Nel territorio del Baltistan, all’ombra del K2, tra le catene montuose del Karakorum e l’Hindu Kush, il cambiamento climatico sta lasciando senz’acqua decine di villaggi. La situazione è così critica che, con l’aiuto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), gli abitanti di questa regione del Pakistan settentrionale stanno cercando di recuperare un’antica tradizione apparentemente inverosimile: “sposare” i ghiacciai mischiando diversi tipi di ghiaccio per generarne uno nuovo che porti più acqua.
Questa pratica, attiva nell’Himalaya già alcuni secoli fa, è chiamata “innesto di ghiacciaio” (in inglese glacier grafting). La tradizione locale prevede di scalare zone in alta quota per raccogliere grandi quantità di ghiaccio da due ghiacciai, maschio e femmina, e trasportarle in spalla dentro gerle di legno di salice in un punto più a valle. Lì i due carichi vengono uniti nel corso di una cerimonia simile a uno sposalizio e seppelliti tra le rocce insieme a fango e paglia, nella speranza che, una decina di anni dopo, il “figlio” cresca e si rafforzi per dare acqua agli abitanti della zona.
Una muraglia gelata
“Noi concepiamo i ghiacciai come entità maschili e femminili”, spiega Tehzeeb Bano, nata trent’anni fa nel remoto villaggio di NewRanga, ai piedi del K2. “Ricorrendo alle conoscenze tradizionali, gli uomini vanno in cerca di ghiacciai maschi e femmine da cui prendere le parti da mischiare. Se le masse mischiate sono solo maschili, la loro unione non genererà nessun nuovo ghiacciaio”.
Bano ricorda che da bambina dalla finestra di casa sua vedeva il ghiacciaio Singay, che significa “il re dei ghiacciai”. “Mia nonna me lo indicava e mi raccontava che era una creazione umana. È visibile ancora oggi dal nostro terrazzo”. Quei racconti la colpirono al punto che, una volta adulta, ha scritto una tesi sull’innesto di ghiacciai, materia che oggi studia all’università di Guelph, in Canada. “Le cose continuano a peggiorare e alcuni abitanti dei villaggi sono venuti a chiedermi di fare un innesto per tamponare la situazione”, racconta.
Secondo le fonti locali, il ghiacciaio Singay (o Gang Singe) che Bano vedeva dalla finestra di casa è uno dei sei fiumi di ghiaccio creati attraverso un innesto. “La tradizione risale a circa settecento anni fa, quando si dice che un santo sufi innestò per la prima volta un ghiacciaio, il Kondus”, spiega Zakir Hussain, docente all’università del Baltistan e consulente per i progetti dell’Onu. Secondo alcune versioni della leggenda, gli abitanti della zona usarono questa tecnica per creare una muraglia di ghiaccio che frenò l’invasione di Gengis Khan.
Se anche questi antichi ghiacciai fossero stati frutto di un innesto così antico, oggi sarebbero indistinguibili da quelli naturali, ed è per questo che Hussain e la sua squadra si sono concentrati sui più recenti. In particolare hanno deciso di studiare i fiumi di ghiaccio che sono stati creati tra la fine del novecento e l’inizio del nuovo secolo nell’ambito di un programma di sostegno rurale dell’agenzia Aga Khan (Akdn), che ha recuperato la tradizione dopo decenni.
Nel 2018 un gruppo di accademici e di portatori guidati da Hussain hanno cominciato a lavorare su queste montagne remote per cercare di capire quanto ci fosse di vero in questi processi. “Abbiamo condotto il primo studio su un ghiacciaio innestato nel 1995, che aveva circa 23 anni”, spiega Hussain. Si trovava a un’altitudine di 4.700 metri. “Abbiamo constatato la permanenza di una parte rilevante di ghiacciaio e di chiazze di ghiaccio circostanti”, spiega. “Ho avuto la fortuna di avere come guide proprio le persone che avevano fatto l’innesto e ho potuto raccogliere storie, pratiche, racconti indigeni e miti: tutto registrato e documentato”.
Unione sacra
Nella lingua locale gli abitanti del Baltistan chiamano questo rituale gang khswa, che significa più o meno “nutrire con profondo affetto”. La pratica ha un significato spirituale, perché è considerata un’unione sacra di anime che, come un matrimonio, si celebra con preghiere, inni e canzoni. Il primo passo consiste nel selezionare un luogo oltre i quattromila metri con una temperatura del suolo sotto lo zero, con un’esposizione minima al sole e un terreno ricco di pietre e ciottoli.
Poi si raccolgono blocchi di ghiaccio da dodici luoghi diversi, provenienti in parti uguali da ghiacciai femmina (mo) e maschio (pho), che sono trasportati a spalla e che non devono mai toccare terra. I blocchi sono portati al pozzo del futuro ghiacciaio, che può trovarsi in una grotta naturale o in una cavità scavata appositamente. Lì vengono depositati insieme a offerte e doni. Del rituale si occupano gli anziani, considerati di un livello spirituale superiore e i padri del ghiacciaio in fase di innesto. Durante la cerimonia pregano sistemando i blocchi di ghiaccio insieme a noccioli di albicocca, semi di zucca, pula di grano, acqua e carbone. Poi cantano una canzone popolare come ninna nanna, recitano versetti del Corano e sacrificano una femmina di capra per proteggere i ghiacciai. Nei cinque anni successivi nessuno potrà visitare il luogo, per evitare interferenze.
Negli anni novanta si pensava che la strategia non funzionasse, ma lo studio svolto da Hussain e dalla sua squadra su diciassette siti del Baltistan dov’erano stati praticati degli innesti ha rilevato segni di crescita in almeno la metà. La squadra di Hussain ha anche documentato effetti ambientali e climatici positivi e un aumento della disponibilità di acqua. Ha perfino ricreato tutto il processo di trasporto del ghiaccio e di semina di un ghiacciaio per capirne meglio la tecnica e sensibilizzare la popolazione sulla sua utilità.
Il momento della semina
Questa e altre scoperte hanno spinto l’Onu e le autorità locali a tornare a interessarsi alla tradizione dell’innesto dei ghiacciai e a sostenerne il recupero come soluzione alla scarsità d’acqua. La fondazione per la cultura e lo sviluppo del Baltistan (Bcdf), per esempio, ha realizzato uno di questi innesti insieme alla comunità di Regayul il 22 ottobre 2023, e nei suoi video si può vedere come si svolge la “semina” di un nuovo ghiacciaio.
“I ghiacciai stanno scomparendo”, dice Ahmnad Nazir, che collabora con una delle ong che ha fatto quegli innesti. “Il cambiamento climatico ci lascia senz’acqua e fa aumentare le temperature. Quand’ero bambino non avevamo bisogno di ventilatori”. Nazir è stato uno dei supervisori del programma dell’agenzia Aga Khan nel 2000: “Abbiamo piantato diciassette ghiacciai, tutti sopra i 4.500 metri. Siamo riusciti a ricontrollarne solo quattro. Ma dopo quattro anni abbiamo visto che avevano attecchito. Erano più grandi, uno dei fianchi era già più lungo di dodici metri”.
L’Undp ha avviato il progetto Glof-II, che aiuta le comunità a preservare queste tradizioni per avere accesso all’acqua e per mitigare i danni causati dalle alluvioni. Sostiene anche altre strategie per la conservazione dell’acqua nelle valli più a rischio del Pakistan settentrionale, come la “raccolta delle valanghe” (che consiste nel trattenere con dei cavi la neve che si stacca) e la creazione di stupa di ghiaccio (l’acqua della valle è trasportata verso le zone più fredde ed è stoccata sotto forma di grandi coni di ghiaccio).
Uno sforzo sovrumano
L’innesto dei ghiacciai ha senso dal punto di vista scientifico? È quello che stanno cercando di determinare Sérgio Henrique Faria e il suo team del laboratorio del ghiaccio del Centro basco per il cambiamento climatico (BC3), che hanno incontrato Hussain durante una visita di una delegazione del Baltistan nel Paese Basco nel 2019. Erano interessati a saperne di più su questa tradizione. Nel giugno 2024 sono andati in Baltistan per cercare di localizzare uno dei ghiacciai “innestati”. Dopo tre giorni di trekking, però, arrivati a più di quattromila metri, hanno scoperto che la zona era coperta di neve e non si vedeva niente.
“Ci avevano dato il permesso di osservarlo da lontano, ma ci siamo arrivati sopra, quasi per caso”, spiega Lisa Kranz, ex ricercatrice del BC3 che faceva parte della spedizione. Cercavano lo stesso ghiacciaio studiato da Zakir Hussain. Hanno visto la costruzione in pietre e legno dov’era cominciato l’innesto. “Io stavo per lasciarci la pelle”, racconta Faria. “Quindi capisco benissimo perché questa pratica è stata abbandonata per così tanto tempo: devi scalare duemila metri, trasportare a spalla venti chili di ghiaccio del ghiacciaio maschio e venti di quello della femmina e arrivare al luogo dell’innesto. È uno sforzo immane”. A questo si aggiunge il fatto che oggi i giovani non sono interessati, e la tradizione si sta perdendo. “Vogliono possedere beni materiali, non fare esperienze spirituali o religiose”, sostiene Kranz.
Insieme a Marcela Brugnach (BC3), Sérgio Henrique Faria sta preparando un documentario con le registrazioni fatte nell’estate 2024 per un progetto finanziato dal governo basco per studiare la resilienza e gli adattamenti al cambiamento climatico in questa regione. Faria vorrebbe tornare nel Baltistan nel 2026 per prelevare i campioni di ghiacciaio che non è riuscito a ottenere durante la prima spedizione e approfondire la ricerca. “Uno dei nostri obiettivi è capire le basi scientifiche di queste pratiche e studiare se sono applicabili, per esempio, sulle Alpi.
Vogliamo studiare in laboratorio, a livello microscopico, le impurità dei cosiddetti ghiacciai maschi, e cercare di identificare meglio la tipologia fisica di questi materiali”. Gli abitanti del Baltistan considerano maschi i ghiacciai più scuri, caratterizzati da un mix di detriti e quasi sotterrati a causa dei frequenti smottamenti. I ghiacciai femmina invece sono quelli più superficiali, quasi trasparenti o azzurrini.
“A partire dal concetto di ghiacciaio maschio e femmina si è sviluppata una tecnologia ancestrale straordinaria”, spiega l’esperto del BC3. “Apparentemente la miscela tra l’uno e l’altro crea una condizione ottimale, con ghiaccio pulito a sufficienza per congelare altra acqua e abbastanza detriti che fungono da isolante termico. Forse è proprio questa combinazione a consentire alla massa di ghiaccio di accumulare più neve, crescere e formare un ghiacciaio”.
Anche Jakob Steiner, idrologo esperto di alte montagne asiatiche, ritiene che queste strategie di trasporto dell’acqua verso zone più elevate per conservarla sotto forma di ghiaccio abbiano senso, e che l’aggiunta di paglia, carbone e altri materiali sia un modo per mantenere il ghiaccio più a lungo. “È efficace per i problemi idrici che affliggono gli abitanti di un luogo specifico? Senza dubbio. Assicura più acqua per l’irrigazione, unisce la comunità, insegna ai giovani a conoscere l’ambiente in cui vivono, contribuisce alla gestione locale delle risorse e ha un valore spirituale”. Ma, aggiunge Steiner, non serve a risolvere tutti i problemi idrici della regione, né a impedire la scomparsa dei ghiacciai. Anche se forse non è mai stato questo l’obiettivo degli innesti. “Parliamo di quantità esigue di acqua, ma se quello di cui si ha bisogno è un volume ridotto, va benissimo. Sono soluzioni più efficienti di altre tecniche moderne che potenzialmente risolvono più problemi, ma sono costose e difficili da gestire, e quindi spesso rimangono sulla carta”.
◆ Secondo un rapporto dell’International centre for integrated mountain development (Icimod) uscito nel 2023, i ghiacciai dell’Hindu Kush – la regione himalayana che si estende per 3.500 chilometri attraverso l’Afghanistan, il Bangladesh, il Bhutan, la Cina, l’India, la Birmania, il Nepal e il Pakistan – entro il 2100 potrebbero perdere il 75 per cento del ghiaccio. Il rapido scioglimento dei ghiacciai, riserve d’acqua fondamentali per le regioni a valle, provocherà un aumento delle alluvioni e dei periodi di siccità, e scarsità d’acqua per i quasi due miliardi di persone che vivono lungo i dodici fiumi che hanno origine su quelle montagne. Stabilire l’impatto della crisi climatica su questa regione non è stato facile, perché manca un archivio storico di misurazioni sul campo. Nel 2019, però, gli Stati Uniti hanno declassificato una serie di immagini, scattate da satelliti spia, dei ghiacciai della regione risalenti al 1970, fornendo nuovi strumenti di analisi scientifica. E i progressi della tecnologia satellitare negli ultimi cinque anni, insieme all’intensificazione della ricerca sul campo, hanno permesso di saperne di più sui cambiamenti in corso sulle vette dell’Hindu Kush. Al Jazeera
“In questa zona, la più settentrionale del Pakistan, la criosfera sta cambiando”, spiega Miriam Jackson, componente dell’International cryosphere climate initiative (Icci). “I ghiacciai si stanno riducendo. Negli ultimi anni le gare di sci in programma a Gilgit sono state annullate per mancanza di neve”.
Anche se non esiste una letteratura scientifica sufficiente a sostegno degli innesti di ghiacciai, una pratica peraltro abbastanza sconosciuta fino a poco tempo fa, Jackson ammira l’ingegno e la perseveranza degli abitanti del Baltistan e “il loro impegno nel cercare soluzioni autonome a queste sfide”.
Capacità di adattamento
Oltre all’interesse scientifico, la pratica ha un grande fascino dal punto di vista umano e antropologico. Questa non è l’unica zona al mondo dove i ghiacciai sono considerati creature vive o addirittura sacre. “In altre zone del mondo, come in Canada o in Alaska, le comunità native hanno regole rigide su come comportarsi su un ghiacciaio per evitare di offenderlo”, spiega Faria. “Se mangi dei grassi su un ghiacciaio, per esempio, possono esserci conseguenze disastrose per te e per la tua comunità”.
Anche in occidente si sono svolte cerimonie funebri di addio ai ghiacciai, in Islanda e altrove. “Ci sono persone della Silicon valley che salgono sulla montagna per piangere la morte di un ghiacciaio”, dice l’esperto.
Il team del BC3 in Baltistan è rimasto sorpreso dalla capacità di adattamento al cambiamento degli abitanti di queste valli, e dal fatto che la loro visione del cosmo preveda delle soluzioni ai problemi in un ambiente così ostile. “Sappiamo che i ghiacciai scompariranno a causa della crisi climatica. Siamo andati nella valle di Hushe per vedere come la gente affronta questi cambiamenti”, spiega Brugnach, la regista del documentario in corso di lavorazione. “Mentre noi ci affanniamo a cercare soluzioni tecnologiche, queste persone hanno idee molto chiare sull’acqua, al punto da saper creare ghiacciai”, dice.
Specializzata in modelli di ecologia, scienze sociali e umanistiche, Marcela Brugnach spiega che il suo lavoro consiste nello studiare il modo in cui le persone prendono decisioni collettive in situazioni di incertezza. “Ci interessa un altro tipo di conoscenza, che non è scientifica ma che è importante considerare di fronte alla crisi climatica, perché ci parla dei rapporti di queste comunità con la natura e delle loro dinamiche”, spiega. “Durante l’esperienza che abbiamo vissuto, la nostra mentalità è cambiata. Siamo arrivati con le nostre idee oggettive per salvare il pianeta, ma queste persone convivono con i cambiamenti e si adattano alla natura senza problemi: siamo noi che dobbiamo imparare da loro”. ◆ fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1620 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati