Editoriali

Una nuova crisi del debito

Dopo la fine della guerra civile nel 2009 lo Sri Lanka aveva approfittato dei vantaggi della pace, ma ora sembra essere diventato un esempio da non seguire: a maggio ha dichiarato l’insolvenza e ora ha bisogno di aiuti dall’estero per pagare le importazioni. Questa situazione dipende in gran parte dalle scelte del suo governo, ma molti problemi non sono esclusivi dello Sri Lanka. In quanto paese turistico, è stato colpito duramente dalla pandemia, che ha messo in crisi i conti di molte economie emergenti e fatto aumentare in modo preoccupante il loro debito pubblico.

Durante la crisi del covid-19, i paesi più poveri sono stati aiutati dai bassissimi tassi d’interesse nelle economie più ricche, che hanno garantito loro un flusso costante di denaro. Ma l’aumento dell’inflazione sta facendo crescere anche i tassi. Gli investitori non possono più rischiare come prima nei mercati emergenti, e gli stati non possono permettersi di prendere denaro a prestito. Anche il taglio delle stime sulla crescita, i problemi fiscali alimentati dalla guerra in Ucraina e il rincaro del cibo e del carburante stanno creando scompiglio. È possibile che queste pressioni portino a una serie d’insolvenze, e il Fondo monetario internazionale potrebbe essere chiamato a intervenire su più fronti contemporaneamente. Ma restano molti problemi su come affrontare la bancarotta dei paesi, in primo luogo perché non c’è una strategia chiara su come ristrutturare i debiti pubblici. La cura per le crisi del debito si basa ancora sull’idea che i principali prestatori siano un piccolo gruppo di paesi ricchi e le istituzioni che loro dominano. Nel 2006 l’86 per cento del debito estero degli stati più poveri era controllato dai paesi del cosiddetto club di Parigi e da organizzazioni multilaterali. Oggi quella proporzione è scesa al 58 per cento, mentre la quota in mano agli investitori privati e alla Cina è passata dal 5 al 29 per cento. Di conseguenza la gestione del debito sovrano è diventata più frammentata e meno trasparente. Il “quadro di riferimento comune” introdotto dal G20 e dal club di Parigi avrebbe dovuto risolvere questo problema, ma non ha funzionato: i tre casi in cui è stato richiesto – Zambia, Ciad ed Etiopia – sono bloccati.

Senza un sistema per coordinare i creditori e condividere le perdite, l’influenza della Cina crescerà. Pechino è un importante creditore per lo Sri Lanka. Se nei prossimi mesi e anni assisteremo a una serie d’insolvenze, la gravità della crisi dipenderà da quanto la Cina sarà disposta a condividere le perdite, invece che sfruttare i suoi debitori. Per questo lo Sri Lanka sarà un importante banco di prova per tutti i paesi in via di sviluppo. ◆ ff

Il ricatto di Erdoğan sui curdi

Mentre gli Stati Uniti e la Russia sono distratti, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan vuole approfittare della guerra in Ucraina per perseguire la sua ossessione: cancellare qualsiasi possibilità che i curdi possano avere una terra da considerare loro. La richiesta di adesione alla Nato presentata da Svezia e Finlandia è diventata l’ultimo pretesto usato da Erdoğan per fare la voce grossa, sottolineando il sostegno dei due paesi alla causa curda, e per prendere nuovamente di mira la Siria.

Criticato in Turchia per la sua politica delle “porte aperte” ai profughi siriani, Erdoğan ha prima ventilato l’ipotesi di riportarne gran parte nel loro paese, poi ha annunciato una grande operazione militare contro le milizie curde in Siria. L’idea è osteggiata dagli Stati Uniti, alleati dei curdi nella lotta contro il gruppo Stato islamico, e dalla Russia, che sostiene il governo siriano. L’incursione turca destabilizzerebbe ulteriormente la regione, ravvivando il conflitto e innescando una nuova ondata di profughi.

La guerra in Siria dura da 11 anni, quella in Ucraina da 100 giorni. In nessuno dei due casi sembra vicina una soluzione diplomatica o militare. Resta da capire cosa accadrà al conflitto siriano dopo l’operazione militare turca, che non ha alcun fondamento nel diritto internazionale e non è autorizzata dalle Nazioni Unite. La Turchia entra in questa partita da sola, puntando sulla sua posizione ambigua per rivendicare uno status di potenza regionale che vuole contare nelle grandi decisioni. Non è un’operazione difensiva, ma una mossa strategica. Quale sarà il prezzo che la Turchia esigerà per l’allargamento della Nato? ◆ as

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1464 - 10 giugno 2022
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