, ha festeggiato il suo compleanno con i senza tetto, ha più volte accolto in Vaticano dei rappresentanti dei movimenti popolari – che ha definito “poeti sociali” invitandoli a portare avanti la lotta per la terra, l’alloggio e il lavoro – e nel 2016 ha istituto la giornata mondiale dei poveri. Seguendo questa linea, per la prima volta nella storia ha indetto un giubileo oltre i confini di Roma, il giubileo della misericordia inaugurato alla fine del 2015 a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, uno dei paesi più poveri del mondo e colpito da una devastante guerra civile. Con questo atto, ha abbandonato l’eurocentrismo che fino a quel momento aveva dominato l’azione del Vaticano.
Probabilmente la più grande innovazione di Francesco è stata collegare la richiesta d’aiuto dei poveri e quella della terra, sempre più stravolta dagli effetti del cambiamento climatico. Questo parallelismo emerge nell’ enciclica Laudato si’, sulla protezione della casa comune. Pubblicata a giugno del 2015, l’enciclica è uscita in occasione della Cop21, il vertice sul cambiamento climatico organizzato a Parigi dalle Nazioni Unite, riuscendo a influenzare i dibattiti e le conclusioni dell’evento. Sette anni dopo, il 4 ottobre 2023, alla vigilia della Cop27 di Dubai, Francesco ha aggiornato e approfondito il suo messaggio con una nuova esortazione apostolica, Laudate Deum. Francesco ha firmato altre tre encicliche (Lumen fidei del 2013, Fratelli tutti del 2020 e Dilexit nos del 2024) e cinque esortazioni apostoliche. Di queste, Amoris laetitia, del 2016, ha generato una controversia all’interno dell’ala conservatrice della chiesa a causa della sua apertura alla comunione per i divorziati risposati; e Amata Amazzonia, del febbraio 2020, ha deluso i settori più progressisti che speravano in un’apertura all’ordinazione degli uomini sposati per rimediare alla carenza di sacerdoti in alcune aree remote.
In viaggio
Quando era arcivescovo e cardinale di Buenos Aires, Bergoglio era conosciuto per la sua riluttanza a concedere interviste. Tutto è cambiato quando ha preso il nome di Francesco: durante il suo pontificato ha parlato ai giornalisti decine di volte, con una disponibilità che all’interno del Vaticano non è stata molto apprezzata dalle gerarchie vaticane che non vedevano di buon occhio nemmeno le conferenze stampa organizzate in aereo tornando dai viaggi internazionali, spesso causa di polemiche e polemiche sui mezzi d’informazione.
Sempre senza filtri, Francesco rispondeva a tutte le domande dei giornalisti. “Chi sono io per giudicare un omosessuale?”, è stata la frase che ha segnato la sua prima conferenza stampa a diecimila metri di altitudine, di ritorno dalla giornata mondiale della gioventù di Rio de Janeiro, nel luglio del 2013, primo dei suoi 47 viaggi internazionali in 67 paesi. In tutti i suoi spostamenti, in nome della cultura del dialogo e dell’incontro che promuoveva per scongiurare la “terza guerra mondiale a pezzi”, Francesco ha fatto passi da gigante per superare le divisioni tra cristiani e rafforzare il dialogo interreligioso. Mettendo da parte le differenze teologiche, ha scelto di concentrarsi su ciò che unisce i credenti.
Nel 2016, all’aeroporto dell’Avana, è stato protagonista di un incontro storico: il primo faccia a faccia tra un papa e il patriarca ortodosso di Mosca (all’epoca era Kirill) dallo scisma del 1054. Nel 2017 ha commemorato i cinquecento anni della riforma protestante a Lund, in Svezia. Nel corso degli anni ha coltivato un’amicizia intensa con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo, con cui ha stretto una solida alleanza nella lotta per l’ambiente e la difesa dei più svantaggiati. Francesco ha curato i rapporti anche con gli anglicani: nel 2023 è andato in Sud Sudan in un pellegrinaggio ecumenico per la pace insieme all’arcivescovo di Canterbury Justin Welby e al moderatore della chiesa di Scozia Iain Greenshields.
Francesco ha applicato l’invito a concentrarsi su ciò che unisce e non su ciò che divide anche al dialogo con le altre due grandi religioni monoteiste, l’ebraismo e soprattutto l’islam. È riuscito a ricomporre il legame con i musulmani, eroso dal discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, nel 2006. Ha visitato più di una decina di paesi a maggioranza musulmana e ha costruito un’amicizia intensa con Ahmad al Tayyeb, l’attuale grande imam dell’università di Al Azhar, considerata il Vaticano dell’islam sunnita. Nel febbraio del 2019, ad Abu Dhabi, ha firmato insieme ad Al Tayyeb lo storico documento Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, uno dei testi che hanno ispirato l’enciclica Fratelli tutti.
Nel 2018 ha firmato un accordo provvisorio con la Cina (paese con cui il Vaticano non ha relazioni diplomatiche) sulle designazioni episcopali nella superpotenza comunista, dove vivono circa dodici milioni di cattolici. L’intesa, criticata dagli ambienti conservatori, rappresenta una pietra miliare della cultura del dialogo a oltranza.
E ora?
Il gigantesco scandalo degli abusi sessuali sui minori commessi dai sacerdoti, scoppiato alla fine del pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005) e proseguito durante quello di Benedetto XVI, aveva addolorato Francesco. Anche se a marzo del 2014 il papa aveva creato una commissione pontificia per la tutela dei minori, presieduta dal cardinale Sean O’Malley, arcivescovo di Boston (diocesi statunitense particolarmente colpita dallo scandalo), ha compreso la gravità della situazione solo dopo un viaggio in Cile a gennaio del 2018.
“Lì mi sono convertito”, ha ammesso in un’intervista, riconoscendo di essersi sbagliato nella percezione del problema nel paese sudamericano, chiedendo pubblicamente perdono ai cileni in una lettera. Oltre ad aver invitato tre vittime di abusi nella sua abitazione di Santa Marta, cogliendo l’occasione per chiedere ancora perdono e invitare a un vertice contro gli abusi tutti i presidenti di tutte le conferenze episcopali, Francesco ha approvato diverse leggi per fare in modo che i vescovi siano responsabili e affrontino adeguatamente i casi di abusi sessuali sui minori. Molti vaticanisti credono che questo tema sarà decisivo nel momento della scelta del suo successore. A proposito della successione, attraverso nove concistori Francesco ha reso più internazionale il collegio cardinalizio. Rompendo con la tradizione, non ha scelto i cardinali tra gli arcivescovi delle grandi diocesi, che in passato ricevevano automaticamente la nomina, ma ha premiato i prelati che avevano “l’odore delle pecore” e venivano da città e paesi periferici, mai rappresentati. In questo modo ha trasformato la geografia del conclave che sceglierà il prossimo papa. Oggi la maggioranza dei cardinali non è più europea, come quando è stato eletto Bergoglio. Inoltre più di tre quarti dei cardinali elettori (cioè quelli che hanno meno di 80 anni) sono stati nominati da Francesco. Tutto questo non è una garanzia del fatto che il prossimo papa seguirà i suoi passi da riformatore. Ma secondo molti non potrà nemmeno fare marcia indietro. ◆ as
Elisabetta Piqué è una giornalista argentina corrispondente dal Vaticano per il quotidiano La Nación. Ha scritto il libro Francesco. Vita e rivoluzione (2013).
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1611 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati