Candy Crush Saga è un gioco in cui bisogna spostare delle caramelle colorate con una musichetta allegra in sottofondo. Quando ne mettete in fila tre o più dello stesso tipo, le caramelle scoppiano e scompaiono. Il punteggio aumenta e una nuova cascata di caramelle riempie lo schermo. Se tutto va bene, completate un livello. Una calda voce maschile vi dà il suo incoraggiamento in inglese: Divine! Sweet !

La versione per iPhone di Candy Crush è uscita a novembre del 2012, un mese dopo è uscita quella per Android. A dicembre del 2013, la Bbc ha raccontato in un servizio che i treni a Londra e in altre grandi città erano pieni di pendolari “con una sola fissazione: far scomparire file di gelatine rosse o di pastiglie all’arancia”. Candy Crush è sempre stato gratis ed è stato scaricato più di cinque miliardi di volte, il che vuol dire che ci hanno giocato centinaia di milioni di persone. Oggi i giocatori sono più di duecento milioni, secondo lo studio anglosvedese King, che ha creato il gioco. Nessuno di loro arriverà alla fine, almeno non in tempi brevi: Candy Crush ha più di quindicimila livelli, e ogni settimana se ne aggiungono decine in più.

Come si fa a fare soldi con un gioco – non per forza tanti soldi, ma almeno abbastanza da ripagare i costi di sviluppo – se è gratis, come lo sono quasi tutti i giochi per smart­phone?

Candy Crush è un grande affare. Alla fine del 2023 aveva fatto incassare più di 20 miliardi di dollari alla King e alla Activision Blizzard, la multinazionale dei videogiochi che nel 2016 ha comprato la King per 5,9 miliardi. La Activision Blizzard è stata a sua volta comprata dalla Microsoft per 69 miliardi di dollari.

Come si fa a fare soldi con un gioco – non per forza tanti soldi, ma almeno abbastanza da ripagare i costi di sviluppo – se è gratis, come lo sono quasi tutti i giochi per smart­phone? Candy Crush è più complicato di quello che sembra. Prima o poi si resta temporaneamente senza “vite”, e a quel punto è difficile resistere alla tentazione di spendere una piccola somma per continuare a giocare o per aumentare le proprie future possibilità di vittoria. Io ho capitolato già alla mia seconda partita. C’era un’offerta a metà prezzo per un abbonamento settimanale a 99 centesimi di sterlina. Ho spinto il bottone, mi sono ritrovato sull’App Store della Apple, che ha in memoria la mia carta di credito, e ho chiuso l’acquisto con la mia impronta digitale.

Molti utenti di videogiochi come Candy Crush non si fanno tentare facilmente come me. L’esperto di economia delle app e strategia di comunicazione Eric Seufert mi ha detto che, tipicamente, “tra il 95 e il 97 per cento degli utenti che partecipano a un gioco non monetizzano mai” cioè, in sostanza, non pagano. Se il gioco è abbastanza popolare, significa comunque avere centinaia di migliaia di giocatori che spendono. Attirare chi è disposto a spendere, quindi, è una parte fondamentale di quella che gli addetti ai lavori chiamano poco romanticamente “acquisizione degli utenti”. Molti, come me, spenderanno piccole somme e solo una volta ogni tanto. I giocatori più pregiati sono i grandi spenditori, chiamati in gergo “balene”. Poiché su Candy Crush l’obiettivo fondamentale è mettere in fila almeno tre oggetti, nel settore viene definito un gioco “match 3” (abbinamento di tre). Una “balena match 3” è un giocatore che spende decine di dollari al mese su uno o più di questi giochi. Basta trovare un numero decente di balene per garantirsi una buona fonte di reddito.

Le classifiche dei giudizi e dei download totali, il passaparola, le recensioni favorevoli dei giornalisti specializzati, le raccomandazioni degli influencer più importanti e l’eco generale dei social media sono tutti elementi che possono portare nuovi giocatori. Ma per costruire una grande base di utenti di solito serve una campagna pubblicitaria su vasta scala, meglio se sui social media come TikTok, Snapchat, Face­book o Instagram. Il posto più ovvio per fare pubblicità a un gioco, però, è un altro gioco. Io mi sono convertito tardi ai piaceri dei giochi per smart­phone. Fino a pochi mesi fa nessuna pubblicità, neanche la più accattivante, mi avrebbe convinto a scaricare un gioco. Ma chi sta già giocando sul telefono, è a priori un potenziale target. Più nello specifico, se sto giocando a un gioco match 3, perché non cercare di farmi scaricare un altro gioco match 3? Provarlo non mi costa niente, e magari scopro che mi piace di più perché è leggermente diverso, o per le immagini, i colori e la musica. Esiste un sistema collaudato per farmi guardare un video pubblicitario mentre sto giocando: darmi un vantaggio all’interno del mio gioco come premio per averlo guardato.

Quale pubblicità viene mostrata e quanto spesso dipende semplicemente da quanto l’inserzionista è disposto a pagare e, come mi ha detto un manager del settore, i proprietari dei videogiochi “sono disposti a pagare moltissimo – più di quanto farebbe un inserzionista per un altro tipo di prodotto – perché è così che fanno aumentare le installazioni”. Di conseguenza, spiega Seufert, “nella stragrande maggioranza dei casi gli annunci mostrati nei giochi sono annunci di altri giochi”. A volte, la pubblicità è a sua volta un gioco, un breve campione della versione completa. È però una forma di pubblicità molto costosa, e a quanto mi dicono ultimamente sta passando di moda.

“Io compro utenti da te, tu compri utenti da me, si genera un sacco di ricavi ma in realtà, alla fine, tutto viene un po’ vanificato dal fatto che siamo semplicemente comprando l’uno dall’altro”, dice Seufert. Il manager che ho citato poco fa mi ha detto che c’è una “tensione di fondo” nel fare soldi con le pubblicità di altri giochi: “Possono essere dei concorrenti, e questo non conviene” perché possono “prendersi i tuoi giocatori”. Quasi tutte le pubblicità sui giochi per smart­phone si vendono attraverso sistemi di offerte automatizzati e non in trattative di persona, perciò, non è facile bloccare annunci indesiderati. Se un concorrente “è abbastanza determinato, può sicuramente piazzare un annuncio all’interno del tuo gioco”.

Secondo uno studio, tuttavia, può essere difficile dire di no alle entrate assicurate dalla pubblicità. Non a caso, esistono giochi “ipercasuali”, relativamente rudimentali, che a quanto mi dicono si finanziano solo mostrando annunci pubblicitari di altri giochi. Come spiega un altro esperto del settore, la giustificazione è che “si fanno un po’ di ricavi con la pubblicità e poi li si spendono per acquisire utenti per il gioco. La speranza è quella di lasciar andare solo i giocatori meno redditizi, ma non sono sicuro che sia un metodo molto scientifico”.

Christian Dellavedova

I meccanismi della pubblicità dei giochi, delle app e di altri prodotti per i telefoni ci dicono molto dell’economia digitale. Nell’economia materiale, alcune aziende fanno pubblicità semplicemente per tirare a lucido l’immagine del marchio agli occhi dei consumatori: le case automobilistiche vogliono che c’interessiamo alle loro auto, ma non si aspettano che ne compriamo una all’istante. Buona parte della pubblicità sui telefoni, invece, è studiata per ottenere una “risposta diretta”: un obiettivo immediato, o “conversione” sotto forma di un acquisto, un’iscrizione, un abbonamento o l’installazione di un gioco.

Il lavoro di uno studio di progettazione di giochi, però, non finisce quando qualcuno ne installa uno sul telefono. La preoccupazione principale, con ogni probabilità, è il “valore nel tempo” del giocatore, cioè i ricavi totali che porterà, che devono essere maggiori del costo della pubblicità che lo ha convinto a scaricare il gioco. Ci sono una serie di “azioni sulle app”, come vengono chiamate, che lo studio controllerà da vicino. Quante persone installano il gioco ma abbandonano prima di finire il tutorial? Quanti continuano a giocare almeno fino al livello 5? Soprattutto, quanti di loro fanno acquisti mentre giocano? E se lo fanno, quando, come e quanto spendono? Gli inserzionisti di questo genere di pubblicità non possono permettersi di aspettare troppo a lungo che il valore nel tempo si manifesti: vogliono massimizzare l’efficacia della pubblicità in tempo reale. Come dice uno specialista della pubblicità digitale, “le aste per le inserzioni sono gestite dall’apprendimento automatico, che dice ‘questo segmento sta funzionando, offri di più qui’. E così s’innesca una serie di cicli d’investimento”.

L’ottimizzazione tramite apprendimento automatico è un servizio che offrono tutti gli operatori della pubblicità digitale, ma i primi a farlo sono Google e la Meta. Ho fatto un corso online organizzato da Seufert, e un’intera sessione era dedicata alla pubblicità sulle due grandi piattaforme della Meta, Face­book e Instagram. La Meta permette di specificare con precisione strabiliante cosa volete che i suoi sistemi di pubblicità ottimizzino per voi. L’obiettivo più ovvio sarebbe semplicemente far installare un gioco o un’altra app. Nel 2016, Face­book ha introdotto l’“ottimizzazione dell’azione su app”, che indirizza la pubblicità in modo da convincere a installare il gioco soprattutto i giocatori che, secondo i suoi sistemi, faranno il tipo di azione a cui volete dare priorità, per esempio comprare l’app. Oppure si possono provare a massimizzare i ricavi totali che porteranno i giocatori. È quella che la Meta chiama “ottimizzazione del valore”. Può essere costosa, ma è la tecnologia che vi serve se andate a caccia di balene.

Come in quasi tutta la pubblicità digitale, le aste determinano quali annunci saranno mostrati a quali utenti, ma non spetta a voi il difficile compito di capire quanto offrire. Specificate il vostro obiettivo, il vostro budget e magari il “ritorno minimo sulla spesa pubblicitaria” per voi accettabile, e la Meta piazzerà le offerte sulle sue aste al posto vostro. Seufert spiega com’è cambiata la pubblicità su Face­book. Nel 2015 o giù di lì lui e i suoi colleghi avrebbero organizzato delle riunioni per discutere a quali target indirizzare le campagne pubblicitarie su Face­book: “Magari dovremmo provare gli appassionati di auto, perché stiamo cercando di raggiungere gli uomini. Forse dovremmo puntare quelli che hanno messo ‘like’ alla pagina di Bruce Willis perché è una star dei film d’azione. Facevamo così”. Oggi, l’apprendimento automatico sempre più avanzato di Face­book ha reso queste discussioni una perdita di tempo. “Face­book ha sostanzialmente internalizzato tutto e ora basta dargli in pasto degli input, per esempio diverse versioni di annunci pubblicitari per testare quali sono più efficaci. Le cose che si facevano prima non contano più niente”. Il mestiere del pubblicitario è diventato “alimentare la macchina della sperimentazione”.

Una grande piattaforma per la pubblicità digitale come Face­book o Google è come un iceberg, dice Seufert. In superficie si vedono le caratteristiche degli utenti su cui tendono a concentrarsi gli inserzionisti, per esempio l’età, il genere e gli interessi, come la passione per le auto. Sotto il pelo dell’acqua, nascosta agli occhi degli inserzionisti e troppo ricca per poter essere decifrata dagli esseri umani, c’è la vasta massa di dati in possesso della piattaforma. Sono questi che rendono l’ottimizzazione della pubblicità attraverso l’apprendimento automatico molto più efficace del sistema tradizionale.

Le implicazioni del concetto di iceberg vanno ben oltre la pubblicità dei giochi. Una delle persone più interessanti che ho intervistato sulla pubblicità digitale ha un’azienda che vende sari (abiti tradizionali indiani) fatti a mano, era fortemente impegnata nella salvaguardia dell’artigianato locale ed era molto critica verso i colossi della tecnologia. Poi si è accorta che il suo mercato principale sono i bramini tamil dell’India e della diaspora, ma non esiste una lista di clienti di questo tipo su cui lavorare. Face­book e Google “non hanno una classificazione che dice ‘bramini tamil’”. Eppure, “usando i dati dei clienti che avevano comprato da me in passato, Google e Face­book sono riusciti a trovarli. I miei clienti cercano ricette da fare in mezz’ora, notizie su Bolly­wood, notizie sul cinema tamil. Ho capito che devo fidarmi della macchina perché in questo è più efficace di me”.

La macchina, ovviamente, non ha una morale. Ottimizza per raggiungere il numero di “conversioni” che le vengono richieste, quali che siano: installazioni di Angry Birds; vendite di sari fatti a mano dalle donne dei villaggi; elettori che s’iscrivono per assistere a un comizio di Donald Trump. La gente che ha simpatie politiche simili alle mie spesso ama pensare che la spiegazione della vittoria di Trump nel 2016 o il risultato del referendum sulla Brexit sia un’astuta opera di microtargeting di consulenti politici che si servono di piattaforme come Face­book, magari finanziati da soldi russi o informati dai dati psicometrici della Cambridge Analytica. Ian Bogost e Alexis Madrigal, in un articolo pubblicato sull’Atlantic nell’aprile del 2020, avanzano un’ipotesi più convincente, cioè che il successo online della campagna di Trump nel 2016 è stato semplicemente il risultato delle procedure standard di ottimizzazione tramite apprendimento automatico di Face­book.

Gli spot di Trump erano banali, ma spesso, invece di provare a difendere le posizioni del candidato, invitavano a compiere un’azione specifica: “Compra questo cappello, firma questa petizione, partecipa a questo comizio”. Studiando le pubblicità per un comizio di Trump a Milwaukee del gennaio 2020, Bogost e Madrigal non hanno trovato particolari indizi di targeting su specifici gruppi demografici. Hanno invece rilevato che la campagna elettorale di Trump, come il nostro rivenditore di sari, ha cominciato a usare Face­book dopo aver fornito alla piattaforma una lista di persone che avevano già fatto qualcosa – per esempio lasciare un indirizzo email o un numero di telefono – che faceva pensare che fossero sostenitori di Trump. L’apprendimento automatico, a quel punto, comincia a cercare dei “sosia”: persone che somigliano a quegli utenti. Ma questa ricerca della somiglianza va ben oltre le caratteristiche che agli occhi di un sociologo politico influenzano le preferenze di voto. Il sistema sfrutta tutta la parte sommersa dell’iceberg di dati. Bogost e Madrigal dicono che “una fonte vicina alla campagna di Trump nel 2016” ha rivelato che questo uso di Face­book è stato ispirato dall’ottimizzazione dell’acquisizione degli utenti tramite apprendimento automatico dello studio Machine Zone. Ma questo particolare modello forse non era nemmeno necessario: nel 2016 i metodi analizzati dai due studiosi stavano diventando lo standard per quelli che avevano capito come l’apprendimento automatico stava cambiando la pubblicità.

Christian Dellavedova

La parte sommersa dell’iceberg è enorme, ma sfruttarne tutte le potenzialità per ottimizzare le campagne pubblicitarie significa ordinare i dati al suo interno. La questione cruciale è quella che gli addetti ai lavori chiamano “risoluzione dell’identità”: la capacità di capire, in modo automatico e con un certo grado di esattezza, se due o più tracce di dati spesso molto diverse tra loro sono riconducibili alla stessa persona. Nella pubblicità sui telefoni, la risoluzione dell’identità si riduce a una cosa apparentemente semplice: se le tracce di dati passano dallo stesso telefono o no. Nei primi tempi non era difficile. Ogni smart­phone, sia Apple sia Android, aveva un numero identificativo unico, che il proprietario del telefono non poteva modificare o cancellare, e che era visibile alle app installate sul dispositivo e alle reti pubblicitarie che ci mostravano annunci. La Apple diceva agli sviluppatori di non “trasmettere i dati di un utente senza prima ottenerne il consenso”, ma non c’erano barriere tecniche insormontabili. Le app per smart­phone facevano trapelare i dati, a volte su larga scala. “Le vostre app vi stanno guardando”, avvertiva il Wall Street Journal nel dicembre 2010.

In quegli anni, gli utenti preoccupati per la riservatezza eliminavano sistematicamente i cookie, stringhe di cifre uniche per ogni utente che i siti web e gli inserzionisti depositano nei browser dei computer. Anche se i cookie sono una tecnologia non disponibile per le app sui telefoni, la Apple ha deciso di fornire ai possessori di iPhone una funzionalità equivalente all’eliminazione dei cookie. Ma non era ancora pronta a togliere agli inserzionisti un modo attendibile di capire di chi era un telefono. Nel 2012 la Apple ha cominciato a negare alle app e alle reti pubblicitarie l’accesso al codice identificativo dei telefoni, mettendo però a disposizione un identificatore per inserzionisti di 32 cifre (Identifier for advertisers, Idfa), che identifica in modo univoco un determinato dispositivo ma che può essere modificato ogni volta che il proprietario lo desidera. Nel 2016, la Apple ha dato agli utenti degli iPhone la possibilità di azzerare i loro codici d’identificazione: in questo caso, quando una rete pubblicitaria o un’app chiede al telefono il suo Idfa, riceve in risposta un’inutile stringa di 32 zeri. Google ha introdotto un codice simile, il Google advertising identifier (Gaid), che i proprietari dei telefoni Android possono cancellare più o meno nello stesso modo. Ma la maggior parte degli utenti, me compreso, non sono abbastanza esperti per modificare o cancellare l’Idfa o il Gaid del loro telefono. In pratica, quindi, questi sistemi non sono molto diversi dai codici d’identificazione permanenti che hanno sostituito.

Uno specialista delle tecnologie per la pubblicità mi ha detto che la Apple ha introdotto l’Idfa “per permettere agli inserzionisti di continuare ad assegnare le campagne pubblicitarie a un’app, avere un ritorno misurabile sull’investimento e fare pubblicità in modo efficace”. Ma il modo sistematico con cui gli Idfa sono stati usati per collegare dati diversi ha creato una serie di possibilità che probabilmente neanche la Apple aveva previsto. Ha reso possibile “una profilazione inequivoca del target. Sanno che usi Deliveroo per ordinare cucina cinese o vietnamita il sabato, sanno che usi Tinder… questi stronzi sanno tutto”.

Quindi se un Idfa è associato, per esempio, ad acquisti ripetuti su un gioco match 3 e durante il gioco compare la pubblicità di un altro gioco simile che spinge l’utente a installarlo, è molto probabile che questo utente continuerà a spendere anche lì. Essere una balena vuol dire avere un comportamento ripetitivo: è improbabile che smetta di spendere quando cambia gioco. E una rete pubblicitaria che opera per conto di diversi inserzionisti avrà raccolto un’enorme quantità di Idfa e Gaid associata a un’enorme quantità di azioni fatte sullo stesso telefono. In questo modo comincia a vedere la struttura nella parte sommersa dell’iceberg, e l’efficienza della pubblicità aumenta moltissimo.

Se le interazioni degli utenti non portano un numero sufficiente di Idfa, ci sono modi per procurarsene di più. Le reti pubblicitarie, per esempio, offrono un costo fisso per ogni installazione agli studi di progettazione dei giochi. Spesso, però, vogliono qualcosa in cambio. Mostrare annunci a utenti che hanno già installato un determinato gioco è uno spreco di denaro. Perciò, la rete pubblicitaria chiede in cambio un elenco degli Idfa o dei Gaid di tutti gli utenti del gioco, che diventa una risorsa importante per fare pubblicità ad altri giochi simili.

“Chi ha più dati vince”, osserva lo specialista. Il modo in cui gli Idfa sono stati usati per accumulare dati e sviluppare funzionalità di previsione, targeting e ottimizzazione degli annunci “ha fatto incazzare la Apple”: la riservatezza degli utenti è un argomento di vendita chiave dell’iPhone. Alla conferenza mondiale degli sviluppatori del giugno 2020, la Apple ha annunciato una nuova politica sulla privacy, la App tracking transparency (trasparenza sul tracciamento delle app, Att). È entrata in vigore nell’aprile 2021 e mette dei limiti all’uso degli Idfa da parte delle app.

Quando si installa un’app per la prima volta appare una schermata, un “prompt”, che chiede il consenso dell’utente a tracciare tutta la sua attività sullo smart­phone. Se sulla schermata premete “rifiuta”, l’app non è autorizzata a penalizzarvi limitando le funzionalità disponibili. La vostra scelta è registrata nel sistema operativo del telefono, e se l’app in questione chiede al telefono l’Idfa, il sistema operativo fa in modo che arrivi una stringa di 32 zeri.

Solo una minoranza di possessori di iPhone, più o meno un quinto, sceglie di dare il consenso al tracciamento. Ma non è tutto. Mettiamo che un inserzionista voglia verificare se un telefono su cui è stata visualizzata la pubblicità di un gioco nella app A è anche il telefono che ha installato il gioco pubblicizzato, app B. In base alle regole della Apple, l’unico modo per fare il collegamento è se il proprietario del telefono seleziona “accetta” sia sulla app A sia sulla app B. Se solo un quinto dei possessori di iPhone ha dato il consenso al tracciamento sull’app A, probabilmente il numero di quelli che danno il consenso su entrambe le app sarà ancora più basso. In mancanza di un Idfa o di qualcosa che lo sostituisca, tutto ciò che rimane agli inserzionisti è una lunga lista degli annunci mostrati (probabilmente moltissimi) e un’altra lista delle installazioni del gioco o degli acquisti del prodotto pubblicizzato. Collegare le due liste per misurare e ottimizzare l’efficacia di un’inserzione non è per niente facile.

Se parlate con le persone che lavorano nella pubblicità digitale sentirete una serie di congetture, spesso ostili, sui motivi che hanno spinto la Apple a quella scelta. L’ostilità è dovuta al fatto che le restrizioni all’uso degli Idfa mettono in pericolo il metodo più efficace per interpretare gli iceberg di dati. La Apple ha potuto tirare dritto perché ha un “potere infrastrutturale”, una definizione coniata dal sociologo Michael Mann nel 1984 che si riferisce al potere che un soggetto, o un sistema da lui controllato, può esercitare grazie al fatto che è necessario ad altri soggetti o ai loro sistemi.

Gli ingegneri della Apple scrivono iOS, il sistema operativo che controlla tutti gli iPhone. Tutte le app per iPhone girano su iOS e alcune regole della nuova politica sulla privacy sono direttamente incorporate nel sistema, quindi è difficile aggirarle. Se un’app infrange le regole, rischia la sanzione potenzialmente catastrofica di essere esclusa da un’altra parte cruciale dell’infrastruttura, l’App Store della Apple. Nel mondo ci sono più utenti di Android che di iOS, ma i proprietari degli iPhone sono tendenzialmente più ricchi quindi hanno più soldi da spendere per gli acquisti, e al momento la maggior parte di loro può installare app solo attraverso l’App Store (la situazione è cambiata nell’Unione europea dopo l’approvazione della legge sui mercati digitali, ma è probabile che la maggior parte dei proprietari di iPhone nell’Unione continuerà a usare l’App Store).

La risposta di Face­book alle nuove restrizioni della Apple agli Idfa è stata una dimostrazione esemplare dell’efficacia del potere infrastrutturale. All’inizio ha protestato con forza: a dicembre del 2020 ha addirittura pubblicato un annuncio a tutta pagina sul Financial Times e sul New York Times in cui ha definito la nuova linea “devastante per le piccole imprese” perché metteva a rischio la “capacità di fare annunci personalizzati e raggiungere in modo efficace i clienti”. Da più di dieci anni, però, gli utenti interagiscono con Face­book soprattutto via telefono quindi, in pratica, Face­book è un’app per telefono. E anche Instagram, con l’aggiunta che i suoi utenti più attivi tendono a preferire gli iPhone. Il mancato rispetto della policy della Apple, dunque, avrebbe avuto effetti impossibili da valutare. “Non abbiamo altra scelta che mostrare il prompt della Apple”, ha detto all’epoca Dan Levy, uno dei vicepresidenti di Face­book. “Se non lo facciamo, toglieranno Face­book dall’App Store”.

Senza l’accesso a questa enorme quantità di dati Face­book ha perso miliardi di dollari, con ripercussioni su tutte le forme di pubblicità sulla piattaforma. All’epoca altri fattori stavano facendo precipitare le azioni delle aziende tecnologiche in borsa. Tra il settembre 2021 (quando gli effetti della nuova politica della Apple hanno cominciato a farsi sentire) e l’ottobre 2022, il valore del titolo di Face­book/Meta era sceso da 352 a 93 dollari.

Oggi, però, si è abbondantemente ripreso, spinto dall’entusiasmo degli investitori per l’intelligenza artificiale e da un’efficace “riconversione” delle attività di targeting e misurazione di Face­book. Ai giochi per smart­phone è andata meno bene. La crescente difficoltà (e quindi anche il costo) di trovare balene e altri utenti che “monetizzano” ha raddoppiato o triplicato i costi di lancio di un gioco, mi ha confidato un esperto. E il conseguente crollo dei ricavi pubblicitari, dice Seufert, ha avuto un impatto negativo sull’economia dei giochi ipercasuali, totalmente dipendenti dalla pubblicità. La crescita del settore dei giochi informatici è drammaticamente rallentata, con grandi perdite di posti di lavoro: 10.500 a livello globale nel 2023, e cinquemila nel solo mese di gennaio del 2024.

Negli ultimi due anni, l’aperta polemica scatenata dalla nuova politica sulla privacy della Apple è gradualmente rientrata, sostituita da una battaglia sotterranea per la conoscenza delle azioni che l’utente compie quando usa il telefono. È un conflitto tra due modi diversi di misurare l’efficacia delle pubblicità. Il primo è il meccanismo preferito dalla Apple, lo Store kit ad network (Skan), che l’azienda offre gratuitamente alle reti pubblicitarie e agli inserzionisti. Il vostro iPhone ha un ruolo attivo nello Skan: i dati fondamentali per la misurazione e l’ottimizzazione della pubblicità, come il numero di volte che cliccate su un annuncio, non sono conservati in un server esterno ma nella memoria del telefono.

L’accesso ai dati non è consentito per 24 ore dal momento dell’attivazione, più un periodo variabile che può arrivare fino a ulteriori 24 ore: l’obiettivo è impedire di usare l’orario esatto per incrociare gli annunci con le azioni successive come gli acquisti all’interno di un’app o le installazioni. Una volta trascorse le 24 o 48 ore, i dati sono inviati dal vostro telefono all’inserzionista o alla rete pubblicitaria interessati attraverso un server della Apple che assicura la protezione di quello che l’azienda chiama “anonimato della folla”, un concetto che scalda il mio cuore di sociologo. In sostanza, significa controllare che nei dati non ci sia nulla che spicca così tanto – per esempio, un acquisto insolitamente costoso – da rendere il vostro telefono distinguibile da una folla almeno moderatamente grande di altri telefoni. Come spiega Seufert, è possibile sapere se una campagna ha convinto qualcuno a installare un’app, ma il sistema della Apple di fatto dice: “Non ti dico chi l’ha fatto”.

La tutela dell’anonimato della folla della Apple è un’inversione sorprendente della traiettoria generale della pubblicità digitale, che finora ha puntato su annunci su misura per specifici segmenti di pubblico, e in ultima analisi per singoli individui, invece di un target intrinsecamente generalista, per esempio quello dei programmi televisivi tradizionali. Google sta sviluppando un sistema simile, l’Android privacy sandbox.

Il secondo metodo per misurare l’efficacia degli annunci pubblicitari tenta di mantenere la possibilità che l’inserzionista conosca tutte le azioni dell’utente. Dato che gli Idfa non sono quasi più disponibili, si usano gli indirizzi ip (internet protocol). L’ip non è un vero sostituto dell’Idfa: quando il vostro telefono è collegato a internet tramite una rete telefonica, può condividere l’indirizzo ip locale della rete con centinaia o migliaia di altri telefoni, e questa è di per sé una forma di anonimato. Quando però il vostro telefono è collegato al wifi di casa vostra, l’indirizzo ip è quello. A quel punto la folla si restringe molto: sono i dispositivi che usano lo stesso router in casa vostra. Ho chiesto a uno del miei contatti se la caccia alle balene è andata avanti dopo le novità introdotte dalla Apple. Mi ha detto di sì, anche se ora è meno precisa. “Prima sapevano che io ero una balena match 3”, ha detto, “ma sapevano anche che mia moglie non lo era e che gli iPad dei miei due figli non lo erano. Ora sanno solo che a casa mia c’è una balena match 3”. Con l’aggiunta di altre informazioni potenzialmente disponibili, per esempio il modello del telefono e la versione del sistema operativo installato, la folla può restringersi di nuovo.

Per questi motivi, l’uso degli indirizzi ip per misurare l’efficacia della pubblicità suscita polemiche. Tre persone bene informate mi hanno detto che è un metodo molto diffuso, ma che dall’esterno è difficile sapere se è più o meno efficace di altri, come lo Skan della Apple o il tracciamento dei pochi utenti che hanno acconsentito alla sua attivazione. C’è però un’altra questione: il tempo. Se usate solo lo Skan dovete aspettare fino a 48 ore perché vi arrivino i dati, e anche di più se non vi accontentate di informazioni semplici come, per esempio, il fatto che c’è stata una installazione. Se invece riuscite a procurarvi in autonomia i dati che vi servono (gli indirizzi ip, per esempio) potete continuare a ottimizzare la pubblicità in tempo reale.

Tutto questo è previsto dalle regole della Apple? L’App Store dice agli sviluppatori che non devono “ricavare dati da un dispositivo con lo scopo d’identificarlo in maniera univoca”. Uno dei miei informatori, tuttavia, dice che chi usa gli indirizzi ip come input per i propri sistemi di apprendimento automatico interpreta “identificare” come “identificare in modo continuato e specifico”, cosa che un indirizzo ip non fa. E la Apple non può comunque “azzerare” gli indirizzi ip degli iPhone, perché sono il mezzo con cui i pacchetti d’informazioni su internet vengono inviati alla destinazione corretta.

La Apple potrebbe oscurare gli indirizzi ip degli iPhone cifrandoli e instradandoli attraverso un sistema a staffetta (relay system). Se andasse oltre e oscurasse completamente le operazioni di tutti gli iPhone del pianeta, incontrerebbe con ogni probabilità la forte opposizione dei governi, a partire dalla Cina, un mercato molto importante per gli iPhone. Questa strada comporterebbe anche molta più potenza di calcolo e un aumento del traffico, con il rischio di far lievitare il consumo energetico e le emissioni di CO2, già alte, di internet.

Tensioni come queste condizionano il nostro modo di accostarci all’economia digitale. Vogliamo la riservatezza, ma vogliamo anche informazioni e intrattenimento gratis, e spesso la sostenibilità economica di questo modello dipende dalle pubblicità mirate. Ci entusiasmiamo di fronte alle possibilità dell’intelligenza artificiale applicata su vasta scala, con il relativo dispendio di elettricità, ma sappiamo anche che dobbiamo ridurre le emissioni. Apprezziamo i servizi all’avanguardia e gli ambienti digitali protetti delle grandi aziende tecnologiche ma vogliamo anche aprirli a una sana concorrenza.

La domanda è se la ricerca di un equilibrio tra queste priorità debba rimanere solo nelle mani del settore privato. Un’avvisaglia di ciò che potrebbe avvenire in futuro è l’attuale ruolo della Competition and markets authority, l’autorità garante per la concorrenza del Regno Unito, che vigila sull’eliminazione graduale da parte di Google di un altro meccanismo centrale della pubblicità digitale – il tracciamento degli utenti sui siti web attraverso l’uso dei cookie – e la sua sostituzione con la privacy sandbox di Google Chrome, il browser più usato al mondo. Le preoccupazioni sulla concorrenza che hanno circondato Google, e il timore che il cambiamento possa rafforzare la sua posizione dominante, hanno portato a un accordo vincolante tra l’azienda e la Cma. Di fatto, l’accordo dà alla Competition and markets authority il potere di bloccare l’installazione della sandbox se vedesse elementi che avvantaggiano indebitamente Google.

Questo esperimento di politica pubblica avrà conseguenze globali (le novità introdotte da Google non si limiteranno al Regno Unito) ed è diventato più complicato dal luglio 2023, quando Google, inaspettatamente, ha annunciato che invece di eliminare gradualmente i cookie di tracciamento intende dare agli utenti di Chrome la possibilità di una “scelta informata”. È giusto che sia così. Spesso c’è una tensione tra la tutela della privacy e la promozione della concorrenza, ma un equilibrio tra le due è possibile, e una politica intelligente può aiutare a trovarlo. ◆ fas

Donald MacKenzie è un sociologo di scienza e tecnologia britannico. È professore alla University of Edinburgh, in Scozia. Questo articolo è uscito sul giornale letterario britannico London Review of Books con il titolo “Hey big spender: what your smart­phone knows about you”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1612 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati