“Potresti essere tu!”. Il messaggio delle modelle transessuali sulla copertina di una rivista nella clinica del dottor Thep Vechavisit, a Bangkok, è chiaro. “Tutti hanno il diritto di essere belli”, dice Vechavisit, 66 anni, chirurgo estetico noto e famigerato anche fuori dalla Thailandia. Ha una voce metallica e l’occhio sinistro più piccolo del destro. Indossa una polo verde, cammina come Charlie Chaplin, porta i pantaloni neri alla zuava e gli occhiali da lettura rossi, che ora sono sul mento.

Sono le otto di sera e si siede al tavolino di un bar molto illuminato: mattoni bianchi, bancone bianco, tavolini di legno lucidi e tutti uguali. In un angolo ci sono due donne con le labbra gonfie, le ciglia lunghe e i seni grossi; davanti a loro un paio di cartelle portadocumenti. “Non mi è mai interessato guadagnare molto”, spiega Vechavisit. Avere una clinica grande, dice, è stupido, stupid, bisogna pagare molti stipendi, assumere tanti dipendenti, indebitarsi. È più semplice averne una piccola, come uno dei tanti negozietti di cibo di strada che si trovano nei vicoli di Bangkok. Certi medici gestiscono cliniche grandi come ristoranti, ma tanto le cose da mangiare hanno ovunque lo stesso sapore. Così, invece di ingrandire il suo studio, Vechavisit ha aperto questo bar: ora, spiega, le katoey _hanno un bel posto dove rilassarsi prima di andare sotto i ferri. _Katoey è il termine usato in Thailandia per indicare le donne transessuali, che però oggi preferiscono usare altri termini.

Si dice che l’ambulatorio di Vechavisit sia sporco. E allora? Il medico, aiutato da venti assistenti, opera qui da trent’anni nel rispetto delle migliori pratiche mediche. “Vieni quando vuoi e chiedimi quello che vuoi”. Poi si gira verso le donne sedute nell’angolo: le aiuterà come perito in tribunale, spiega, perché gli altri medici commettono troppi errori.

La **dark room della chirurgia**

Nel quartiere indiano di Bangkok, donne dalle scollature profonde ammiccano ai passanti invitandoli a entrare nei centri massaggi, le bancarelle vendono saponette a forma di frutta e alle insegne luminose degli ostelli manca sempre qualche lettera: nella mecca internazionale dei ladyboy (altro termine usato per indicare le katoey) si può stare una notte sola o rimanere un mese intero. Nascosta dal banchetto di un lustrascarpe, l’insegna dello studio di Vechavisit – lettere rosse su fondo nero – occupa l’intera vetrina: “Pratunam polyclinic”.

Su internet c’è chi descrive la clinica come una specie di dark room della chirurgia estetica, una fabbrica di seni. Sui forum le pazienti definiscono Vechavisit un macellaio: dicono che non è iscritto all’albo dei chirurghi, ma è un medico generico che opera prostitute e aspiranti tali. Si dice che abbia operato anche persone che non necessariamente volevano cambiare sesso e che abbia castrato minorenni e assassini in fuga.

Un intervento al seno costa poco più di mille dollari, cambiare sesso 1.500, l’asportazione dei testicoli meno di duecento. Prezzi stracciati, insomma, niente in confronto a quello che si spende in occidente o nelle cliniche tailandesi più lussuose. La clinica di Vechavisit è agli antipodi rispetto al resto dell’industria estetica di questo paese che, con le sue abbaglianti luci al neon, attira ogni anno migliaia di turisti della chirurgia.

Due ex pazienti del dottor Vechavisit sulla copertina di una rivista nella sua clinica di Bangkok, Thailandia, 2015 (Brent Lewin, Bloomberg/Getty Images)

Le sedie di plastica nella sala d’attesa ricordano quelle delle stazioni degli autobus, e dal condizionatore sul lato destro del soffitto esce un fiotto d’aria gelida. Sulla sinistra ci sono due sedie a rotelle, dietro, un acquario con l’acqua torbida dove nuotano tre pesci bianchi. Di fronte c’è lo sportello dell’accettazione, con tanto di cassette per la raccolta delle offerte, mentre sugli scaffali campeggiano bottiglie di olio d’oliva accanto a faldoni di documenti e a un calendario con il ritratto del re. La tv trasmette una soap opera, sulle pareti dell’accettazione e sul pannello che la separa dagli ambulatori campeggiano i poster dell’elezione di miss Tiffany, uno dei concorsi di bellezza per transessuali più importanti del mondo. Il presidente della giuria, e sponsor principale, è proprio il dottor Thep.

È mattina, Vechavisit è seduto a un tavolino tra l’accettazione e l’ambulatorio sul retro. Sul tavolo c’è il pranzo comprato da un fast food americano per le dipendenti, che indossano felpe con il cappuccio o pigiami di Topolino. Non sono neanche le undici e il dottore ha già fatto quattro mastoplastiche. Le assistenti stanno avvolgendo del nastro adesivo attorno al seno di una donna trans: le mammelle sembrano ancora due palloncini incollati e ricoperti da un sottile strato di pelle. “Così rimangono ferme e si evitano emorragie interne”, spiega Vechavisit. Nei tre giorni successivi all’operazione bisogna tornare in ambulatorio per le visite di controllo, la somministrazione degli antibiotici e il massaggio delle protesi per evitare che si formino aderenze. Nella sala d’attesa ci sono una decina di pazienti: studenti con la divisa dell’università, una donna con le braccia tatuate e i seni prorompenti insieme ai due figli, varie katoey con il trucco pesante. La sala non è mai vuota. Quando non è impegnato a dilatare, massaggiare o operare, anche Vechavisit sta seduto lì in attesa. Dopo pranzo scompare nel suo studio al piano terra, una stanza labirintica con pile di libri che arrivano al soffitto. Si siede al computer per rispondere alle domande che arrivano sull’app di messaggistica Line e su Facebook. Domande sui prezzi, su come si svolgono le operazioni, su come raggiungere la clinica, a cui risponde personalmente. Più tardi, nel primo pomeriggio, quando nella sala d’attesa è quasi calato il silenzio, Vechavisit, appoggiato allo schienale con le mani intrecciate dietro la testa, guarda su YouTube dei video sulla placenta.

Nella stanza accanto sono appesi ritagli di giornale con foto di modelle transessuali che pubblicizzano biancheria intima in pose provocanti. “Le ho trovate per caso, sono mie ex pazienti. Alle nuove clienti chiedo: come vuole diventare? Così o così?”. Ride. Ci sono anche immagini di seni contornati da una riga a pennarello. E le protesi sparse ovunque? Sono dei campioni: da 250 e da 350 centimetri cubi, come le cilindrate di un motore.

Vechavisit se ne va e ricompare con un libro in mano. Al posto degli occhiali da lettura ha una lampadina sulla fronte, di quelle che indossano i chirurghi durante gli interventi, sembra un personaggio di Star Trek. Indica il libro: “Ecco. Qui c’è scritto che fare test psicologici di routine è una stupidaggine. A cosa dovrebbero servire? Alla fine sono io ad assumermi la responsabilità di decidere”. I test servono solo a fare cassa, ma la perizia psicologica è obbligatoria per legge e anche lui la chiede alle pazienti.

Davanti alla clinica di Vechavisit a Bangkok, Thailandia, 2009  (Christophe Archambault, Afp/Getty Images)

Si adagia di nuovo sulla sedia, infila una mano in tasca e con l’altra sottolinea quello che sta dicendo. Racconta che una volta al suo ambulatorio si è presentato un rappresentante della Mentor, azienda statunitense che produce protesi. Dato che sua moglie – ex ragioniera in ambito medico – comprava i cuscinetti pieni di gel al silicone in grandi quantità a un prezzo scontato, il rappresentante voleva sapere se Vechavisit li rivendeva. “No, anzi: compro le stesse quantità anche da altri due fornitori”, gli ha risposto. Vechavisit compra fino a seicento protesi al mese per un totale di trecento interventi, fino a dieci al giorno. Nel corso della sua carriera dice di aver costruito più di 60mila mammelle: “La maggior parte dei chirurghi opera per qualche anno e poi passa il testimone a colleghi più giovani. Io invece opero ogni giorno da trent’anni. Penso di avere il record mondiale di interventi al seno”.

Verso sera, quando la giornata lavorativa a Bangkok volge al termine, la fabbrica di seni va avanti a pieno regime: al piano terra si tirano fili, si somministrano antibiotici, si iniettano steroidi nelle cicatrici, si massaggiano protesi e si dilatano vagine. C’è chi piange, chi grida, chi conta soldi, chi si scambia i numeri di telefono e chi gioca al cellulare. Le pazienti si levano i vestiti e indossano pigiami rosa di Hello Kitty. Con le ginocchia che tremano ma con un traguardo preciso davanti a loro, percorrono il corridoio e la scala che conduce al piano di sopra. Da lì arrivano altre donne in pigiama rosa. Camminano a gambe larghe, incerte, con la mano destra tengono il sacchetto di plastica del catetere e con la sinistra stringono la mano dell’infermiera che le accompagna in strada e poi a piedi fino all’ostello lì vicino, passando davanti ai mototaxi fermi in attesa.

Al piano di sopra oltre alle operazioni al seno si fanno anche le srs, sex reassignment surgery, le operazioni per il cambio di sesso. Vechavisit asporta i testicoli della paziente e usa lo scroto per dare forma alle grandi labbra. Detto in parole povere: sbuccia il pene, lo rovescia verso l’interno e con il corpo cavernoso e il glande forma l’interno della vagina. Chi si sottopone a questa procedura dopo l’operazione rimane al piano superiore della clinica 24 ore invece di sei. Per una settimana ogni giorno alle pazienti appena operate vengono somministrati gli antibiotici, medicata la ferita e cambiato il catetere quando necessario. Dopo due settimane il dottore dilata la nuova vagina e solo a quel punto le pazienti possono lasciare Bangkok.

Il viaggio della speranza

Diana e Minou si presentano come gemelle. Le incontro una sera all’accettazione della “fabbrica di seni”: entrambe superano il metro e ottanta, portano la coda di cavallo e gli occhiali tondi grandi quasi quanto il viso. Compilano il modulo, presentano le perizie psicologiche e pagano parte dell’operazione per il cambio di sesso. Nel suo incerto miscuglio di inglese e tailandese, la segretaria all’accettazione spiega: “Sabato e domenica mattina non mangiate, non fumate”. Diana e Minou annuiscono con diligenza e con la voce rotta e acuta ripetono le frasi in un perfetto inglese dall’accento filippino. Quando passa Vechavisit, lo seguono rapite con lo sguardo.

Verso sera Minou si siede al bar della clinica a bere un tè. Ha 21 anni. La sorella è rimasta all’ostello. Minou racconta che a undici anni si è innamorata di un compagno di classe. Ha partecipato a dei concorsi di bellezza organizzati da gruppi lgbt a scuola. “I miei amici mi incoraggiavano a truccarmi”. Ogni domenica insieme a Diana andava in chiesa a pregare di diventare una vera donna. Durante l’adolescenza lei e la sua sis, sua sorella, sono diventate bakla, ladyboy filippine. Si sono fatte crescere i capelli, hanno cominciato a vestirsi da donne e a prendere ormoni. “Le bakla più anziane sanno come si fa”. Alcune hanno i soldi per le iniezioni di ormoni, piuttosto costose, altre invece prendono delle pasticche mentre alle bakla povere non resta che ricorrere alla pillola anticoncezionale, spiega Minou. Sempre meglio che non prendere ormoni affatto: con la pillola almeno la pelle diventa un po’ più liscia e magari diminuiscono i peli. A diciott’anni Minou si è fatta mettere le protesi al seno, altre bakla si fanno castrare e iniettare olio d’oliva nei glutei per renderli più sodi.

Si è diplomata con ottimi voti, ma per vivere lei e la sorella passano fino a tre ore al giorno nella loro stanza a masturbarsi davanti a una webcam per clienti europei e statunitensi. Si possono trovare su Live­Jasmin, un social network dedicato agli show erotici. In media guadagnano 500 dollari alla settimana, una paga buona per le Filippine. Presto Minou potrà mostrare all’amministratore del sito il certificato medico del cambio di sesso e chiederà di poter accedere alla categoria donne. “Guadagnerei il doppio”.

Ma ai clienti piacerà? La noteranno ancora? Per l’operazione ha scelto Vechavisit perché dopo i suoi interventi le cicatrici sono meno visibili rispetto a quelle lasciate da altri medici, così potrà mettere il costume da bagno senza problemi. “Mi mette un po’ in ansia pensare all’aspetto che avrà”, dice Minou. Poi ammette che teme di perdere la capacità di avere orgasmi e anche di essere costretta a usare per sempre il lubrificante. Ma Vechavisit farà un buon lavoro, dice, in fondo nelle Filippine è famousss.

La mattina prima di andare in clinica Diana e Minou si sono fatte fare la perizia psicologica: “Fanno le stesse domande che fai tu”, si dicono. Nella perizia c’è scritto che Minou ha un disturbo dell’identità sessuale: da sei anni vive come una donna, da otto prende gli ormoni e non è né impulsiva né aggressiva.

La sala operatoria della clinica, Bangkok, Thailandia, 2015 (Brent Lewin, Bloomberg/Getty Images)

Siccome spera di fidanzarsi con un europeo, non vuole rivelarmi il suo vero nome: “Preferisco non raccontare la verità”. Anche Diana non è il vero nome della sorella.

La mattina dopo, alle otto, all’accettazione si è formata una breve fila. Il volto di Vechavisit è concentrato e immobile. Come ha passato la notte? “Tutto a posto”. Poi mi dice gridando: “Sali con me”. Al primo piano è buio, di fronte e a sinistra stanze strapiene di scatoloni che traboccano di guanti, cannule e tubi, insieme ai libri, tanti libri. Al secondo piano c’è la sala del risveglio, bianca e spoglia; otto letti, di cui la metà occupata da donne trans che evidentemente sono state operate da poco. Gli schermi che pendono dal soffitto trasmettono soap opera tailandesi a volume decisamente alto. Sulla sinistra c’è la sala di preparazione sterile. Sul lettino sono sedute quattro donne: schiena contro schiena, i seni nudi dietro le braccia incrociate. In un angolo ci sono delle lavatrici speciali per sterilizzare i camici.

Vechavisit entra nella sala operatoria: il tavolo al centro della stanza è completamente illuminato. In meno di un minuto sui lenzuoli blu viene fatta stendere una paziente, gli occhi chiusi con il nastro adesivo per evitare che si aprano o che per errore ci finisca sopra qualche ferro, spiega il dottore. Poi le lampade vengono puntate sui seni della paziente. Il condizionatore segna 22 gradi e l’orologio di plastica sul soffitto le 9 e 53. Oggi il primo intervento comincia piuttosto tardi.

Quel che segue è un’arte brutale. Il chirurgo addormenta la paziente con un miscuglio di ketamina, morfine e Propofol, e dice che la durata dell’anestesia è calcolata in modo da combaciare esattamente con quella dell’intervento. Poi, borbottando tra sé e sé, comincia a lavorare di bisturi. Un’incisione sotto l’ascella sinistra, una sotto la destra, di due centimetri l’una. Separa il tessuto muscolare dalla pelle e poi spinge la protesi nel petto: sembra che stia infilando un palloncino in una gallina. Dopo dieci lunghissimi secondi la protesi è al suo posto, tiene. Tutto viene ripetuto dall’altra parte, poi il dottore ricuce i tagli nelle ascelle. Finito. L’orologio segna le 10 e 02. Non ci sono voluti neanche dieci minuti. La paziente viene portata nella sala del risveglio con la mascella che si contrae per gli spasmi ed esclama, smarrita ma in tono vivace: “C’è nessuno?”. Il medico rimane nella sala operatoria. Avanti la prossima.

Per le transessuali degli altri paesi asiatici le cose sono ancora più difficili

A un certo punto Vechavisit torna al piano terra, il volto ancora un po’ tirato. Si lascia cadere sulla sedia della scrivania e piano piano sul viso gli compare un sorriso fisso. “L’incisione sotto il seno è da principianti, quella sotto l’ascella è da professionisti”, spiega. Sì, un’operazione al seno da meno di dieci minuti probabilmente è un record mondiale. È come con il calcio: tutti sono capaci di dare due calci a un pallone, qualcuno è bravo davvero e pochissimi sono dei fuoriclasse.

Il dottore si gira verso il computer e apre un video di YouTube. Una donna attaccata al respiratore durante un’operazione al seno: “Il gas esilarante costa diecimila baht a intervento, che stupidaggine. La mia iniezione ne costa cento”. Cioè tre euro invece di 280 euro.

Altri video lo irritano perché al posto delle protesi in silicone vengono usate quelle con la soluzione salina. Stupid. “Tutti danno retta ai farang, ai bianchi”. Sudamericani e asiatici li copiano sempre in campo medico, li seguono ciecamente senza farsi domande. Pensano tutti ai soldi, ad aumentare i profitti. Che stupidaggine. Chi lo dice che i bianchi hanno sempre ragione? Nel frattempo le bolle di sapone del salvaschermo si muovono sul fermo immagine con i seni gonfi della donna. “Vieni, ti prendo un libro”.

Parte del gioco

Dagli ostelli vicini al poliambulatorio c’è un viavai di transessuali cinesi, brasiliane, cambogiane, vietnamite e filippine con le sacche del catetere e un tubicino tra le gambe. Di notte alcune bakla filippine, sedute davanti a uno degli ostelli, chiamano ad alta voce gli uomini del quartiere. Hanno labbra siliconate, zigomi rifatti, pomi d’Adamo limati. Lavorano nei casinò di Macao e fanno le “fotomodelle, le truccatrici e le influencer con migliaia di follower”. Sono spagnole, no, di Singapore, anzi di Hong Kong. Hanno imparato ad assumere identità diverse, a seconda delle circostanze.

Una di loro, che si presenta con il suo nome maschile, Rico, siede davanti all’ostello in tuta, un po’ annoiata; ha i capelli sporchi e tinti di biondo. Sul viso le sta ricrescendo la barba, da sotto la felpa il seno preme contro la cerniera lampo. Quando la diffidenza sparisce, comincia a spiegare: “In realtà non tutte siamo scontente del nostro pene. Ma in un certo senso molte considerano l’operazione parte del gioco”. C’entrano la pressione delle altre, il tentativo di farsi apprezzare nell’ambiente e dagli uomini. Perché ci tengono a essere considerate vere donne. E poi è una questione di soldi. Una donna vera ai clienti può chiedere di più.

Quelle come Rico cominciano nei quartieri a luci rosse delle Filippine, poi partono in gruppo per andare a vendersi a Hong Kong, Macao e Kuala Lumpur. E quando hanno fatto abbastanza soldi vengono a Bangkok, sempre in gruppo, per farsi operare da Vechavisit. “A Bangkok però non si guadagna praticamente nulla, perché il mercato è rovinato da tutte quelle ladyboy che fanno sesso senza farsi pagare”.

La Thailandia non corrisponde del tutto all’immagine di paese arcobaleno con cui cerca di attirare turisti lgbt da tutto il mondo. Anche se all’esterno dà l’impressione di considerare le katoey come appartenenti a un terzo genere, sulla carta d’identità di generi ce ne sono solo due, e nel paese non è nemmeno permesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Molti tailandesi sono buddisti progressisti e non ci sono gli espisodi di violenza omofoba che si vedono altrove. Ma dare lavoro a una katoey? No, sarebbe decisamente troppo. Perciò molte di loro lavorano nell’industria estetica, fanno le stiliste o le parrucchiere, e non poche finiscono per prostituirsi in una qualche forma.

Per le transessuali degli altri paesi asiatici le cose sono ancora più difficili: in Cina e Cambogia, per esempio, non ci sono gruppi di pressione lgbt e la transessualità non è prevista. O nelle Filippine, paese rigidamente cattolico con una comunità lgbt enorme. Nell’arcipelago, gay e lesbiche sono tollerati, ma molti pensano che le bakla siano balorde criminali. Spesso scivolano in un circolo vizioso di prostituzione, furti e rapine, che è all’origine della loro cattiva fama.

Quando Rico e le sue amiche hanno finito le visite di controllo, lasciano Bang­kok: d’ora in poi, spiegano, tenteranno la fortuna da donne vere. Ma Rico torna a casa senza aver preso l’appuntamento con Vechavisit. Dice che non è sicura e che con il pene si sente a suo agio. “Ma magari un giorno ne avrò abbastanza. O magari incontrerò un uomo che mi vuole senza e allora lo farò per lui”.

Come sarà la vita d’ora in poi? Una vita da donne? Una vita diversa?

Il giorno dell’operazione

Anche oggi Minou ha raccolto i capelli in una coda di cavallo. È domenica mattina e invece di andare in chiesa si trucca per l’intervento. Ieri suo cugino Gene è atterrato a Bangkok: è venuto per assistere le gemelle nella camera dell’ostello nelle prossime due settimane. Gene è molto più basso di Minou, porta un cappellino con la visiera al contrario, ha i pettorali ben in vista e un filo di trucco sul viso.

Minou e Gene arrivano alla clinica poco prima delle dieci. Parlano concitati in gaylingo, una neolingua che mischia il tagalog filippino a parole inglesi e termini usati nell’ambiente lgbt filippino. La sorella Diana è già stata operata ed è ricoverata al piano di sopra.

Nel suo studio, Vechavisit esamina con attenzione gli organi sessuali di Minou ripercorrendo con la mente i tempi dell’intervento che gli farà. “Tutto a posto”. Minou sostituisce il vestito rosso con un camice, si siede e cominciano a tremarle le ginocchia. Poi svanisce nei meandri del piano di sopra. Nella sala del risveglio si è liberato un letto: si comincia!

Il martedì dopo il fine settimana in cui sono state operate le sorelle filippine è un giorno particolare: “C’è chi va in vacanza e chi va a far baldoria al bar. Io invece vado a festeggiare in tribunale”, racconta Vechavisit in sala d’attesa, allacciandosi la cravatta fantasia turchese sopra la camicia azzurra. Poi si avvia portando con sé una borsa di iuta piena di libroni. Sta per comparire in tribunale come perito a sostegno di una giovane donna che ha fatto causa al medico che l’ha assistita in sala parto e non ha rimosso del tutto la placenta, facendola quasi morire dissanguata: un errore stupido. Come sempre in Thailandia, spiega Vechavisit, nessun medico ha accettato di fare da perito: generalmente tra i medici c’è solidarietà e si evita di accusarsi a vicenda. Lui è uno dei pochi disposti a pronunciarsi contro i colleghi in tribunale, gratis.

Stamattina la fabbrica di seni si ferma per qualche ora. Vechavisit si avvia in auto verso la sopraelevata pensando a quanto tutto sia stupido: il traffico e anche il poliziotto che lo dirige. Borbotta tra sé: presto ci saranno auto senza guidatori e la gente lavorerà da casa; allora sparirà anche il traffico, spariranno anche i giornalisti. E per far crescere i seni ci saranno delle pillole, per cui spariranno anche i chirurghi estetici. Dice che presto userà i suoi risparmi per comprare casa a tutte le infermiere della clinica e se ne andrà in pensione.

Racconta che quando cominciò a fare il medico, dai pazienti ci andava a dorso di mucca. Viveva ancora in campagna con i genitori, immigrati cinesi che lavoravano in fabbrica, e faceva il medico di base. Già allora in caso di emergenza i pazienti venivano a bussare alla sua porta, anche di notte. Fuori dal finestrino Vechavisit vede scorrere grattacieli tutti uguali. Non c’erano ancora quando si trasferì a Bangkok per lavorare in un ospedale, prima di capire finalmente che esisteva il mercato della chirurgia estetica. Trent’anni fa, a sue spese, salì su un aereo per gli Stati Uniti per andare a frequentare un corso di chirurgia plastica di tre settimane. Una volta tornato a Bangkok aprì il poliambulatorio e cominciò a fare interventi di mastoplastica. Ancora oggi all’accettazione è appesa la sua licenza di medico di base.

Vechavisit non fa parte dell’associazione tailandese dei chirurghi estetici, anzi: “Loro vorrebbero togliermi anche la licenza di medico generico”. Tra loro ci sono quelli contro cui Vechavisit deposita le sue perizie in tribunale. E il ministero della salute vorrebbe chiudergli la clinica. Ma in Thailandia le faide tra medici sono una cosa normale, il mercato è molto conteso e c’è molta concorrenza. “Un medico mi ha perfino mandato un picchiatore alla clinica”. E avrebbe anche fatto uccidere una paziente che gli aveva fatto causa dopo un lifting facciale mal riuscito. È scritto negli articoli che Vechavisit mi manda durante la notte.

La sua udienza in tribunale dura due ore, l’occhio piccolo si è fatto piccolissimo e il suo dito si muove come quello di un direttore d’orchestra a sottolineare le parole. I due giudici, la controparte e la donna che ha rischiato di morire dissanguata lo ascoltano rapiti. Ogni tanto Vechavisit mostra ai giudici le prove tratte dai libroni che ha portato con sé. In tribunale si accetta letteratura scientifica solo se tradotta in tailandese, ma le traduzioni sono poche e farle fare spesso costa qualche migliaio di dollari: è così che Vechavisit spende i suoi soldi.

Una ferita profonda

Qualche giorno dopo, Diana e Minou sono stese sul letto, una accanto all’altra, con le gambe accavallate, mentre Gene è seduto su una sedia di plastica. Raccontano che le assistenti del dottore sono state antipatiche e scortesi. Qualsiasi cosa facessero – guardare il cellulare, accavallare le gambe o chiacchierare – le infermiere non facevano altro che ripetere: “You die”, morirai. Diana mi fa vedere la registrazione di un suo show, in cui mostra il pene eretto alla telecamera: “Avevo un pisello piuttosto costoso”, dice. Con la nuova vagina, invece, spiega di avere la stessa sensazione di un’erezione mattutina. Le sorelle ridono e cantano insieme a Gene, seguendo le parole del karaoke sul cellulare. Entrambe dicono di non avere dolori.

Da sapere
Bisturi e silicone
Primi dieci paesi per numero di interventi di chirurgia estetica nel mondo. (Fonte: Isaps)

◆ Negli ultimi anni la Thailandia è diventata una delle principali destinazioni per la chirurgia estetica in Asia. I numeri ufficiali sono inferiori a quelli reali perché non includono gli interventi eseguiti da medici non specializzati.


Nei giorni successivi il cugino Gene accompagna alla clinica le due sorelle: a volte le sorregge, a volte spinge la sedia a rotelle. Sembrano due zombie di buon umore. Gridano divertite schatziiieee (tesorooo) in mezzo alla strada, proprio come fanno davanti alla webcam con i clienti tedeschi. Nel poliambulatorio, senza tante cerimonie, gli fanno l’iniezione di antibiotico. Tornate all’ostello, si mettono a giocare al cellulare. Non è un buon momento per le domande, tutto sembra essergli indifferente, nessun sentimentalismo. È solo un passo avanti sulla strada per diventare donne, materialmente è una ferita profonda, psicologicamente sembra di no.

Giudizio sospeso

Due settimane dopo è songkran, il capodanno tailandese. Per tre giorni la gente si lancia secchiate d’acqua. Minou e Diana portano ancora l’assorbente ma sono di nuovo in grado di camminare. Diana è andata dal dentista con alcuni amici per farsi mettere delle corone bianche. L’intervento costa 200 dollari a dente: più del cambio di sesso.

Nella camera dell’ostello Minou si sta truccando. Ieri, per la prima volta, Vechavisit le ha dilatato la nuova vagina. “Ho la sensazione di avere qualcosa dentro”. È una sensazione piacevole? Non ne è sicura. La vagina è ancora in fase di guarigione, ma almeno ora la può dilatare da sola ogni giorno. Il dottore ha consegnato alle sorelle l’occorrente in due sacchetti di plastica con i loro nomi maschili scritti sopra. E a sorpresa hanno due cognomi diversi. “Siamo vicine di casa e mia madre ha adottato Diana. Passiamo la nostra vita insieme, saremo insieme per sempre”, dice Minou con imbarazzo. Gemelle, fratelli, sorelle, vicine. Non è poi così importante. Minou scatta in piedi e si guarda la vagina allo specchio. È troppo scura, dice, magari sotto alle labbra ci sono ancora degli ematomi. “Il mio capo”, ossia il suo pene, “era di un altro colore. Bisogna che parli con il dottore”.

Tra qualche giorno lei e Diana torneranno a casa a Manila per una breve vacanza post-operatoria prima di rimettersi di fronte alle webcam. Come sarà la vita d’ora in poi? Una vita da donne? Una vita diversa? “Non so”, dice Minou. “Spero di guadagnare un po’ di più e di trovarmi un ragazzo. Anche se al mio ex tedesco piaceva il pene. E al mio ragazzo precedente, un arabo, piaceva solo il mio sedere. Insomma, non so se con la vagina cambieranno le cose”.

Nelle settimane successive è online anche Vechavisit: ogni tanto mi risponde su Line con un thank you, un okay o un anytime. Nel frattempo avrà impiantato centinaia di mammelle di silicone e rovesciato verso l’interno centinaia di peni. Avrà dato alle clienti quello che chiedevano, quello di cui avevano bisogno. Per essere più felici. Per guadagnare più soldi con le webcam. Per trovare un uomo. Forse sacrificando un po’ di piacere e magari anche la salute. In compenso i suoi prezzi sono stracciati.

Chi vorrebbe giudicare Vechavisit? A voler essere oggettivi, è in qualche modo il suo stesso successo a dargli ragione. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1374 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati