C’è chi parla già della vita dopo il covid-19. Ma per la maggior parte di noi, soprattutto in quelle parti del mondo dove anni d’incuria programmata hanno devastato i sistemi sanitari, il peggio deve ancora venire. Senza letti di ospedale, ventilatori, test su larga scala, mascherine, disinfettanti e misure per chi è in quarantena, purtroppo molte persone non supereranno la prova.

Un conto è preoccuparsi della morte degli altri, lontano da noi. Un altro è prendere improvvisamente atto della nostra natura corruttibile, vivere nei pressi della nostra stessa morte, contemplarla come possibilità reale. Si spiega così, in parte, il terrore suscitato dal confinamento, da quest’obbligo di dover finalmente rispondere della propria vita e del suo nome.

Se ci sarà un “giorno dopo”, riguarderà per forza tutti gli abitanti della Terra. Potrà essere solo a costo di una gigantesca rottura, il prodotto di un’immaginazione radicale

Rispondere qui e ora della nostra vita su questa Terra insieme ad altri (compresi i virus) e del nostro destino in comune: ecco l’ingiunzione che questo momento patogeno rivolge alla specie umana. Momento patogeno, ma anche momento distruttivo per eccellenza: quello della decomposizione dei corpi, dello smistamento e dell’eliminazione di ogni sorta di rifiuti-persone, la “grande separazione” e il grande confinamento in reazione all’incredibile propagarsi del virus, in aggiunta alla digitalizzazione del mondo.

Eppure, per quanto proviamo a liberarcene, tutto ci riporta al corpo. Abbiamo provato a trapiantarlo su altri supporti, a farne un corpo-oggetto, un corpo-macchina, un corpo digitale. Lo vediamo tornare sotto la forma stupefacente di un’enorme mascella, veicolo di contaminazione, vettore di pollini, spore e muffa.

Sapere che non siamo soli in questa prova, che rischiamo di essere in molti a ritirarci, che molti non si salveranno offre solo una vana consolazione. Il motivo è che non abbiamo mai imparato a vivere con il vivente, a preoccuparci davvero dei danni provocati dagli esseri umani ai polmoni della Terra e al suo organismo. Non abbiamo, quindi, mai imparato a morire. Con l’avvento del nuovo mondo e, qualche secolo dopo, con la comparsa delle “razze industrializzate”, abbiamo sostanzialmente scelto, in una sorta di vicariato ontologico, di delegare la nostra morte ad altri e di fare dell’esistenza stessa un grande pasto sacrificale.

Presto, però, non sarà più possibile delegare la nostra morte ad altri. Gli altri non moriranno più al posto nostro. Non saremo solo condannati ad accettare, senza mediazione, il nostro trapasso. Ci saranno sempre meno possibilità di dirsi addio. L’ora dell’autofagia è vicina e, con questa, la fine della comunità, poiché non esiste comunità degna di questo nome là dove non è più possibile dire addio, ovvero ricordare il vivente.

La comunità, o meglio l’in-comune, non si fonda solo sulla possibilità di dire arrivederci, di prendere cioè con altri un appuntamento unico, da rispettare ogni volta. L’in-comune si fonda anche sulla possibilità di una condivisione incondizionata e sempre da ricominciare di qualcosa di assolutamente intrinseco, in altre parole di non numerabile, incalcolabile, quindi senza prezzo.

Il cielo si fa sempre più buio. Stretta nella morsa dell’ingiustizia e delle disuguaglianze, buona parte dell’umanità è minacciata dal grande soffocamento, e si diffonde la sensazione che il nostro mondo abbia i giorni contati. Se, in queste condizioni, ci sarà un “giorno dopo”, non potrà essere a scapito di alcuni, sempre gli stessi, come succedeva nell’ancienne écono­mie, l’economia che ha preceduto questa rivoluzione. Riguarderà per forza tutti gli abitanti della Terra, senza distinzione di specie, razza, sesso, cittadinanza, religione o altri marcatori di differenza. In altre parole, potrà essere solo a costo di una gigantesca frattura, il prodotto di un’immaginazione radicale.

Un semplice rattoppo non basterà. In mezzo al cratere, bisognerà letteralmente reinventare tutto, partendo dal sociale. Se lavorare, fare la spesa, informarsi, restare in contatto, alimentare e mantenere i legami, parlarsi e interagire, bere insieme, celebrare un culto o organizzare un funerale, se tutto questo avviene solo attraverso degli schermi, è ora di capire che siamo circondati da ogni lato da anelli di fuoco. Il digitale è in larga misura il nuovo buco scavato nella Terra dall’esplosione. Al tempo stesso trincea, tunnel e paesaggio lunare, è il bunker dove l’uomo e la donna isolati sono invitati a rifugiarsi.

angelo monne

Crediamo che per mezzo del digitale il corpo in carne e ossa, il corpo fisico e mortale sarà liberato dal suo peso e dalla sua inerzia. Al termine di questa trasfigurazione, potrà finalmente attraversare lo specchio, sottratto alla corruzione biologica e restituito all’universo sintetico dei flussi. È un’illusione, perché proprio come non ci sarà un’umanità senza corpo, così l’umanità non conoscerà la libertà sola, al di fuori della società o a scapito della biosfera.

Serve un nuovo inizio. Per sopravvivere, dobbiamo restituire a tutto il vivente (compresa la biosfera) lo spazio e l’energia di cui ha bisogno. Sul suo versante oscuro, la modernità è stata dall’inizio alla fine un’interminabile guerra contro il vivente. L’assoggettamento al digitale è una delle modalità di questa guerra, che porta dritto all’impoverimento del mondo e al disseccamento di intere zone del pianeta.

C’è da temere che il mondo, dopo questa calamità, entri in una nuova fase di tensione e di brutalità invece di proteggere tutte le specie. Sul piano geopolitico, continuerà a prevalere la logica della forza e della potenza. Senza un’infrastruttura comune, la feroce spartizione del mondo si accentuerà e le linee di segmentazione si moltiplicheranno. Molti stati cercheranno di rafforzare le loro frontiere nella speranza di proteggersi dal mondo esterno. Faticheranno a reprimere la loro violenza costitutiva, scaricandola come sempre sui più vulnerabili. La vita dietro gli schermi e nelle aree residenziali protette da compagnie di sicurezza private diventerà la norma.

Soprattutto in Africa e in altre regioni del sud del mondo, le attività estrattive energivore, lo sfruttamento e il saccheggio delle terre e la distruzione delle foreste andranno avanti. Se non fosse così, ne andrebbe dell’alimentazione e del raffreddamento di chip e supercalcolatori. L’approvvigionamento e il trasporto delle risorse e dell’energia necessarie all’infrastruttura informatica mondiale si faranno a costo di una maggiore restrizione della mobilità umana. Tenere il mondo a distanza diventerà la norma, per scacciare i rischi di ogni genere. Ma dal momento che non affronta la nostra precarietà ecologica, questa visione del mondo ispirata alle teorie dell’immunizzazione e del contagio non ci permetterà di uscire dal vicolo cieco planetario in cui ci troviamo.

Tutte le guerre contro il vivente cominciano togliendo il fiato. Ostacolando il respiro e la rianimazione dei corpi e dei tessuti umani, il covid-19 s’inserisce in questa traiettoria.

In cosa consiste infatti il respiro se non nell’assorbimento di ossigeno e nell’eliminazione di anidride carbonica, o anche in uno scambio dinamico tra sangue e tessuti? Ma se consideriamo il ritmo della vita sulla Terra e quel che resta della ricchezza del pianeta, siamo forse così lontani dal momento in cui ci sarà più anidride carbonica da inalare che ossigeno da respirare?

Prima di questo virus, l’umanità rischiava già di soffocare. Se guerra ci dev’essere, dovremo quindi combattere non contro un virus in particolare, ma contro tutto ciò che condanna la maggior parte dell’umanità a un’interruzione prematura del respiro, tutto ciò che attacca fondamentalmente le vie respiratorie, tutto ciò che, sul lungo periodo del capitalismo, ha costretto interi segmenti di popolazioni e intere razze a un respiro affannoso, ansimante, a una vita di oppressione. Ma per cavarcela, dobbiamo concepire il respiro al di là dei suoi aspetti puramente biologici, come ciò che ci accomuna e che, per definizione, sfugge a ogni calcolo. Così facendo, possiamo parlare di un diritto universale al respiro.

Essendo al tempo stesso extraterritoriale e terreno comune, il diritto universale al respiro non è quantificabile e non è possibile appropriarsene. In termini di universalità, è un diritto non solo di ogni componente della specie umana ma del vivente nel suo insieme. Deve quindi essere concepito come un diritto fondamentale all’esistenza. In quanto tale, non può essere confiscato e sfugge a qualsiasi sovranità, perché riassume in sé il principio di sovranità. È inoltre un diritto originario di abitare la Terra, un diritto proprio alla comunità universale degli abitanti della Terra, umani e non.

Il processo è già stato intentato mille volte. Conosciamo a memoria i principali capi d’accusa. Che si tratti della distruzione della biosfera, della conquista delle menti da parte della tecnoscienza, del logoramento delle resistenze, dei ripetuti attacchi contro la ragione, del rincretinimento delle menti, dell’ascesa dei determinismi (genetico, neuronale, biologico, ambientale), i pericoli per l’umanità sono sempre più esistenziali.

Di tutti questi pericoli, il più grave è che ogni forma di vita sia resa impossibile. Tra chi sogna di caricare la nostra coscienza su una macchina e chi è convinto che la prossima mutazione della specie sia l’emancipazione dal suo involucro biologico, la differenza è minima. La tentazione eugenista non è scomparsa. È anzi alla base dei recenti progressi scientifici e tecnologici.

Intanto, però, si è verificata questa brusca battuta d’arresto, non della storia ma di qualcosa che fatichiamo ancora a capire. Quest’interruzione forzata non è frutto della nostra volontà. Sotto vari aspetti, è al tempo stesso imprevista e imprevedibile. Serve invece un’interruzione volontaria, cosciente e pienamente consensuale, perché altrimenti non ci sarà un dopo. Non ci sarà altro che una serie ininterrotta di eventi imprevisti.

Se il covid-19 è l’espressione spettacolare del vicolo cieco planetario in cui si trova l’umanità, bisogna ricomporre una Terra abitabile che offra a tutti la possibilità di una vita respirabile. Bisogna riprendere in mano le risorse del nostro mondo per creare nuove terre. L’umanità e la biosfera sono collegate. L’una non ha futuro senza l’altra.

Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza alla stessa specie e il nostro indivisibile legame con l’insieme del vivente? È questa, forse, l’ultima domanda da porsi prima che la porta si richiuda, una volta per tutte. ◆ fs

Achille Mbembe

è un filosofo camerunese. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Critica della ragione negra _(Ibis 2019).Questo articolo è uscito sul Mail & Guardian con il titolo _The universal right to breathe.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1372 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati