Sono a Unguja, l’isola principale dell’arcipelago di Zanzibar. L’hotel sulla costa est dell’isola è così pieno che devo accontentarmi del dormitorio. E anche lì i posti scarseggiano. Sulle testiere dei letti ci sono dei cartellini con la scritta: “Occupato”.
Per fortuna trovo libero il posto in basso di un letto a castello e ci butto il mio zaino. Intorno a me ci sono vestiti, scarpe e borse sparpagliati sui letti. Mi rendo conto che stanotte dovrò condividere la stanza – una costruzione in legno e paglia – con altri dieci viaggiatori.
Mentre gli abitanti di gran parte dell’emisfero settentrionale devono rispettare le severe restrizioni imposte per il covid-19, l’arcipelago di Zanzibar, al largo della costa della Tanzania, è diventato il paradiso dei turisti affamati di sole e di contatto fisico. Qui non sono obbligatori il distanziamento e le mascherine, non si parla di contagi o di vaccini, ma solo di vacanze in spiaggia, come prima della pandemia. Il governo tanzaniano ha dichiarato di aver sconfitto il virus per far ripartire l’economia. Gli ultimi dati sui nuovi contagi e sui decessi risalgono al 29 aprile 2020. Nove mesi dopo il conteggio è ancora fermo a 509 casi, i centri che accoglievano le persone in isolamento sono stati chiusi e i turisti possono entrare nel paese senza dover dimostrare di essere negativi al covid-19. Circolano aneddoti su stranieri a cui è stato chiesto di togliersi la mascherina all’arrivo a Zanzibar o in Tanzania per non trasmettere il messaggio sbagliato.
Nel villaggio libero
Non si vedono tracce della pandemia neanche in uno degli hotel sulla spiaggia di Jambiani, un villaggio di pescatori. Donne in bikini prendono il sole intorno alla piscina. Sopra di me sento il vento frusciare tra le cime delle palme. La brezza che arriva dall’oceano è così calda e densa che mi si secca la gola. Raggiungo il bar, ordino un’acqua minerale e la bevo avidamente. Una famiglia polacca sguazza in piscina. I camerieri portano drink e gamberi fritti a una giovane coppia sotto un ombrellone. Lei viene dal Regno Unito, lui dalla Turchia, e Zanzibar è uno dei pochi posti al mondo dove tutti e due possono viaggiare senza dover rimanere in quarantena o sottoporsi ai test all’arrivo.
“Quand’è cominciata la pandemia, ho immaginato che il mondo si sarebbe diviso in due villaggi, ognuno con le sue regole. Uno con limitazioni rigide, l’altro per tutti i pazzi che vogliono viaggiare liberamente”, racconta Utku, 28 anni, di Istanbul. Il villaggio libero sembra essere molto popolare. Incontro turisti francesi con lo zaino in spalla, un ragazzo originario della Lettonia in cerca di divertimento, alcune famiglie tedesche e una viaggiatrice statunitense che sta girando il mondo per sfuggire alle restrizioni contro il covid. Prima era in Egitto, ma quando ha saputo della situazione a Zanzibar si è subito trasferita qui. Sulla spiaggia, nella luce soffusa che precede il tramonto, tra le grida dei ragazzi del posto che giocano a calcio in spiaggia, sento alcune famiglie e giovani coppie parlare tra loro in una lingua che non conosco. Parlano russo. Negli hotel vicini quasi tutti gli ospiti vengono dalla Russia. Questi alberghi hanno fatto un accordo con una grande agenzia di viaggi russa, la Anex Tour, che durante l’inverno manda ogni settimana migliaia di turisti in vacanza in paesi esotici. Secondo il sito Flightradar24, che tiene traccia del traffico aereo internazionale, ogni giorno a Zanzibar atterrano fino a tre charter da città come Kazan, Mosca e Novosibirsk. Per molti grandi hotel di Zanzibar il lavoro è aumentato improvvisamente alla fine di ottobre, quando alcune agenzie di viaggio russe hanno cominciato a organizzare dei voli diretti.
“I russi aiutano tante persone a Zanzibar. Hanno riportato un po’ di vita e riacceso la luce negli occhi dei nostri commercianti”, dice Abdulaziz Yussuf, direttore dell’hotel Tembo, un albergo dell’epoca coloniale a Stone Town, il centro storico della capitale di Zanzibar.
Mi offre un caffellatte così zuccherato che devo berlo a piccoli sorsi e mi fa sentire comunque un po’ su di giri. Siamo seduti a un tavolo di marmo da cui si vede il mare e i giovani che si esibiscono in salti acrobatici sulla spiaggia. La gente del posto e i turisti si affollano intorno a loro. Abdulaziz Yussuf mi chiede cosa penso del covid-19. Secondo lui il virus è un’invenzione delle élite occidentali per controllare il resto del mondo e soprattutto i paesi dove la popolazione sta crescendo più rapidamente. Poi loda il presidente della Tanzania, John Magufuli, definendolo un uomo coraggioso che ha smontato questa bufala. Nel maggio del 2020 Magufuli ha raccontato in tv di aver imbrogliato il laboratorio nazionale incaricato di svolgere i test sul covid-19 facendo esaminare dei campioni presi da frutti e animali. I risultati, sosteneva il presidente tanzaniano, mettevano in dubbio la credibilità dei test perché, nonostante fossero stati effettuati su una papaia e una capra, avevano dato risultati positivi. A giugno Magufuli ha dichiarato che il covid era stato eradicato dal paese grazie a Dio.
Preoccupazioni lontane
I turisti russi che incontro all’hotel di Jambiani ripetono le stesse cose che dichiara il presidente tanzaniano. “No corona in Zanzibar”, mi dice lo stilista e influencer russo Araik Krist Ishkhanyan, che ha un’impressionante barba nera e labbra carnose in modo innaturale. Come per rafforzare le sue affermazioni, si passa la mano sulla pelle nuda della guancia. Nessuno di noi indossa la mascherina, anche se all’hotel è appena arrivato un altro gruppo di turisti russi, tra i quali nessuno ha esibito il referto di test negativo. Comincio a rendermi conto che le parole di Magufuli sono una scusa perfetta, e che anch’io mi sono lasciata influenzare da quest’atmosfera di oblio, per certi versi molto conveniente. Qui le persone guardano storto i pochi che portano la mascherina, invece di rimproverare quelli che l’hanno lasciata a casa. Chi ha voglia di essere diverso dagli altri? Io no.
Chiedo ad Araik Krist se non senta il dovere di contribuire a limitare i contagi nel mondo. La Russia ha registrato quasi quattro milioni di casi. Lo scorso dicembre l’istituto di statistica nazionale ha pubblicato dei dati secondo i quali il numero dei morti potrebbe essere tre volte più alto di quello ufficiale (che era di 79.210 il 16 febbraio). Ma Araik Krist non sembra capire la mia domanda. Al suo posto risponde l’amica Nadezha Galanova, 30 anni, che traduce dal russo all’inglese con il telefono. La parola healthy, sano, appare sullo schermo. “Siamo sani”, dice con un sorriso sincero e quasi innocente.
Intanto il mare si è ritirato e la spiaggia è un paesaggio lunare con migliaia di pozzanghere. Una mamma russa gioca con il figlio in mezzo alla sabbia. Un po’ più in là un gruppo di donne con il cappello di paglia raccoglie delle alghe.
Al telefono Flemming Splidsboet Hansen, un esperto di Russia dell’Istituto danese di studi internazionali, mi spiega che i russi sono scettici rispetto alla pandemia: circa un terzo della popolazione è convinto che le autorità abbiano gonfiato i numeri per poter controllare meglio le persone. Inoltre, sostiene, l’idea che sia necessario fare un sacrificio personale limitando i contatti sociali non è molto popolare.
Dietro gli hotel sulla spiaggia, più all’interno rispetto all’oceano, c’è il villaggio, un gruppo di casette tra le palme. Futari Mrisho Amuri sta spaccando un grosso ramo con un machete per ottenere della legna da ardere. È una donna robusta di 36 anni e ha cinque figli. Dice di essere “nata e cresciuta a Jambiani”, dove vende snack su una bancarella. Il marito lavora in campagna. Le chiedo cosa pensa dei turisti europei e russi. “Dovrebbero stare a casa loro finché il virus non sarà sparito. Se nel mio villaggio circola una malattia, non vado a trovare quelli del villaggio vicino”, mi risponde con sincerità, mentre i figli giocano nella sabbia. È preoccupata soprattutto per loro, perché non sanno mantenere le distanze. Appena possono, corrono incuriositi tra le braccia dei wazungu, i bianchi.
È quasi impossibile sapere se i turisti stranieri a Zanzibar, oltre a far girare l’economia, stiano facendo girare anche il virus. Il governo censura le statistiche e i medici hanno paura di parlare. Un dipendente dell’ospedale di Makunduchi, a sud di Jambiani, racconta che da loro non si possono eseguire test e che solo il ministero della sanità conosce il numero dei contagiati. “Sono molto preoccupato. Dobbiamo stare attenti”, dice.
◆Mentre la Tanzania sostiene di aver debellato il covid-19 e non aggiorna il numero dei contagi, che è fermo a 509 da aprile del 2020, nei paesi vicini la pandemia avanza: in Kenya il 16 febbraio si registravano 103.014 casi, in Uganda 40.063 e in Ruanda 17.484.
◆Il 17 febbraio 2021 è morto il primo vicepresidente di Zanzibar, Seif Sharif Hamad. Il 31 gennaio aveva rivelato di essere stato ricoverato per covid-19. È raro che in Tanzania si parli della malattia. All’inizio di febbraio un giornalista del settimanale The Continent ha visitato quattro grandi ospedali di Dar es Salaam. Intervistando medici e infermieri è venuto a sapere che in quei giorni c’erano una quarantina di ricoverati “non ufficiali” per covid-19. Negli ospedali si eseguono i test molecolari e antigenici, ma i risultati non sono pubblicati, e le diagnosi spesso sono di “polmonite acuta”. I medici parlano con i giornalisti solo in forma anonima perché dire che nel paese c’è il virus è considerato antipatriottico e si rischia una denuncia. Anche nel bilancio dei morti i conti non tornano. In un programma quotidiano dell’emittente Radio One si legge la lista delle persone decedute quel giorno. Nell’ultimo mese la lettura è diventata sempre più lunga: cinquanta minuti, invece dei soliti dieci.
Molti abitanti di Zanzibar si chiedono se dovranno pagare un prezzo per il turismo di massa e quanto sarà alto. Poco prima di Natale è circolata la notizia di una morte misteriosa nell’hotel di lusso Park Hyatt. Il miliardario russo Igor Sosin è stato trovato morto nella sua stanza. Secondo alcuni mezzi d’informazione il miliardario si era già ammalato di covid-19 in primavera, ma le cause della morte sono ancora sconosciute.
Quando torno al mio albergo, la musica al bar è un misto di canzoni pop occidentali e hit africane. Ordino del pesce e dell’acqua minerale. Di fronte a me c’è Gosia Cwil, 30 anni, di Varsavia. Anche lei sta nel dormitorio. “Erano sei mesi che stavo da sola davanti al computer, è stata durissima”, mi racconta. “La cosa che mi mancava di più era parlare con la gente guardandola negli occhi”. Io intanto mangio il mio piatto di pesce, che è fritto, come quasi tutto quello che cucinano da queste parti. Per lei venire a Zanzibar è stato un modo per sopravvivere. Ha pensato che il virus ai tropici circolasse di meno, e che passando gran parte del tempo in spiaggia all’aria aperta non avrebbe contribuito a diffonderlo. “Qui mi sento libera”, dice prima di uscire nella notte scura e calda insieme ad altri ospiti del dormitorio.
Per un attimo sono tentata di seguirli, invece vado a dormire. Sento il mormorio dell’oceano e apprezzo di essere sola nello stanzone. Nel cuore della notte mi sveglio sudata e confusa mentre sento i miei vicini infilarsi nei loro letti. Nel posto accanto al mio qualcuno tossisce con insistenza. Mi fa l’effetto di una sveglia. La mattina sono la prima a alzarmi, faccio una doccia fredda e poi i bagagli.
In questo paradiso terrestre ci sono troppi serpenti in giro. ◆fc, pb
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1397 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati