C’è una barzelletta che circola sull’immunologia. Un immunologo e un cardiologo vengono rapiti. I rapitori minacciano di sparare a uno di loro, ma s’impegnano a risparmiare quello che ha dato il maggior contributo all’umanità. Il cardiologo dice: “Io ho scoperto farmaci che hanno salvato la vita a milioni di persone”. Profondamente colpiti, i rapitori si rivolgono all’immunologo: “E lei cos’ha fatto?”. L’immunologo risponde: “Be’, vedete, il sistema immunitario è molto complicato…”. E il cardiologo: “Sparatemi subito!”.
Il sistema immunitario è davvero molto complicato. È probabilmente la parte più complessa del corpo umano dopo il cervello, una rete assurdamente intricata di cellule e molecole che ci proteggono da virus pericolosi e altri microbi. Queste parti si chiamano a raccolta, si amplificano, si incitano, si calmano e si modificano a vicenda.
Perfino la parola immunità crea confusione. Quando la usano gli immunologi, intendono semplicemente dire che il nostro corpo ha reagito a un agente patogeno, per esempio producendo anticorpi o chiamando a raccolta le cellule difensive. Per tutti gli altri invece l’immunità è la protezione da un’infezione, l’essere immuni. Purtroppo la risposta immunitaria non garantisce necessariamente l’immunità in questo senso. Tutto dipende da quanto le cellule deputate alla difesa e gli anticorpi sono efficaci, numerosi e longevi. L’immunità è una questione di gradi, non di valori assoluti. Ed è alla base dei più importanti interrogativi sulla pandemia di covid-19. Perché alcune persone si ammalano gravemente e altre no? Chi è già stato contagiato può essere contagiato di nuovo? Come sarà l’andamento della pandemia nei prossimi mesi e anni? Il vaccino funzionerà? Per rispondere a queste domande dobbiamo prima di tutto capire come il sistema immunitario risponde al virus sars-cov-2. E questo è un problema perché, ripetiamolo, il sistema immunitario è molto complicato.
Le cose funzionano più o meno così. La prima delle tre fasi della risposta immunitaria consiste nell’individuare una minaccia, chiedere aiuto e lanciare il contrattacco. Questa fase comincia appena un virus, per esempio, entra nelle vie respiratorie e s’infiltra nelle cellule che le rivestono.
Quando percepiscono la presenza di molecole tipiche degli agenti patogeni ma non degli esseri umani, le cellule producono proteine chiamate citochine. Alcune si comportano come campanelli d’allarme, radunando e attivando una squadra diversificata di globuli bianchi che attaccano i virus ingoiandoli e digerendoli, bombardandoli con composti chimici che li distruggono e rilasciando altre citochine. Altre, chiamate interferoni, impediscono al virus di riprodursi. Queste azioni aggressive provocano un’infiammazione. Rossore, febbre, difficoltà a deglutire sono tutti segni del fatto che il sistema immunitario sta funzionando a dovere.
Innato e adattativo
Questa prima serie di eventi è causata dal sistema immunitario innato, che reagisce in modo fulmineo, scattando qualche minuto dopo l’arrivo del virus. È un sistema antico e usa componenti comuni alla maggior parte degli animali. La sua risposta è generica, cioè è più o meno la stessa per tutti. Ed è ad ampio raggio: il sistema attacca qualsiasi cosa gli sembri non umana e pericolosa, senza preoccuparsi di che agente patogeno sia. Quello che manca al sistema immunitario innato in termini di precisione è compensato dalla velocità. Il suo compito è fermare un’infezione il prima possibile. Se non ci riesce, permette comunque di guadagnare tempo nell’attesa che cominci la seconda fase: l’arrivo degli specialisti.
La risposta immunitaria è per sua natura violenta. Il suo scopo è distruggere cellule. Prevede il rilascio di sostanze chimiche dannose
Mentre all’interno delle nostre vie respiratorie è in corso questa lotta, le cellule messaggere catturano piccoli frammenti di virus e li portano nei linfonodi, dove ci sono alcuni globuli bianchi altamente specializzati: i linfociti T. Si tratta di difensori selettivi e pre-programmati. Ognuno è costruito in modo leggermente diverso ed è fatto per attaccare solo alcuni dei miliardi di miliardi di agenti patogeni che potrebbero esistere. Per ogni nuovo virus, da qualche parte c’è un linfocita T che in teoria è in grado di combatterlo. Il corpo deve solo individuare e mettere in moto quello giusto. Immaginate un linfonodo come un bar pieno di mercenari, pronti a combattere ciascuno un solo tipo di nemico. La cellula messaggera arriva di corsa con una foto sgranata e la mostra a tutti i mercenari, chiedendo: è questo il tuo nemico? Quando trova il mercenario giusto, quello si arma e comincia a clonarsi per formare un intero battaglione che si metterà in marcia verso le vie respiratorie.
Alcuni linfociti T sono dei killer, che distruggono le cellule dell’apparato respiratorio infettate, dove si nascondono i virus. Altri sono aiutanti, che potenziano il resto del sistema umanitario. Questi aiutanti attivano i linfociti B che producono gli anticorpi, piccole molecole in grado di neutralizzare i virus bloccando le strutture che usano per attaccarsi ai loro ospiti. In breve, gli anticorpi raccolgono i virus che fluttuano all’esterno delle nostre cellule, mentre i linfociti T uccidono quelli che sono già riusciti a entrarci. I linfociti T demoliscono, gli anticorpi fanno pulizia.
I linfociti T e gli anticorpi fanno parte del sistema immunitario adattativo o acquisito, che è più preciso di quello innato ma più lento. Trovare e attivare le cellule giuste è un’operazione che può richiedere giorni. Ma ha effetti più duraturi: a differenza di quello innato, infatti, il sistema adattativo ha una memoria. Dopo che il virus è stato eliminato, la maggior parte dei linfociti T e B mobilitati si ritira e muore. Ma una piccola parte rimane di guardia: sono i veterani della guerra al covid-19 del 2020, che restano asserragliati nei nostri organi e pattugliano il nostro flusso sanguigno.
Questa è la terza e ultima fase della risposta immunitaria: tenere a portata di mano qualche specialista. Se un virus attacca di nuovo, queste “cellule memoria” possono entrare velocemente in azione e mettere in moto il sistema immunitario adattativo senza ritardi. La memoria è la base dell’immunità, intesa come difesa duratura contro tutto ciò di cui abbiamo sofferto.
Finora abbiamo descritto cosa dovrebbe succedere quando il sars-cov-2 entra nel corpo umano, in base a quello che sappiamo sul sistema immunitario e su come reagisce generalmente ai virus respiratori. Ma cosa succede in realtà? Il problema è che, ahimè, il sistema immunitario è molto complicato.
In generale, la reazione del sistema immunitario al sars-cov-2 è “quella che ci si aspetta nel caso di una nuova infezione respiratoria”, spiega Shane Crotty dell’istituto di immunologia di La Jolla, in California. Inizialmente si attiva il sistema immunitario innato e poi entra in gioco quello adattativo. Da vari studi risulta che la maggior parte delle persone contagiate sviluppa buoni livelli di linfociti T specializzati in coronavirus e di anticorpi. “In pratica non ci sono grandi sorprese”, afferma Sarah Cobey, epidemiologa dell’università di Chicago.
Tuttavia, “ogni virus in grado di far ammalare le persone deve avere almeno uno stratagemma per eludere il sistema immunitario”, fa notare Crotty. Il virus responsabile del covid-19 sembra poter contare sulla sua iniziale furtività, che ritarda la risposta del sistema immunitario innato e inibisce la produzione degli interferoni, le molecole che inizialmente bloccano la replicazione virale. Per Akiko Iwasaki, un’immunologa dell’università di Yale, “questo ritardo è davvero fondamentale per determinare esiti positivi o negativi”. Crea una breve finestra temporale in cui il virus può replicarsi inosservato prima che scatti il campanello d’allarme. Questi sfasamenti si verificano a cascata: se il sistema immunitario innato è lento a mobilitarsi, anche quello adattativo resterà indietro.
Molte persone contagiate ci mettono settimane a smaltire il virus dopo la fine dei sintomi più gravi. Altre no. Forse le prime ne hanno inalato all’inizio una quantità maggiore. Forse il loro sistema immunitario innato era già indebolito dall’età avanzata o da malattie croniche. In altri casi il sistema immunitario adattativo non funziona come dovrebbe: i linfociti T si mobilitano, ma il loro numero cala prima che il virus sia sconfitto, “quasi provocando uno stato di immunosoppressione”, osserva Iwasaki. Questo duplice fallimento potrebbe consentire al virus di entrare più in profondità nel corpo, verso le cellule vulnerabili dei polmoni e verso altri organi come i reni, i vasi sanguigni, il sistema gastrointestinale e quello nervoso. Il sistema immunitario non può impedirlo, ma non smette di provarci. E anche questo è un problema.
La risposta immunitaria è per sua natura violenta. Il suo scopo è distruggere cellule. Prevede il rilascio di sostanze chimiche dannose. In teoria questa violenza dovrebbe essere mirata e limitata. Come spiega Jessica Metcalf, epidemiologa dell’università di Princeton: “Metà del sistema immunitario è progettato per disattivare l’altra metà”. Ma se si lascia che un’infezione vada avanti in maniera incontrollata, il sistema immunitario potrebbe fare lo stesso, causando molti danni collaterali nel suo frenetico e prolungato tentativo di sconfiggere il virus.
È proprio quello che sembra succedere nei casi gravi di covid-19. “Se non riesce a eliminare il virus abbastanza rapidamente, il paziente rischia di subire i danni causati sia dal virus sia dal sistema immunitario”, afferma Donna Farber, microbiologa della Columbia university. Molti pazienti ricoverati in terapia intensiva sono morti per i danni provocati dalle loro cellule difensive, anche se alla fine erano riusciti a sconfiggere il virus. Altre persone continuano a soffrire di problemi polmonari e cardiaci per molto tempo dopo le dimissioni. Le reazioni immunitarie eccessive si verificano anche nei casi più gravi d’influenza, ma nel covid-19 causano danni maggiori.
C’è un altro problema. Normalmente il sistema immunitario attiva un programma diverso, mobilitando gruppi di cellule e di molecole, a seconda degli agenti patogeni che deve combattere: virus e microbi che invadono le cellule; batteri e funghi che rimangono fuori dalle cellule; vermi parassiti. Durante un’infezione virale si dovrebbe attivare solo il primo programma. Ma il team di Iwasaki ha recentemente osservato che nei casi più gravi di covid-19 si attivano tutti e tre. “Sembra completamente casuale”, dice l’immunologa. Nel peggiore dei casi “si ha l’impressione che il sistema non sappia bene cosa fare”.
Nessuno sa ancora perché questo succede, e perché solo in certi pazienti. A nove mesi dall’inizio della pandemia, la grande varietà che caratterizza i casi di covid-19 rimane un mistero. Non è ancora chiaro, per esempio, perché tante persone abbiano sofferto per mesi di sintomi debilitanti. Molte di loro non sono mai state ricoverate e quindi non sono rappresentate negli studi che hanno misurato la risposta degli anticorpi e dei linfociti T. David Putrino, che lavora all’ospedale Mount Sinai di New York, dice di aver visitato settecento di queste persone e un terzo di loro è risultato negativo al test sugli anticorpi, nonostante avesse sintomi compatibili con il covid-19. Non è chiaro se il loro sistema immunitario stava facendo qualcosa di diverso per combattere il coronavirus.
I misteri sono destinati ad aumentare. La reazione del sistema immunitario al virus è una questione di biologia, ma la varietà di reazioni che si registrano è un effetto anche delle scelte politiche. Decisioni sbagliate significano un maggior numero di casi, e di conseguenza una gamma più ampia di risposte immunitarie, nonché di eventi rari. In altre parole, più si diffonde, più la pandemia diventa strana.
Alcuni modelli offrono spiegazioni più semplici. “Il sistema immunitario innato dei bambini risponde più rapidamente agli stimoli”, afferma Florian Krammer della Icahn school of medicine del Mount Sinai, e questo potrebbe spiegare perché raramente soffrono di infezioni gravi. Le persone anziane sono meno fortunate. E hanno anche meno riserve di linfociti T a cui attingere (come se il bar pieno di mercenari fosse semivuoto). “Ci vuole più tempo perché scatti la risposta adattativa”, afferma Donna Farber.
Sono emersi anche indizi del fatto che alcune persone potrebbero avere un certo grado d’immunità preesistente contro il nuovo coronavirus. Negli Stati Uniti, in Germania, nei Paesi Bassi e a Singapore, quattro équipe indipendenti di scienziati hanno scoperto che una percentuale variabile tra il 20 e il 50 per cento di persone che non sono mai state esposte al virus sars-cov-2 ha comunque un numero significativo di linfociti T in grado di riconoscerlo. Queste cellule “cross-reattive” probabilmente sono emerse quando i loro portatori sono stati contagiati da altri coronavirus, compresi i quattro tipi più lievi che provocano un terzo dei comuni raffreddori e i molti che infettano altri animali.
Ma Farber avverte che la presenza di questi linfociti T cross-reattivi “non ci dice nulla sulla protezione”. Sarebbe intuitivo pensare che ci proteggano, ma in immunologia l’intuizione non funziona. I linfociti T potrebbero non fare nulla. Esiste una vaga possibilità che predispongano le persone a malattie più gravi. Non potremo mai saperlo con certezza senza reclutare un gran numero di volontari, controllare i loro livelli di linfociti T e seguirli per un lungo periodo di tempo per vedere chi viene contagiato e quanto gravemente si ammala.
Anche se le cellule cross-reattive sono benefiche, ricordatevi che i linfociti T agiscono facendo esplodere le cellule infette. Quindi è improbabile che impediscano alle persone di essere contagiate, ma potrebbero ridurre la gravità delle infezioni. Questo forse ci aiuterebbe a capire perché, politica a parte, alcuni paesi hanno avuto meno difficoltà a combattere il covid-19 di altri. O a comprendere perché alcune persone presentano solo sintomi lievi. “Se cominci a fare ipotesi impazzisci”, dice Crotty, che ha condotto con alcuni colleghi uno studio sulle cellule cross-reattive. “Molte persone si sono attaccate a questo e hanno detto che potrebbe spiegare tutto. Certo, potrebbe! Oppure potrebbe non spiegare nulla. È davvero frustrante”. “Vorrei che non fosse così”, aggiunge, “ma il sistema immunitario è davvero complicato”.
Prospettive allarmanti. O no
Una delle incognite da chiarire con più urgenza è cosa succede dopo essere stati contagiati, e se si può esserlo di nuovo. Fondamentalmente i ricercatori non sanno ancora quanta protezione dal covid-19 sono in grado di offrire i restanti anticorpi, linfociti T e cellule memoria, e neanche come misurarla.
A luglio un team di ricercatori britannici ha pubblicato uno studio dal quale è emerso che molti pazienti di covid-19 perdono buona parte degli anticorpi dopo pochi mesi. Un precedente studio cinese, di giugno, aveva dato risultati simili.
Entrambi hanno provocato una serie di titoli di giornale dai toni allarmanti, che hanno contribuito a diffondere il timore che le persone possano essere contagiate ripetutamente, e che neanche un vaccino potrà garantire una protezione a lungo termine. Ma molti immunologi con cui ho parlato non erano troppo impensieriti perché – e questa volta lo dicevano in modo rassicurante – il sistema immunitario è davvero complicato.
◆ Uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, realizzato su 1.200 islandesi contagiati dal virus sars-cov-2, ha riscontrato che nel 90 per cento dei casi gli anticorpi al virus erano presenti nel corpo umano quattro mesi dopo l’infezione. C’è di che rallegrarsi, scrive l’Economist: gli anticorpi che rimangono proteggono più facilmente dal contagio. Questo significa che un vaccino che ne stimola la produzione dovrebbe fornire un’immunità duratura, almeno per un po’. Un secondo studio, realizzato nel Regno Unito e uscito su Nature Immunology, si è concentrato sui linfociti T, stabilendo che sono presenti in maggiori quantità nelle persone che hanno contratto il covid-19 in modo più grave. Questi linfociti sono in grado di riconoscere otto parti del virus, tra cui la proteina spike che gli permette di penetrare nelle cellule umane.
In primo luogo, un calo delle difese è normale. Durante un’infezione gli anticorpi vengono prodotti da due tipi diversi di linfociti B. Il primo gruppo entra in gioco rapidamente e ha vita breve: scatena subito un enorme tsunami di anticorpi e poi muore. Il secondo è più lento ma dura più a lungo: produce ondate di anticorpi meno aggressivi che continuano a circolare nel corpo. Il passaggio dal primo gruppo al secondo significa che nel corso di un’infezione il livello di anticorpi di solito diminuisce. “E non c’è niente di cui preoccuparsi”, osserva Krammer.
Taia Wang, dell’università di Stanford, è un po’ meno ottimista: diversi studi, compresi alcuni non ancora pubblicati, indicano che molte persone sembrano perdere gli anticorpi neutralizzanti dopo un paio di mesi. “Se sei mesi fa mi avessero chiesto di fare un’ipotesi, avrei pensato che durassero più a lungo”, dice.
Ma “il fatto che gli anticorpi non sono misurabili non significa che una persona non sia immune”, fa notare Iwasaki. I linfociti T potrebbero continuare a garantire l’immunità adattativa anche se gli anticorpi vengono eliminati. I linfociti B memoria, se rimangono, potrebbero ripristinare rapidamente i livelli degli anticorpi anche se, in un dato momento, le loro riserve sono basse. E, soprattutto, non sappiamo ancora quanti anticorpi neutralizzanti servono a una persona per essere protetta dal covid-19.
Wang è d’accordo: “Molti pensano che la quantità degli anticorpi sia l’unica cosa che conta, ma la questione non è così semplice”, dice. “Anche la qualità è importante”. La qualità potrebbe dipendere dalla parte del virus alla quale si attaccano o da quanto bene si attaccano. In effetti molti di quelli che guariscono dal covid-19 hanno un numero complessivo di anticorpi neutralizzanti basso, ma una parte di questi anticorpi neutralizza molto bene. “La quantità è facile da misurare”, aggiunge Wang. “Invece ci sono diversi modi per valutare la qualità e non sappiamo quale funziona meglio”.
◆ A Hong Kong un uomo di 33 anni è stato reinfettato dal sars-cov-2: si era ammalato una prima volta a marzo in forma lieve e ad agosto è risultato nuovamente positivo ai test diagnostici, ma senza sintomi. Poco tempo dopo, negli Stati Uniti, è stato individuato un altro caso di reinfezione, dove la seconda volta il covid-19 ha dato sintomi più gravi della prima, riporta la rivista scientifica Nature. In entrambi i casi le analisi sul genoma virale, fatte sia al primo contagio sia al secondo, hanno rivelato delle differenze nella sequenza virale: dimostrerebbero che per l’appunto si trattava di infezioni diverse e non, come capita, della stessa infezione riemersa. Gli scienziati si aspettano che i casi di reinfezione aumentino nei prossimi mesi, ma sperano di capire meglio se la memoria immunologica aiuta a combattere l’infezione in modo efficace. In ogni caso, sottolinea Nature, la possibilità di reinfettarsi non vanifica gli sforzi per trovare un vaccino: ci sono vaccini che, per esempio, hanno bisogno di essere somministrati in più dosi per proteggerci da una malattia.
Queste incertezze rendono ancora più necessari studi ampi e precisi sui vaccini: al momento è difficile sapere se i risultati delle prime sperimentazioni porteranno nella pratica a una protezione sufficiente.
Nel frattempo sono state riportate alcune presunte reinfezioni: delle persone, a quanto pare, hanno contratto il covid-19 una seconda volta e risultano di nuovo positive dopo mesi in buona salute. Questi casi sono preoccupanti, ma difficili da interpretare. L’rna virale, il materiale genetico individuato dai test, può rimanere a lungo in circolazione e le persone possono risultare positive per mesi dopo aver eliminato il virus. Se una persona in una situazione simile prendesse l’influenza, andasse dal medico e fosse costretta a sottoporsi nuovamente al test per il covid-19, potrebbe risultare positiva e la sua malattia potrebbe essere scambiata per un caso di reinfezione. “È davvero difficile dimostrare una reinfezione, a meno che non sia stato sequenziato il genoma del virus entrambe le volte”, dice Iwasaki.
Per alcune malattie, come la varicella e il morbillo, l’immunità dura tutta la vita, ma per altre prima o poi si esaurisce. Se la pandemia continuerà, dovremo aspettarci che persone già contagiate dal covid-19 affrontino la malattia una seconda volta. Finora il fatto che le reinfezioni non siano sistematiche fa pensare che “la loro percentuale sia molto bassa, se non nulla”, dice Cobey. Ma ricorda che la pandemia più si diffonde più diventa imprevedibile. Quando ci troviamo davanti a milioni di casi confermati, qualcosa che si verifica solo lo 0,1 per cento delle volte interessa comunque migliaia di persone.
Se un individuo ha un secondo incontro con il sars-cov-2, non sappiamo cosa succede. Per alcune malattie, come la dengue, la risposta degli anticorpi può, in modo controintuitivo, rendere più grave l’infezione successiva. Per ora non ci sono prove che succeda anche con il covid-19, afferma Krammer, secondo cui le reinfezioni saranno più lievi. Perché il nuovo coronavirus ha un tempo d’incubazione più lungo, una finestra di tempo più ampia tra infezione e sintomi rispetto, per esempio, all’influenza. Questo potrebbe teoricamente garantire più tempo alle cellule memoria per mobilitare un nuovo esercito di anticorpi e linfociti T.
Quanto a lungo
A determinare il nostro rapporto futuro con il virus sarà la durata dell’immunità protettiva. Nel caso di coronavirus violenti come quelli che causano la mers e la sars, è di almeno un paio d’anni. Per i coronavirus meno aggressivi, come quelli che causano il raffreddore comune, un anno. È ragionevole supporre che la durata dell’immunità al sars-cov-2 rientri in questi parametri e che varierà molto.
La maggior parte delle persone non è ancora stata contagiata la prima volta, figuriamoci la seconda. L’attuale incertezza sul nostro futuro pandemico “non è legata alla risposta immunitaria”, dice Cobey, ma “alle politiche che saranno adottate e al rispetto del distanziamento e dell’uso delle mascherine”.
Il virus potrebbe causare epidemie annuali. Potrebbe continuare a circolare fino a quando un numero sufficiente di persone sarà stato vaccinato o contagiato, e poi scomparire. Potrebbe rimanere in agguato per anni e poi improvvisamente tornare. Tutti questi scenari sono possibili, ma la gamma di possibilità si restringerà se impareremo più cose sul sistema immunitario.
È un sistema estremamente complesso, ma anche efficiente e resiliente, dal quale la nostra società potrebbe trarre lezioni importanti. Si prepara in anticipo e impara dal suo passato. Ha molte riserve nel caso in cui uno dei suoi strumenti di difesa fallisca. Agisce velocemente, ma è dotato di una serie di meccanismi per evitare reazioni eccessive. In generale, funziona. Nonostante il gran numero di infezioni che ci minacciano, la maggior parte di noi non è ammalata per la maggior parte del tempo. “È un sistema complicato”, conclude Iwasaki. “E proprio per questo bellissimo”. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1376 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati