Era la mattina del 3 agosto 2020 quando Stanko Cvetković è stato arrestato sulle montagne accanto al lago Livadh, a 2.173 metri di altitudine. A Stanko è capitato spesso di passare giornate intere sui monti Šar, selvaggi e bellissimi: prima di stabilirsi nella cittadina di Štrpce viveva in montagna e faceva il guardiano di pecore. Ora fa il postino. La sua capanna di legno si trova nel bel mezzo di un prato rigoglioso ai piedi dei monti, poco più in alto della località di Obe Reke, dove i torrenti Kaludjerka e Bolovanka si uniscono per poi gettarsi nel fiume Lepenci.
Per un anno e mezzo prima dell’arresto, la sua casa era diventata un rifugio per la gente della zona che si batte contro la devastazione dei fiumi del Kosovo.
Quel 3 agosto la sua roccaforte è stata violata. “A un certo punto ho ricevuto una telefonata. Volevano sapere se Stanko era stato davvero arrestato”, racconta la moglie Elizabeta, che aveva passato la mattina a raccogliere lamponi.
La notizia l’ha colta di sorpresa, ma Elizabeta sapeva benissimo il motivo dell’arresto. Perciò non è andata al comando di polizia, dove il marito è stato trattenuto e interrogato per ore, ma è corsa a casa, dove un bulldozer aveva già cominciato a scavare la strada per far passare, tra la loro capanna e il torrente Kaludjerka, macchinari, camion e tubature.
Per mesi, con la neve d’inverno e con il caldo d’estate, gli abitanti di Štrpce hanno difeso l’accesso a questa porzione di terra, di cui Stanko rivendica la proprietà. Sapevano che, una volta arrivati i bulldozer, delle enormi tubature sarebbero state posate lungo il letto del Kaludjerka per portare l’acqua alla nuova diga in costruzione nel parco nazionale dei monti Šar.
La posta in gioco era altissima.
Elizabeta è si è messa davanti alla gigantesca ruspa gialla e ha gridato all’operaio che la manovrava: “Ferma la macchina, adesso!”. La ruspa ha spostato il braccio. Senza arretrare di un passo, Elizabeta ha ripetuto le stesse parole. Alla fine gli operai se ne sono andati. La battaglia è andata avanti per un altro giorno.
Elizabeta ride pensando a quell’atto di resistenza, ma soffre, come tante altre persone, per la quotidiana distruzione del fiume. Proteggere i fiumi dall’industria idroelettrica non è semplice. Quest’energia, prodotta grazie alla forza della corrente dei corsi d’acqua, è considerata rispettosa dell’ambiente. Troppo spesso, però, la realtà è diversa. E lungo la valle tutti ormai si fanno la stessa domanda: cosa rimane di una casa quando anche l’acqua che scorre sotto il tuo terreno – la stessa acqua che fa crescere i frutti, che ti disseta e con cui ti lavi – ti viene portata via?
Prima della sconfitta
È una soleggiata mattina di settembre e nel villaggio di Biti e Poshtme, a pochi minuti di macchina da Štrpce, c’è un silenzio triste. Il fiume Lepenci scorre dolcemente, trascinando a valle, verso la Macedonia del Nord, cumuli di rifiuti di plastica e un cane morto.
L’ingresso principale al paese è un ponte. Lungo il corso d’acqua un sentiero in ghiaia a copertura delle tubature ha sostituito la macchia verde di alberi e arbusti che fino a poco tempo fa accompagnava il fiume.
Anche qui, come a Štrpce, la gente ha combattuto per difendere l’ambiente. La devastazione non è arrivata per mancanza di resistenza. Nell’ottobre del 2019 le immagini degli abitanti del villaggio picchiati dalla polizia, mentre cercavano di fermare le ruspe, si sono diffuse rapidamente su internet. A marzo del 2020, pochi giorni prima che la pandemia obbligasse tutti a rimanere in casa, le ruspe erano ancora bloccate all’altezza del ponte. Nel retrobottega del negozio di alimentari, accanto al campo di calcio e al vecchio lavatoio in pietra, la gente si scambiava le ultime notizie.
Nel piccolo spazio dietro agli scaffali l’aria è satura del fumo di sigarette e legna bruciata. In mancanza di un bar, è qui che hanno l’abitudine di riunirsi gli albanesi e i serbi del villaggio, appollaiati su divanetti, sgabelli e sedie davanti a una stufetta elettrica.
Edita Tahiri, 27 anni, laureata in economia, è la proprietaria del negozio. Insieme ai suoi parenti e ad altra gente del posto ha partecipato a tutte le manifestazioni e agli scontri con la polizia. E l’esperienza l’ha messa a dura prova, fisicamente e mentalmente. “Non riuscivo a dormire né a stare calma, rivivevo in continuazione tutto”, mi ha confessato Edita. Negli scontri del 2019 ha subìto lo schiacciamento di una vertebra lombare, e da allora prende dei farmaci per alleviare il dolore. “Se domani ci fosse una manifestazione, non so se andrei”, mi ha detto. “Sono spaventata”.
Le parole di Edita contrastavano con le ultime tracce di ottimismo della gente riunita nel retrobottega: per la loro battaglia in difesa del fiume gli abitanti di Biti avevano appena ricevuto il Premio democrazia dalla Fondazione per la società civile kosovara.
Dopo aver condiviso le barricate e le celle dei commissariati di polizia, albanesi e serbi hanno deciso di dividersi anche i cinquemila euro del premio per aiutare le rispettive comunità. Con quei soldi Agron Rushiti, 37 anni, laureato in giurisprudenza e con un lavoro in un’agenzia di assicurazioni, ha sistemato il piccolo cimitero del villaggio.
“Il ricordo più doloroso è quello dell’arrivo degli operai”, racconta Agron, alludendo all’inizio dei lavori, nel 2015. “Si sono presentati al villaggio direttamente con le ruspe. Pensavamo che fossero venuti a ripulire il fiume perché così ci avevano detto”.
Poi le cose hanno preso un’altra piega.
Nove mesi
Un giorno uno degli operai stava pranzando con una persona del posto. “Mi dispiace veramente per voi”, gli ha detto. “Siete delle brave persone, ma tutta quest’acqua finirà nelle tubature”.
Nel 2013 il ministero dell’ambiente di Pristina aveva dato il nulla osta ambientale all’azienda kosovara Matkos per la costruzione di cinque nuove centrali idroelettriche lungo il fiume Lepenci. Il progetto per l’impianto Hc Viça prevedeva la realizzazione di una diga in cemento nel centro di Štrpce e l’installazione di una conduttura accanto al Lepenci lunga cinque chilometri e collegata a una stazione idroelettrica a valle.
Secondo la normativa che regola questo tipo di progetti, l’azienda era obbligata a organizzare e a pubblicizzare due assemblee con la comunità locale. Stando a quanto racconta la gente del posto, tuttavia, a Biti nessuno ha saputo nulla dei dibattiti.
Ma questo non ha impedito al ministero di dare il via libera al progetto. L’autorizzazione definitiva alla costruzione della Hc Viça è stata rilasciata dall’ufficio per la regolamentazione dell’energia nel 2014. Poco dopo c’è stata la prima protesta dei residenti di Biti. Dall’inizio dei lavori, nel 2015, ci sono state circa duecento manifestazioni.
Da queste parti, quando si parla delle proteste, il nome di Agron spunta sempre fuori. Il suo reddito, come quello di molte altre famiglie che vivono nelle vicinanze del Lepenci e dei suoi affluenti, dipende dalle coltivazioni di mais e di frutti di bosco, come lamponi e mirtilli.
Ma qui il fiume non serve solo per irrigare: la sua acqua provvede anche al fabbisogno quotidiano delle famiglie. E i lavori per costruire le dighe e le centrali l’hanno resa fangosa e inutilizzabile. Molti temono perfino che in futuro il fiume possa prosciugarsi del tutto.
In Kosovo la battaglia per difendere i fiumi ha avuto pesanti ripercussioni sulla vita di chi l’ha combattuta. Il giorno del suo trentaseiesimo compleanno, il 16 agosto 2019, un gruppo di poliziotti aspettava Agron davanti a casa sua per interrogarlo sul suo ruolo nelle proteste.
Da quando sono cominciate le manifestazioni, molti residenti di Biti sono stati convocati al comando di polizia. Non solo a Štrpce, che è a pochi minuti di auto, ma anche a Ferizaj e a Pristina, a più di settanta chilometri di distanza. Chi non si presenta va incontro a conseguenze serie, come richiami, multe e perfino arresti. “Abbiamo subìto pressioni molto pesanti”, dice Agron. “E lo stress ti distrugge”.
Questa lotta non è solo una lotta contro la polizia, le aziende e le istituzioni, ma anche con la propria coscienza e la propria vita quotidiana.
In questo clima, nove mesi dopo le proteste dell’ottobre 2019, con gli occhi di tutti puntati sul governo appena entrato in carica e il morale a terra per il dilagare della pandemia, le macchine sono finalmente riuscite ad aprirsi un varco nel paese davanti a un pubblico di residenti e attivisti. Tutti impotenti.
Era finita.
Percentuali
Nei Balcani e in Turchia è in programma la costruzione di quattromila centrali idroelettriche, più che in qualsiasi altra regione d’Europa. Gli impianti di Štrpce e Biti, come la maggior parte di quelli che saranno realizzati in Kosovo e nel resto dei Balcani, sono centrali del cosiddetto piccolo idroelettrico, un’espressione che si riferisce alle strutture con una potenza inferiore a 10 megawatt.
Negli studi commissionati tra il 2006 e il 2009 dal ministero dell’energia del Kosovo sono stati individuati 77 punti per la costruzione di centrali idroelettriche di piccola taglia lungo i corsi d’acqua del paese. La maggior parte si trova in aree di particolare interesse naturalistico. Solo sul fiume Lepenci ne sono previste 17.
◆ Nel febbraio 2021 il tribunale di Pristina ha sospeso le licenze e i permessi ambientali concessi alla fine del 2020 all’azienda a capitale austriaco Kelkos per la gestione di tre centrali sul fiume Lumbardhi, nel comune di Deçan, un’altra zona del Kosovo interessata dalla costruzione di dighe e impianti idroelettrici.
◆A marzo, invece, dopo una denuncia presentata dall’ong ambientalista Gaia, sono stati sospesi i permessi idrici per l’esercizio della centrale idroelettrica Brezovica, realizzata dall’azienda Matkos sul fiume Lepenci, nel comune di Štrpce, all’interno del parco nazionale dei monti Šar. La corte ha sottolineato che è mancato un dibattito pubblico prima della concessione delle licenze e ha riconosciuto i rischi per l’acqua dei fiumi e per l’ambiente.
◆Nelle scorse settimane Albin Kurti, primo ministro del Kosovo dal 22 marzo e leader del partito nazionalista e di sinistra Vetëvendosje! (autodeterminazione), ha promesso una verifica generale dei permessi e delle licenze per la costruzione e la gestione delle dighe e delle centrali idroelettriche del paese. Koha Ditore
In quegli anni si cercava di promuovere l’energia verde e il Kosovo si era impegnato a produrre il 25 per cento dell’energia consumata da fonti classificate come rinnovabili entro il 2020. Il governo aveva privilegiato l’idroelettrico, anche se il Kosovo ha le risorse idriche più scarse dei Balcani occidentali, con una disponibilità di soli 1.600 metri cubi d’acqua per famiglia all’anno (in Italia, a seconda delle zone, la disponibilità varia da 2.000 a 5.000 metri cubi per abitante all’anno).
Stando alle dichiarazioni del ministero, l’obiettivo del 25 per cento è stato raggiunto, tuttavia diversi esperti hanno espresso preoccupazioni per le ripercussioni delle centrali sull’ambiente e sulle comunità locali. Inoltre si è scoperto che gli impianti hanno una capacità produttiva molto ridotta: nel 2019 solo il 5,5 per cento dell’energia rinnovabile prodotta in Kosovo arrivava dall’idroelettrico.
Oggi nel paese ci sono 18 impianti idroelettrici attivi e circa 20 dovrebbero entrare in funzione a breve.
Questi sviluppi hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica. Nel novembre 2019, 28mila persone hanno firmato una petizione per bloccare la costruzione di dighe e centrali e rivedere i calcoli sulla produzione di elettricità attraverso i fiumi.
I passaggi che hanno portato all’approvazione dei progetti legati al piccolo idroelettrico in Kosovo sono stati talmente opachi che nell’agosto del 2019 è stata istituita una commissione parlamentare per indagare sulle licenze, i lavori di costruzione, l’esercizio e la gestione delle centrali del paese. Molto resta ancora da chiarire.
Gambe in spalla
È una fredda mattina di novembre del 2019 e Fabien Téchené, uno scienziato ambientale francese che vive in Kosovo, è al volante della sua auto. Di tanto in tanto consulta la mappa delle centrali idroelettriche e delle dighe che dovranno sorgere lungo i 53 chilometri del tratto kosovaro del fiume Lepenci.
Il problema delle dighe e delle centrali idroelettriche non riguarda solo il Kosovo ma tutti i paesi dei Balcani occidentali. Nella regione gli impianti in costruzione sono circa 2.800. Troppo spesso, però, il loro impatto sulle comunità locali e sull’ambiente è devastante, mentre la produzione di energia è molto limitata.
In Bosnia Erzegovina sono già state realizzate 112 centrali, e altre 340 sono in fase di progettazione. Alla fine di febbraio l’assemblea generale della Repubblica Serba, una delle due entità politico-amministrative che compongono il paese, ha approvato un documento per chiedere la protezione dei fiumi locali e una moratoria sulle costruzioni di dighe e centrali. Nel giugno del 2020 il parlamento della Federazione croato-musulmana, l’altra entità della Bosnia Erzegovina, aveva adottato una dichiarazione simile. Tuttavia, senza un intervento del governo centrale e le opportune modifiche legislative questi provvedimenti non produrranno conseguenze concrete.
In Montenegro lo scorso dicembre il primo ministro Zdravko Krivokapić, appena entrato in carica, ha annunciato il blocco della costruzione di dighe e impianti idroelettrici e la revisione dei permessi già rilasciati. Krivokapić ha spiegato che il “piccolo idroelettrico”(cioè le centrali con una potenza inferiore a 10 megawatt) produce una quantità di energia trascurabile, ma ha effetti negativi sui fiumi e sulle finanze pubbliche del paese.
In Serbia gli ambientalisti sono mobilitati per annullare le licenze concesse per la costruzione di una centrale sul fiume Rakitska, nel sudest del paese.
In Albania la battaglia degli ambientalisti è incentrata sulla difesa del Vjosa, uno degli ultimi fiumi selvaggi d’Europa, che scorre dalle montagne del Pindo, in Grecia, fino alla costa adriatica albanese. Per evitare che questo ecosistema sia distrutto dalle trenta dighe in fase di costruzione lungo il fiume e i suoi affluenti, gli attivisti stanno promuovendo la creazione di un parco nazionale nel suo bacino idrico.◆ Balkan Insight, Balkan Green Energy News
Ha mappato personalmente i progetti andando a verificare sul campo: spesso, infatti, le coordinate dei lavori fornite dagli investitori nella documentazione ufficiale non corrispondono alla realtà. “Questo documento è una barzelletta”, dice con un pizzico di rabbia, parlando della valutazione d’impatto ambientale fornita dalla Matkos, che gestisce alcuni dei principali progetti idroelettrici nella valle del Lepenci e sui monti Šar.
Il documento non è un pezzo di carta qualunque: dovrebbe illustrare come, dove e perché si svolgeranno i lavori e chiarire che conseguenze avranno sull’ambiente. È sulla base di queste carte che vengono concesse o negate le autorizzazioni.
Come spiegano gli esperti del settore, il documento ammette che il progetto avrà delle ripercussioni sul fiume, ma non dà nessuna valutazione precisa delle conseguenze sociali e ambientali. Eppure è stato rapidamente approvato dal ministero dell’ambiente, che così ha spianato la strada ai progetti futuri della Matkos.
“Una centrale idroelettrica è un ostacolo”, osserva Téchené. “Anche se si fa di tutto per mitigarne l’impatto, è destinata comunque a modificare l’ecosistema fluviale: influisce sul trasporto dei sedimenti, per esempio, e modifica il regime idrico e la morfologia dell’alveo. A maggior ragione se viene costruita in mezzo a un parco nazionale su un piccolo ruscello di montagna”.
In passato Téchené si è occupato della gestione idrologica della Loira a Orléans, in Francia. Oggi lavora come responsabile per le acque dolci presso il Wwf Adria, un’organizzazione ambientalista internazionale che si occupa anche di proteggere i fiumi. Tra le altre cose, Téchené controlla lo sviluppo delle centrali idroelettriche in Kosovo e ne valuta i potenziali rischi.
Nell’ambito delle sue rilevazioni, Téchené sta verificando se la valutazione d’impatto ambientale corrisponde alla realtà. Per prima cosa controlla i canali per i pesci, dei corridoi che permettono il passaggio della fauna fluviale attraverso le dighe. Sul fiume Lepenci, spesso non sono stati completati e, quando ci sono, in molti casi non hanno acqua a sufficienza. Poi verifica eventuali problemi ambientali, per esempio l’aumento della densità delle acque reflue causato da un abbassamento del flusso naturale del fiume.
“Il problema dei piccoli impianti idroelettrici è che prevedono molte dighe, spesso costruite una dopo l’altra”, spiega. “Se ci fosse una sola diga, costruita e gestita secondo le migliori pratiche ambientali, l’impatto potrebbe essere minimo. Ma il problema è che questo non succede mai. Quindi alla fine ti ritrovi con trenta chilometri di tubature a intermittenza lungo il fiume. Con il passare del tempo questo influisce sulla migrazione dei pesci e danneggia la biodiversità”.
Attualmente ci sono almeno cinque centrali idroelettriche in costruzione lungo il Lepenci, e per ognuna ci saranno una o più dighe, sul fiume stesso o sui suoi affluenti. Queste dighe bloccano il corso naturale del fiume e accumulano l’acqua, per poi incanalarla nelle condutture. Secondo la legge, in Kosovo gli operatori possono deviare fino al 70 per cento del volume di un fiume, il resto deve poter scorrere liberamente. L’acqua viene inviata alle turbine dell’impianto idroelettrico, situato a valle. Più in alto si trovano le dighe, più veloce è il flusso d’acqua che entra nella turbina e maggiore è la quantità di elettricità prodotta.
Un piccolo impianto idroelettrico, sottolineano molti esperti, può avere un impatto ambientale enorme e allo stesso tempo non rispondere alle esigenze degli utenti. “Le centrali idroelettriche di grandi dimensioni sono considerate efficienti e sostenibili, ma la capacità di queste piccole dighe di accumulare acqua è minima; non fanno stoccaggio e quindi non sono in grado di gestire i picchi di consumo, per esempio al mattino”, spiega Téchené. “Senza stoccaggio non è possibile erogare il servizio in funzione del fabbisogno dei cittadini. È come con le turbine eoliche: se c’è il vento si produce l’energia, altrimenti niente”.
E se c’è il vento – o, in questo caso, l’acqua – ci sono i soldi. Ogni singolo megawatt prodotto, usato o sprecato, viene pagato. Il sistema si basa sulle cosiddette feed-in tariffs, un meccanismo per incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Il Kosovo paga quindi ai piccoli operatori idroelettrici un importo fisso per megawatt. Di recente, però, l’ufficio di regolamentazione per l’energia ha messo in dubbio l’efficacia del sistema e ha chiesto di modificarlo. Ma finora investire in una centrale idroelettrica si è rivelata una scommessa sicura.
La promessa
È l’ultima domenica d’estate. Alla capanna di Elizabeta e Stanko si sentono solo i nitriti dei cavalli e il fruscio del Kaludjerka che scorre. Oggi non ci sono lettere da consegnare: Stanko ha messo a riposo il suo motorino Tomos giallo e ha approfittato per fare un giro a cavallo sui monti che dominano la cittadina. Da quando tutto è cominciato è psicologicamente a pezzi. È stato battezzato in questo fiume, e quasi scoppia in lacrime quando gli chiedo cosa significano questi luoghi per lui.
Raccoglie piante di erba medica e va a cavallo per non pensare a quello che è successo ad agosto, quando a Obe Reke sono cominciati i lavori. Intanto, poche decine di metri a monte, lungo il torrente, le ruspe continuano a scavare.
Stanko si è rivolto alla giustizia perché sostiene di essere il proprietario del terreno in cui la Matkos ha cominciato i lavori; l’azienda afferma invece che si tratta di suolo pubblico. Il caso è nelle mani dei giudici.
Seduta all’ombra di un albero, Elizabeta canta canzoni tradizionali serbe. Parlano tutte della natura che la circonda. Una pecora, le montagne, un pastore, una madre. Il fiume.
“Ho promesso a mia figlia che non sarebbero mai passati da qui. E invece ce l’hanno fatta”, dice il postino, non riuscendo a trattenere le lacrime.
Elizabeta gli spiega che non è colpa sua. Ma a Stanko sembra di aver tradito le generazioni future della sua famiglia. Era andato a manifestare a Biti prima ancora di sapere che le condutture sarebbero passate anche sui suoi terreni. La sua battaglia è sincera, disinteressata.
Questa lotta è però anche il simbolo dell’impotenza dei cittadini di fronte alla burocrazia, alla stupidità della politica locale, a un governo capace solo di voltarsi dall’altra parte.
Al di là delle dispute legali che saranno risolte in tribunale, dei torti e delle ragioni, dei permessi e dei documenti, persone come Stanko, Elizabeta, Agron ed Edita, si sono caricate sulle spalle il doloroso fardello di proteggere i fiumi. “In passato nessuno aveva mai provato a portarci via il nostro fiume”, dice Stanko. “Ma per me il fiume è tutto: il passato e il futuro. Non c’è vita qui senza il fiume”. ◆ fas
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Questo articolo è uscito sul numero 1405 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati