Da qualche parte fuori dalla capitale dell’Etiopia, in un luogo che per motivi di sicurezza deve rimanere segreto, arriva un frastuono infernale, come se ci fossero centinaia di aspirapolveri accesi contemporaneamente. “Questo rumore mi fa sentire a casa”, dice Nick Quivooy, sorridendo da sotto il cappellino da baseball. Ha il naso e il collo arrossati dal sole mattutino. È atterrato due giorni fa da Wormerveer, nei Paesi Bassi, ed è la sua prima volta nel Corno d’Africa.

Il frastuono proviene dai 1.400 computer che sbuffano sotto un tetto di lamiera nell’aria afosa. Sono collegati alla rete globale dei bitcoin e, giorno e notte, fanno calcoli per indovinare una combinazione di numeri pensati dall’algoritmo consumando moltissima energia. Ogni dieci minuti da qualche parte nel mondo un computer della rete indovina la combinazione, facendo guadagnare al proprietario 3.125 bitcoin. Praticamente queste macchine sono dei cercatori d’oro digitali.

Fuori dalla zona industriale, alcune donne raccolgono lino chine sui campi. Un giovane pastore allontana le sue mucche da un traliccio della luce. I buchi sui suoi jeans sono grandi come le sue mani.

Venti aziende di criptovalute, chiamate bit­coin farm, sono arrivate in Etiopia da quattro continenti alla ricerca di elettricità a basso costo. Cinesi, russi, statunitensi, venezuelani, olandesi: sono tutti in Africa a caccia di fortuna, sulla scia di una lunga tradizione di avventurieri, come dei moderni David Livingstone. “L’Etiopia è hot nel mondo delle criptovalute”, spiega Quivooy. “Qui paghiamo meno del 10 per cento del prezzo dei Paesi Bassi”. Nel suo universo, il pianeta bitcoin, la corrente elettrica a buon mercato è denaro contante.

La fattoria di bitcoin vicino alla capitale etiope Addis Abeba è gestita da un’azienda tedesca che in passato era attiva in Paraguay, in Georgia, negli Stati Uniti e a Dubai. “I minatori di bitcoin vanno dove trovano le condizioni migliori, e queste possono cambiare molto”, dice il padrone di casa, Luca Infeld, nato in Austria, che ci accoglie in maglietta e cappellino da baseball.

Cambiare è un eufemismo. L’elenco dei paesi che negli ultimi anni hanno messo alla porta i minatori di criptovalute cresce alla stessa velocità della rete bitcoin. Fino a quattro anni fa, tre quarti delle bit­coin farm di tutto il mondo si trovavano in Cina; poi Pechino le ha vietate. Allora si sono spostate in Kazakistan, causando black-out in tutto il paese e proteste di massa. Oltre che in Kazakistan, l’estrazione di criptovalute è vietata anche in Nepal, Iraq, Kuwait, Kosovo, Algeria, Angola e Venezuela.

In Etiopia la metà degli abitanti non ha la corrente elettrica in casa. Nelle baraccopoli intorno alla capitale i generatori a diesel sono accesi ventiquattr’ore al giorno. “Certo, è una cosa su cui ho riflettuto”, ammette Quivooy. “Ma sono convinto che l’infrastruttura da noi costruita possa sviluppare la rete elettrica. Anche per la popolazione”. I minatori di bit­coin pagano una tariffa più alta per l’elettricità rispetto ai cittadini etiopi, e finora hanno fatto guadagnare 55 milioni di dollari alla Ethiopian Electric Power, l’azienda nazionale dell’energia.

In un centro di estrazione dei bitcoin fuori Addis Abeba, marzo 2025 (Sven Torfinn)

Conflitti dentro e oltre i confini

I minatori di criptovalute, però, sono arrivati in un’Etiopia dove la situazione è ancora molto tesa. Venti milioni di persone hanno bisogno urgente di aiuti alimentari come conseguenza dei conflitti interni ed esterni al paese. Altri milioni sono sfollati e sono rimasti senza assistenza dopo che gli Stati Uniti di Donald Trump hanno annunciato la chiusura dell’agenzia governativa per lo sviluppo Usaid.

“Se rispettano la legge etiope, i minatori di bitcoin sono i benvenuti”, dice Zeleke Temesgen, direttore della commissione etiope per gli investimenti. Temes­gen è un uomo rigido dalla fronte alta, con lo sguardo nascosto dagli occhiali da sole. Non vuole rilasciare commenti sugli aiuti internazionali, ma solo sugli investitori in criptovalute. “Se noi possiamo guadagnarci e gli altri ci guadagnano, siamo tutti soddisfatti”, dice.

Temesgen lavora all’ultimo piano della sede della commissione per gli investimenti, un edificio ancora in costruzione. Sotto si estende il centro di Addis Abeba, un enorme cantiere destinato a diventare “il gioiello africano”, una calamita per gli investitori esteri. Per questo le baracche sono sgomberate e demolite, e tra le macerie nascono dei grattacieli. La Dubai del Corno d’Africa.

Al 24° piano di uno di questi scheletri di cemento, alcuni operai stanno in equilibrio su impalcature di legno fissate con chiodi. Sono i costruttori delle piramidi di Addis Abeba, gli esecutori del vangelo della prosperità secondo il primo ministro Abiy Ahmed. Nuovi parchi, strade, musei, una residenza per Abiy. “Qui sta succedendo un miracolo”, dice Temesgen. “Tutti i nuovi palazzi, le ristrutturazioni… li dobbiamo al nostro primo ministro”. La metamorfosi di Addis Abeba deve servire da esempio per il resto del paese. Un paese, però, ancora in conflitto.

Nella regione settentrionale del Tigrai la guerra combattuta tra il 2020 e il 2022 dalle forze leali ad Abiy contro quelle dei suoi rivali politici ha causato, secondo alcune stime, tra i 385mila e i seicentomila morti. A meno di cento chilometri da Addis Abeba, le forze governative continuano a scontrarsi con le milizie della regione Amhara.

La diga della discordia

In Etiopia l’elettricità costa così poco grazie alle undici dighe e centrali idroelettriche sul fiume Nilo Azzurro. La più grande è la Grand ethiopian renaissance (Gerd), un progetto ambizioso quanto discusso, che ha portato l’Etiopia sul piede di guerra con i vicini a valle, Sudan ed Egitto.

Il sogno di avere un accesso al mare ha creato attriti con le vicine Eritrea e Somalia. Secondo il giornalista dell’Economist Tom Gardner, autore di un libro su Abiy, il primo ministro vuole una grande Etiopia “che si estenda sull’intero Corno d’Africa, governata – e su questo non ci sono dubbi – dal suo nuovo palazzo ad Addis Abeba”.

Nel frattempo la capitale è stata svuotata dai poveri. Migliaia sono stati spinti ai margini della città. Nel quartiere di Kazanchis le ruspe buttano giù i muri. Camere da letto, tavolini, sedie da scrivania sono in vendita sul marciapiede. Appartengono a un mondo che non c’è più. Gli abitanti del quartiere hanno paura di parlare. “Se apri la bocca e dici come la pensi, ti sbattono in prigione. Dicono che vuoi sabotare il progresso”, osserva uno studente. “Stanno cambiando la composizione demografica. Mandano via alcuni gruppi etnici come i tigrini e gli amhara. Hanno tutti paura”.

Sotto la scure di Trump

Le organizzazioni umanitarie che davano assistenza ai rifugiati sono nel panico da quando il governo Trump ha congelato i finanziamenti all’Usaid. Nel 2023 l’Etiopia era stata il secondo destinatario di aiuti statunitensi, dopo l’Ucraina. Con il decreto di Trump, gli aiuti alimentari sono rimasti bloccati nei magazzini e gli uffici in tutta la città vengono sgomberati.

La caccia alle criptovalute
Paesi dove si estraggono bitcoin, primo trimestre 2025, quota di mercato, % (Hashrate index, De Volkskrant)

“Non posso nemmeno accedere alle mie email”, dice Medhanye Alem, un orfano tigrino che lavorava per il Centro per le vittime di tortura. “Sono furioso, e non solo per gli operatori umanitari lasciati per strada: questa decisione mette a rischio la vita delle persone con cui lavoriamo”. Trova inaccettabile che si sia chiuso tutto in modo così improvviso. Quarant’anni fa l’Etiopia era diventata un simbolo degli aiuti internazionali con i concerti Live aid, grazie ai quali si raccolsero 125 milioni di dollari per combattere una carestia causata da un’altra guerra.

Una delle organizzazioni colpite oggi è la Jesuit relief service (Jrs), che assiste i rifugiati provenienti dai paesi vicini dell’Etiopia e che riceveva la metà dei suoi finanziamenti dall’Usaid. Un lunedì mattina il direttore Solomon Bizualem Brhane ha chiamato a raccolta i dipendenti per dirgli che i contratti dell’agenzia con Jrs in Etiopia e in quattro altri paesi sarebbero terminati, e che il loro centro avrebbe chiuso entro maggio. La psicologa infantile Semira Nuraddis era preoccupata soprattutto per i suoi pazienti: “Quando le persone hanno vissuto esperienze traumatiche, è difficile trovare qualcuno che voglia aiutarle. Io voglio farlo: è la mia vocazione”.

Più tardi quel giorno ha fatto visita a una famiglia di rifugiati del Sud Sudan che viveva ai margini della città, ma non ha osato dirgli dell’interruzione degli aiuti. “Hanno già abbastanza pensieri. Sapere dell’interruzione non farebbe che aumentare il loro stress”, ha pensato.

Costo irrisorio
Paesi con i prezzi dell’elettricità più bassi per le aziende, media 2023-2025, dollari per kilowattora (Global Petrol Prices, DE VOLKSKRANt)

Due giorni dopo, in uno degli alti edifici nel centro della città, si sono riuniti minatori di bit­coin da tutto il mondo: cinesi, russi, statunitensi, arabi, un giapponese, alcuni tedeschi, un ceco, giovani etiopi. Quando si sono visti si sono abbracciati perché si erano già incontrati in altri centri di bit­coin.

Hanno fatto girare un documento intitolato Bitcoin: una soluzione sostenibile al calo degli aiuti allo sviluppo statunitensi in Etiopia. Un veterano statunitense della guerra in Iraq, Robert Luft, ha preso la parola: “Siamo tutti consapevoli del fatto che gli aiuti dei paesi ricchi saranno bloccati. I bitcoin possono fare da catalizzatore, offrendo all’Etiopia e ad altri stati africani la possibilità di convertire in denaro le loro risorse naturali. Bisogna approfittarne. Questo è il momento dei bitcoin”.

Quivooy riconosce che i toni erano esagerati. “Noi siamo ancora dei pesci piccoli, non abbiamo abbastanza esperienza per assumerci questa responsabilità”. Come molti altri bitcoiner, Quivooy si è avvicinato alle criptovalute durante la pandemia di covid, perché non si sentiva rassicurato dal sistema bancario tradizionale. Per i minatori di criptovalute i bit­coin non sono solo una tecnologia, ma una fede e un’ideologia.

A differenza delle normali valute per i bitcoin non c’è un’autorità centrale, una banca centrale che stabilisca quanti sono i soldi in circolazione e se si può stamparne altri. Come con l’oro, però, la quantità di bitcoin che si può produrre è limitata: al massimo se ne possono estrarre 21 milioni e finora ne hanno già trovati 19,8 milioni. Questo garantisce un aumento del prezzo a lungo termine. Tutte le transazioni sono visibili a tutti gli utenti, nei blocchi digitali che producono bitcoin. Ecco perché il sistema viene chiamato truth machine, macchina della verità.

Investimenti redditizi

Inte Gloerich, ricercatrice dell’università di Utrecht, nei Paesi Bassi, contesta l’idea che il mondo dei bitcoin sia più onesto e giusto. “Molti investono nelle economie in crescita dove le criptovalute sono considerate una strada verso il benessere”, ha scritto nella sua tesi di dottorato. “Ma possiamo anche vederle come nuove forme di imperialismo finanziario, dove il potere è ancora una volta nelle mani dei ricchi capitalisti occidentali”.

Ci sono paesi dove Quivooy non vorrebbe installare i suoi computer? “Il Qatar non mi attira molto, da quello che ne so per via del calcio”, dice, seduto davanti a un portatile. Sullo schermo i blocchi digitali si uniscono come nel videogioco Tetris. “Un libro mastro digitale”, lo definisce Quivooy. “In Etiopia ci sono occasioni per fare qualcosa di interessante insieme agli investitori olandesi. Però anch’io ho dei princìpi. Non voglio approfittarmi degli altri”. Dalle sue parole si percepisce una certa esitazione.

L’operatrice umanitaria Semira Nuraddis sa benissimo cosa sono i bitcoin: “Sono investimenti fatti per guadagnare, mentre io sono qui per aiutare la gente. Sono due cose completamente diverse”.

In un’aula vicina suor Carol Reed dà lezione a una classe di rifugiati adulti provenienti da Eritrea, Sudan, Somalia. Fa l’operatrice umanitaria da trent’anni. “Gli Stati Uniti sono sempre stati un paese che voleva aiutare gli altri”, dice. “Ma c’è gente che non vuole più farlo. È una tragedia. Perché l’Etiopia ha ancora bisogno di aiuto”. ◆ oa

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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati