Con una popolazione di circa ventimila abitanti, Hassloch è essenzialmente il paese più grande della regione sudoccidentale del Palatinato. Non ha assolutamente nulla di speciale, e proprio per questo è considerato un posto speciale. Qualche decennio fa, infatti, ci si è resi conto che dal punto di vista demografico Hassloch è un microcosmo della Germania: l’età media, la proporzione tra uomini e donne e le condizioni economiche riflettono approssimativamente quelle del paese. La demografia di Hassloch è così normale che negli anni ottanta la città è stata scelta dall’Associazione tedesca per la ricerca sui consumi come il mercato ideale in cui testare i nuovi prodotti. Se una cosa piace alla gente di Hassloch, si può essere relativamente sicuri che piacerà anche al resto della Germania. Se la Germania è un albero, Hassloch è il suo bonsai.
Cosa ci dice Hassloch su come la Germania ha gestito il grande afflusso di profughi cinque anni fa? Il 31 agosto del 2015, la cancelliera Angela Merkel tenne una conferenza stampa per spiegare quali erano le sfide che l’ondata migratoria presentava per il paese. Centinaia di migliaia di persone stavano arrivando in Europa dal Mediterraneo o lungo la rotta dei Balcani, e molte di loro erano dirette in Germania. Era l’inizio di una lunga fase di tensioni politiche e di aspre contrapposizioni tra i paesi dell’Unione europea, i partiti politici e i singoli cittadini. In quella conferenza stampa, Merkel annunciò: “La Germania è un paese forte. Abbiamo già fatto tanto. Possiamo farcela!”. Questa frase sarebbe diventata uno dei marchi di fabbrica del suo mandato.
Oggi, cinque anni dopo, sappiamo che nel 2015 arrivarono nel paese circa 890mila profughi. Possiamo dire che i tedeschi “ce l’hanno fatta”? È difficile stabilirlo, ed è altrettanto difficile dire esattamente cosa hanno fatto o chi è il soggetto di questa frase. Dipende dai punti di vista. A Hassloch, per capire chi “ce l’ha fatta” e quando, e soprattutto cosa significa, abbiamo incontrato varie persone: un’amministratrice locale, un esperto di pappagalli e alcune famiglie profondamente tedesche ma con una collezione coloratissima di passaporti. La storia, però, comincia dal municipio.
Nella lista dei cognomi più comuni in Germania, Meyer è al sesto posto. Tobias Meyer, vicesindaco della città, somiglia talmente al suo predecessore socialdemocratico che spesso li scambiano l’uno per l’altro. Meyer è un tipo allegro, di altezza media, con le sopracciglia espressive. Quando lo incontro nel suo ufficio, dice di essere entrato nell’Unione cristianodemocratica (Cdu) – il partito di centrodestra di Angela Merkel – il giorno del suo diciottesimo compleanno, spinto dall’ammirazione per l’allora cancelliere Helmut Kohl. Politicamente si considera un “centrista”. “È sorprendente”, dice, “nemmeno la caduta del muro di Berlino ha cambiato il nostro status di città media”. Sembra quasi che in Germania la normalità sia immutabile, qualunque cosa succeda e chiunque arrivi da fuori.
Dal 2015 Hassloch ha accolto tra i 500 e i 600 profughi. La cifra esatta non è nota, dal momento che molti sono tornati nel loro paese d’origine o si sono trasferiti subito da qualche altra parte. Attualmente la città ne ospita 152, di cui 72 aspettano ancora che la loro richiesta di asilo sia valutata. Nel 2015, dopo l’estate della grande migrazione, il totale era di 211 persone, pari all’1,1 per cento della popolazione di Hassloch. E gli 890mila che arrivarono Germania, con i suoi 82 milioni di abitanti? “Lo vede?”, dice Meyer. Esattamente l’1,1 per cento.
Meyer parla volentieri dei profughi e dice senza peli sulla lingua che alcuni avevano grandi aspettative sul loro futuro ma non erano disposti a fare molto in cambio. Dal suo punto di vista, la città non è cambiata granché dopo il loro arrivo. Forse una visita all’esperta di amministrazione del comune, una certa signora Behret, sarà più istruttiva. Prima, però, un’ultima domanda per Tobias Meyer. Hassloch “ce l’ha fatta”? Risposta di Meyer: “Mmmh”.
Ogni cosa al suo posto
Con la sua miriade di schedari rivestiti di finto legno, l’ufficio è una sorta di proiezione materiale delle regole che deve far rispettare. Attaccati con le puntine agli schedari ci sono piccoli segni di vita, come le foto delle vacanze o alcune vignette umoristiche tipo Dilbert sulla vita d’ufficio ritagliate dal quotidiano locale. Tra file e file di “verbali delle riunioni” e “corrispondenza ufficiale”, qualche stoica pianta da interno fa del suo meglio per ravvivare l’atmosfera. In mezzo a tutto questo siede Christine Behret.
Sul suo portachiavi c’è scritto “Amo il mio lavoro”. Behret è l’unica donna con un ruolo di responsabilità nel municipio di Hassloch e fin dal primo giorno sfoggia orgogliosa il suo portachiavi. “Ho combattuto per questo posto”, dice. Si definisce “una tosta”.
“Qui all’ufficio per l’amministrazione vediamo i problemi in modo leggermente diverso”, osserva. “Quando un sikh arriva in ufficio, si siede per terra e dice che non se ne andrà finché non avrà il permesso di cucinare in ostello – cosa che è vietata dalle norme antincendio – la cordialità non serve a molto. Devi rispolverare il tuo inglese e metterlo gentilmente alla porta. Ma non devi mai dimenticare che hai di fronte un essere umano”.
Dal suo punto di vista, la frase “possiamo farcela” ha significato soprattutto moltissimo lavoro. Nel 2015 lei e i suoi colleghi lavoravano sette giorni alla settimana. Nessun ufficio pubblico era preparato: i richiedenti asilo avevano bisogno di letti, cibo e cure mediche, e in molte aree rurali della Germania i medici scarseggiavano. La prima domanda a cui rispondere era: alloggiarli tutti nello stesso posto o distribuirli in varie strutture? Hassloch ha scelto una soluzione mista: è stato allestito un grande ostello, ma la maggior parte dei profughi è stata sistemata nei 51 appartamenti che il comune aveva affittato allo scopo. Sono stati distribuiti nei vari alloggi secondo parametri complicati, e Behret ha dovuto frequentare un corso di formazione in “competenze interculturali”. Una delle cose che ha imparato, dice, è che “nei luoghi da cui provengono i profughi le donne non hanno potere, mentre qui le donne gli dicono cosa devono fare”. È una frase che ormai da decenni fa parte del dibattito sull’immigrazione in Germania.
Behret è in grado di fornire una descrizione precisa dei richiedenti asilo a Hassloch usando poche frasi. Dice che in città c’è “l’intero spettro”, dal professore di matematica siriano a quelli che non sanno nemmeno scrivere il proprio nome. “Di solito vengono una volta al mese per ritirare l’assegno. Per alcuni è sufficiente. Altri invece a un certo punto cominciano a lavorare da McDonald’s o a consegnare pacchi per Amazon”.
C’era un nigeriano alcolizzato che rubacchiava tutti i giorni nei negozi. “Ce l’hanno mandato senza nessun preavviso né fascicolo”, dice Behret. “Non è assurdo?”. Tobias Meyer è andato di persona al centro di accoglienza principale a Kusel per chiedere spiegazioni. Sono venuti e lo hanno portato via, dice Behret.
“I profughi arrivano prima che arrivino i fascicoli. Non abbiamo nulla a parte i loro nomi, le nazionalità e le date di nascita”
Poi racconta di un uomo che è morto ma che non poteva essere sepolto perché non aveva il certificato di nascita. “E se non sei mai nato, non puoi morire”. In questo ufficio che raccoglie e gestisce i dati delle persone, dove tutto è perfettamente organizzato, Behret sembra trarre un certo piacere da questi momenti di caos.
Il problema principale, però, è un altro: “I profughi arrivano prima che arrivino i fascicoli. A volte non so se chi ho di fronte ha l’epatite, la tubercolosi o la scabbia. Non abbiamo nulla a parte i loro nomi, le nazionalità e le date di nascita”.
Gabbie per uccelli
Nel soggiorno di Wilhelm Weidenbach c’è una gabbia per uccelli appoggiata su una piccola coperta. Il fondo della gabbia è rivestito di fogli di giornale, le sbarre sono color ottone. Lo sportello è quasi sempre aperto. Weidenbach ha insegnato al suo ultimo pappagallo a cantare canzoni popolari tedesche. L’uomo, un pensionato di 64 anni in sedia a rotelle per via di un incidente, è il presidente del Club per la protezione e la cura dei volatili locali ed esotici di Hassloch. Ogni mattina alle 9 va al Parco degli uccelli, una delle attrazioni locali.
Nel 2019 Hassloch è stata colpita da un forte temporale che ha messo sottosopra il parco. Insieme a un gruppo locale che aiuta i richiedenti asilo, Weidenbach ha organizzato una giornata di lavoro volontario per riparare i danni. Poco dopo il comune si è messo in contatto con l’associazione per chiedere se i profughi fossero disposti a farlo più spesso. Oggi alcuni lavorano tre giorni alla settimana facendo turni di quattro ore. Un venerdì mattina li troviamo con rastrelli e zappe nel recinto delle anatre: Ranj Suleiman, curdo iracheno; Mohammad Ali Mozaffri, afgano; e Aria Rahimzade, iraniano. Sono tre dei 72 richiedenti asilo di Hassloch ancora in attesa di risposta.
Suleiman è un tecnico informatico, Mozaffri vorrebbe lavorare nell’assistenza agli anziani e Rahimzade vuole fare il parrucchiere. Sono tutte occupazioni molto richieste, ma dato che l’Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati (Bamf) non ha ancora deciso se potranno restare in Germania, è difficile per loro trovare un lavoro vero. Perciò rastrellano detriti per 80 centesimi all’ora.
Weidenbach dice che stanno facendo un buon lavoro. Iran? Iraq? Le persone sono persone, dice. Bisogna solo seguire le regole e arrivare puntuali. È importante che i richiedenti asilo imparino la lingua e cerchino di parlare tedesco tra loro, dice, anche se a volte non riescono a capirlo perché lui parla il dialetto locale e ai corsi di lingua insegnano il tedesco formale.
Mozaffri racconta com’è arrivato in Germania dall’Afghanistan tre anni fa: “A piedi. Bicicletta. Barca”.
“Eh sì, la necessità aguzza l’ingegno”, scherza Weidenbach. Anche gli altri tre probabilmente riderebbero, ma non hanno capito cosa ha detto. Allora Weidenbach ripete, più lentamente e a voce più alta: “La ne-cess-i-tà a-guz-za l’in-ge-gno!”. I tre si mettono a ridere, ma ancora non hanno capito. Così riprendono le carriole e passano al recinto degli emù. Suleiman fa una smorfia e dice, scherzando: “Parlano un tedesco migliore del nostro”.
Il comune ha acquistato una struttura con il tetto piatto alla periferia della città. All’esterno sono state piazzate delle sedie di plastica e all’interno c’è pochissima luce naturale; l’unica finestra è un lucernario. Un tappeto è appeso alla recinzione e tutto intorno regna il silenzio.
È qui che vivono Suleiman, Mozaffri e Rahimzade. La leggerezza della voliera è solo un ricordo. Su ogni porta c’è un cartello con una serie di immagini che mostrano tutto quello che è proibito portare nell’ostello: orologi da parete, macchine per il caffè, ferri da stiro, asciugacapelli, lavatrici, aspirapolvere, macchine fotografiche, telefoni e monitor di computer.
La struttura ospita circa trenta richiedenti asilo. Il letto di metallo di Mozaffri è nell’angolo della stanza 3; attaccati alla parete ci sono dei foglietti di carta con le parole in tedesco che sta imparando. Di fronte a un armadietto di metallo c’è un altro letto, occupato da un giovane iracheno a cui hanno appena respinto la richiesta di asilo. Dice che di notte ha paura quando sente chiudere le porte e che non sopporta l’idea di vivere ancora a lungo nell’ostello. In effetti, sembra che l’obiettivo sia renderlo il più scomodo possibile.
Alla fine di giugno in Germania c’erano ancora 43.617 richieste di asilo pendenti. Il Bamf esamina i fascicoli e i reclami degli avvocati specializzati. A volte le carte vengono nascoste di proposito dai candidati e bisogna richiedere altri documenti in Eritrea, in Marocco e nei vari paesi da cui provengono i richiedenti. Le persone come Suleiman, Mozaffri e Rahimzade sono in un limbo. Sono riuscite ad arrivare in Germania, ma ancora non conoscono il loro futuro. Ancora non “ce l’hanno fatta”.
Secondo un sondaggio del Bamf, il 44 per cento dei richiedenti asilo sostiene di avere una buona o ottima conoscenza della lingua tedesca. Tre quarti di loro si sentono i benvenuti in Germania. Il “possiamo farcela” di Merkel, però, non era riferito a loro. La cancelliera parlava dei tedeschi.
Andreas Rohr vive immerso nelle statistiche. Nel suo ufficio non ci sono piante e anche l’arredamento è ridotto all’osso. Rohr ha lavorato come tesoriere nell’amministrazione comunale ed è laureato in economia. È un padre di famiglia, ha un fisico possente e una camicia grigia che s’intona alle pareti del suo ufficio. Nel 2015 era lui il responsabile per i richiedenti asilo ad Hassloch, anche se oggi si occupa di asili nido, contratti di locazione e attività culturali. Se c’è una persona capace di distillare in colonne di numeri la capacità di Hassloch di “farcela”, è lui.
Dal punto di vista amministrativo, dice Rohr, Hassloch ha avuto ottimi risultati. “Nel 2016 abbiamo speso circa 550mila euro per gli alloggi e circa 870mila euro in prestazioni per i richiedenti asilo. Tutti questi costi sono stati rimborsati dal distretto, mentre il comune ha dovuto provvedere ai costi del personale e dei materiali. All’epoca avevamo solo due impiegati part-time, oggi invece ce ne sono quattro a tempo pieno. Nel periodo di picco ne avevamo cinque. Una persona a tempo pieno costa 50mila euro, quindi parliamo di una spesa di 250mila euro all’anno”.
Il comune ha dovuto provvedere a tutto a parte vitto e alloggio, e oltre ai soldi c’è voluta molta pazienza. A Hassloch si è scatenato un “dibattito ispirato dall’invidia di più basso livello”, come dice Rohr, che per un po’ di tempo ha preferito smettere di frequentare i bar. Christine Behret si è addirittura trasferita fuori città.
Sopravvissuti
Le case sono allineate come bastioni lungo la Neustadter strasse, nel centro della città. La strada è vuota a parte una donna nera in posa per farsi fotografare. Sembra la scena di una brochure del Bamf. La donna si chiama Becky Idowu e vive in un appartamento al piano terra in una delle case lungo la strada.
Le imposte sono chiuse come vuole la sua coinquilina, una senzatetto tedesca con cui Idowu vive da novembre. Condividono una camera da letto, un bagno e una cucina. Ci sono altri due letti, ma al momento non sono occupati.
Idowu prende uno sgabello. La sua coinquilina alza brevemente lo sguardo per poi riportare subito l’attenzione sul suo cellulare. Non parla inglese, e Idowu non parla tedesco. Per comunicare usano un’app di traduzione.
Idowu viene dalla Nigeria. Prima di arrivare in Europa è stata tre anni in Libia, dove sua sorella gestiva dei ristoranti a Tripoli. Muammar Gheddafi, che allora guidava il paese, aveva fatto arrivare in Libia dei soldati mercenari neri. Nel paese c’è sempre stato molto razzismo, ma dopo il crollo della dittatura è cominciata una vera e propria caccia all’uomo, racconta Idowu. Sua sorella era appena riuscita a chiudersi in casa quando i suoi inseguitori le hanno sparato in testa attraverso la porta.
Idowu ha preso la figlia di 3 anni di sua sorella ed è scappata per mare. La bambina le era seduta in grembo quando il gommone si è ribaltato. A bordo c’erano 250 persone, ma solo 30 sono sopravvissute. “Mi vedo ancora in mezzo al mare”, ricorda. Poi arriva un altro flashback: “Sono seduta su una piccola barca”, circondata da gente che cerca di salvarla.
Si dà uno schiaffo sulla coscia, si guarda le mani e le lascia cadere. “L’ho persa”, continua a ripetere, mentre gli occhi le si velano di lacrime. La sua coinquilina non fa altro che scorrere il telefono. Idowu non sa nemmeno come si chiama.
Ogni mattina Idowu si sveglia alle 4 e mezza, si trascina fuori dal letto, esce dall’appartamento e raggiunge il centro di Hassloch, nella zona del municipio, dove vaga per un’ora. È un modo per ammazzare il tempo durante le sue lunghe giornate.
Aiutare le persone come Idowu a ritrovare motivazione nella vita è un altro aspetto del “possiamo farcela”. Ci sono molte buone intenzioni, ma a volte non sono ben indirizzate. Alla periferia di Hassloch c’è un parco divertimenti con varie attrazioni, tra cui il rafting sulle rapide e il beach rescue, in cui si diventa “capitani della propria scialuppa di salvataggio”. I richiedenti asilo ricevono dei biglietti omaggio per il parco: è un pensiero gentile, ma alle persone come Idowu non sarà molto utile. Ad agosto ha cominciato una terapia per superare il trauma.
Idowu “ce l’ha fatta”? Non esistono statistiche per misurare l’angoscia.
Reazione di rifiuto
Per qualche mese, a partire dall’autunno del 2017, a Hassloch la normalità è stata stravolta. Senza preavviso, il distretto ha mandato in città un pregiudicato somalo condannato per reati sessuali.
Secondo un sondaggio del 2017, circa un quinto dei profughi arrivati in Germania non ha mai avuto contatti con i tedeschi nella vita privata
“Abbiamo dovuto metterlo sotto sorveglianza”, ricorda il vicesindaco Tobias Meyer. “La polizia passava regolarmente per controllarlo e assicurarsi che prendesse i farmaci. Un comune come il nostro semplicemente non è attrezzato per una situazione simile”.
Alla fine l’uomo se n’è andato spontaneamente ed è tornato in Somalia. A quel punto però c’erano già state le prime manifestazioni di fronte al municipio, organizzate dalla sezione locale del partito di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd). Prima delle elezioni amministrative il portavoce federale di Afd, Jörg Meuthen, è venuto in visita a Hassloch e il partito ha preso il 18,8 per cento dei voti in città, riscuotendo consensi anche nei quartieri più ricchi: una rappresentazione abbastanza fedele delle tendenze politiche osservate in tutto il paese quell’autunno. Oggi la città è amministrata da una coalizione variegata – la “coalizione papaya”, come la chiama Meyer – composta dalla Cdu, dai verdi e dai Liberi elettori, una lista civica.
Il “possiamo farcela” di Merkel, a quanto pare, ha suscitato anche una reazione di risentimento e di rifiuto nelle piccole città come Hassloch, un risentimento che forse c’era sempre stato.
Una famiglia modello
Ismael Ahmed sta guidando la sua Škoda verso un supermercato alla periferia di Hassloch per comprare cracker al sesamo, cipolle, melanzane e altri prodotti essenziali. Un Corano in miniatura dondola dallo specchietto retrovisore mentre sua figlia Suzan, sul sedile posteriore, ascolta il rapper di origini curde e libanesi Mudi che canta canzoni d’amore in tedesco. Se chiedete dei rifugiati a Hassloch, probabilmente vi manderanno dalla famiglia Ahmed. Forse perché sono una famiglia normale, o forse perché si sono integrati così bene.
Gli Ahmed sono di origine curda. Hanno venduto la loro casa in Siria prima che uno dei loro figli venisse arruolato nell’esercito. Hanno sei figli, ma i due più grandi avevano già lasciato la Siria da tempo. Oggi sono entrambi sposati: uno vive a Stoccarda e l’altro a Moers, sul Reno. Gli altri quattro vivono ancora con i genitori a Hassloch: hanno ricevuto i permessi di soggiorno il 4 dicembre 2015.
La loro nuova casa ha un cortile e un barbecue in muratura. Chi ci viveva prima? “Due lesbiche, credo”, dice Suzan. La sua migliore amica vive dall’altra parte della strada, lei gioca nella squadra locale di pallacanestro e sta facendo uno stage con la polizia.
E la scuola? “Tutto ok, con gli insegnanti mi trovo benissimo”, dice. Gli Ahmed sono tra i pochi rifugiati di Hassloch – tra il 5 e il 10 per cento, secondo una stima del comune – che non hanno bisogno dell’assistenza dello stato.
Ma ci sono anche famiglie che vivono completamente isolate e il cui unico punto di contatto con il mondo è la scuola frequentata dai figli. Secondo un sondaggio realizzato dal Bamf nel 2017, circa un quinto dei profughi arrivati in Germania non ha mai avuto contatti con i tedeschi nella vita privata.
Un’altra lezione che si può trarre da Hassloch è che l’integrazione dipende molto da chi si occupa dell’accoglienza. Gisela Broichmann fa parte di un’organizzazione locale che aiuta i richiedenti asilo. È una delle tante volontarie che hanno cominciato a lavorare con i profughi nel 2015. Uno dei motivi per cui si è fatta coinvolgere è che voleva “combattere le sue paure”.
La prima cosa che ha fatto per gli Ahmed, nel 2015, è stata creare una cartella con dei divisori colorati da usare come guida pratica per stabilirsi in Germania. C’erano diverse sezioni: corrispondenza con l’ufficio per la migrazione e i rifugiati, ufficio per la previdenza sociale, agenzia per l’impiego, centro per l’impiego, registrazione dell’indirizzo, codice fiscale, assicurazione sociale, assegni familiari, assicurazione sanitaria, servizi pubblici.
Broichmann ha aiutato gli Ahmed a riempire le varie sezioni con la documentazione richiesta. Poi li ha aiutati a comprare dei mobili su eBay e gli ha regalato un fornello e una macchina per cucire. Perché? “La mia famiglia viene dalla Slesia”, dice, riferendosi all’ex provincia tedesca che dopo la seconda guerra mondiale fu assegnata alla Polonia. “Anche loro furono aiutati quando arrivarono”. In seguito gli Ahmed hanno riorganizzato la cartella, ordinandola a partire da destra. “Secondo l’ordine arabo”, spiegano.
Ismael, il padre, ha cominciato a studiare il tedesco da principiante, mentre sua moglie è un livello sopra di lui. Quando ha fatto il test “Vivere in Germania” ha risposto correttamente a 24 domande su 33. Quindi si può dire che è tedesca al 72,73 per cento.
A dicembre del 2015 è arrivata a Hassloch anche la famiglia Buzaladze, originaria della Georgia, dopo aver fatto tappa a Budapest, Dortmund, Treviri e Bad Dürkheim. Per entrare nel loro appartamento si sale una scala adornata di gerani fioriti.
Prima del loro arrivo i volontari avevano preparato l’appartamento lasciando dei regali, una torta e una lettera di benvenuto sul tavolo. Dopo un anno la loro domanda di asilo è stata respinta, e ora la pratica è al vaglio del tribunale regionale. Attualmente il loro status è “tollerati”.
Il figlio maggiore Zuradi è apprendista muratore, mentre la madre Mtwarisa, 38 anni, sta seguendo un corso di formazione in assistenza agli anziani (la legge tedesca vieta di espellere chi frequenta un corso di formazione). Il padre lavora come giardiniere. A vederli, sembra proprio che ce l’abbiano fatta, anche se gli avversari politici dello spirito del “possiamo farcela” probabilmente avrebbero qualcosa da ridire. Molti pensano che solo chi fugge dai conflitti abbia diritto all’accoglienza, e che la mancata espulsione di famiglie come i Buzaladze sia un fallimento per il paese.
In questa particolare occasione, la famiglia sta brindando con del vino frizzante, il Rotkäppchen, una marca che più tedesca non si può. Zwiadi, il padre, alza il calice alla salute di tutti e poi aggiunge: “Amo Angela Merkel”. Il tavolo è coperto di frutta disposta a forma di fiori e barchette.
Ce l’hanno fatta? “Sì”, dice Zwiadi. Suo figlio traduce per lui: “Abbiamo tutti un lavoro e stiamo aiutando la Germania. E la Germania sta aiutando noi”.
“Ce l’abbiamo fatta”, dice la madre. Poi, tutti insieme, esclamano: “Prost!”.
Il ritorno della colomba
Recentemente l’autorità federale per la revisione dei conti ha annunciato che farà visita ad Hassloch. Un controllo di routine: l’anno 2015 è stato scelto casualmente, e la scelta della voce di bilancio 3.1.3, Assistenza per i richiedenti asilo, è stata altrettanto casuale. I revisori stanno esaminando tutti i conti relativi a quel periodo, anche se non hanno ancora completato la loro relazione.
Christine Behret, Andreas Rohr e l’amministrazione di Hassloch non temono i controlli. Sono stati molto attenti alla contabilità. Anzi, sembra quasi che considerino la verifica un po’ come il ritorno della colomba sull’Arca di Noè: un segno di speranza. Perché in Germania una crisi è davvero finita solo quando i libri contabili sono stati controllati e possono essere archiviati. ◆ _ fas_
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Questo articolo è uscito sul numero 1373 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati