17 novembre 2018 15:30

“Colui che lotta può perdere, ma colui che non lotta ha già perso”.
Bertold Brecht

Si comincia con il telegiornale. Un servizio mostra le proteste in una fabbrica che la proprietà si era impegnata a mantenere in attività in cambio della soppressione di diversi diritti dei lavoratori. La direzione fornisce come spiegazione l’assenza di competitività, ormai un classico leit motiv dell’ideologia liberista. Segue una conversazione concitata con il padrone della fabbrica e un rappresentante degli operai in protesta. “Andate a spiegare ai lavoratori di un’azienda che quest’anno ha fatto il 17 per cento in più dei profitti che perderanno il lavoro perché l’azienda non è competitiva”. Vogliono che rispettino la parola data, come loro l’hanno rispettata.

“Quando l’accordo non vi fa più comodo, allora non c’è più!”. “Chi nega l’evidenza? Chi cerca di salvare il proprio lavoro oppure chi ha intascato milioni di euro sfruttando quei lavoratori?”, aggiunge un altro. Il primo rappresentante, aggiunge: “O mantenete la parola e noi torniamo a lavorare oppure non mantenete la parola e noi continuiamo a bloccare la produzione e la merce. Non si discute!”. Seguono un suono pulsante e le immagini mosse, ma senza eccesso, di una manifestazione per le strade dei dipendenti della fabbrica. La musica arriva al culmine per cessare improvvisamente. Su schermo nero appare il titolo: In guerra.

Presentato in concorso all’ultimo festival di Cannes, il nuovo film di Stéphane Brizé è un importante film di contesto in senso ampio. In guerra è anche un film appassionante, intenso quanto claustrofobico, perché siamo sempre nella fabbrica, oppure nel suo cortile, oppure negli uffici della direzione, o ancora nella portineria del Medef (l’equivalente di Confindustria in Francia). Sempre al chiuso, sempre concentrati sulla questione, senza via di scampo, per loro come per lo spettatore, di uscire da questa densa cappa. Forse, da un vicolo cieco, da una fine ineluttabile. Forse. Perché bisogna ricordarsi della frase di Brecht che precede il prologo del film.

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Il primo contesto che In guerra crea, evoca, è il clima attuale sociopolitico in molti paesi democratici. Lo stile cinematografico è apparentemente televisivo. È lo stile mimetico, come si dice: fa uso di due registri filmici, sempre molto ben amalgamati, che il prologo già contiene. Uno stile naturalistico con il quale vengono filmati gli incontri con la direzione o le riunioni tra gli stessi operai. E uno più sperimentale, quello della manifestazione, che ha diverse varianti. Compreso l’inserimento dei reportage televisivi. Il film in quei momenti prende infatti il formato della televisione. Per poi tornare subito allo spazio largo e alto (anche in termini di contenuti) del formato cinematografico.

Restando sempre interessante e molto vivo grazie a un lavoro di grande livello sulla naturalezza dell’interpretazione – il consiglio è quello di vederlo in lingua originale – assistiamo in maniera ravvicinata, in questo film su una collettività di uomini e donne messa sotto attacco ma che tenta l’impossibile contrattacco, a tutti i processi interlocutori che esasperano progressivamente gli operai, dividendoli, lacerandoli.

Una filosofia sempre valida
Il secondo contesto che il film riproduce è quello di una sottile, molto sottile, operazione di tortura, con un fine distruttivo: dividi et impera, una filosofia antica adattata all’era moderna. Brizé fa lungo il film un uso sottile delle musiche, dei suoni, dell’estetica fotografica e della regia. Si succedono inquadrature statiche della fabbrica vuota, quasi una visione del suo (non) futuro, con in sottofondo musica pulsante, e della comunità dei lavoratori all’aperto riuniti in maniera conviviale malgrado la situazione, per poi tornare alla fabbrica vuota. Immagini dalla fotografia nitidissima, dove il film trova una prossimità con la video-installazione o certa fotografia concettuale. Creando un climax, un’atmosfera, di attesa e di sospensione, adatta all’evocazione del contesto. Quella, ovviamente, di una guerra sul punto di esplodere.

La protesta attira l’interesse del sindaco della località, poi del ministero del lavoro, infine della presidenza della repubblica che invia un consigliere a seguire la vicenda. Si indovina che il film è stato concepito quando al potere c’era ancora il Partito socialista, in teoria un potere amico. Pian piano, per via del fatto che l’azienda madre che chiude e delocalizza è tedesca, appare evidente una politica svuotata di gran parte del suo potere, più simile a una forma di rappresentanza simbolica e di auspicio morale. Gli innumerevoli incontri con la dirigenza francese portano a possibili soluzioni concrete che il governo appoggia ma non può imporre.

Altri frammenti di dialogo – dialoghi molto ricchi e lavorati anche nelle sfumature – illustrano bene la questione.

“L’accordo è servito a farci tornare competitivi”, afferma uno dei dirigenti francesi. Affermazione alla quale si oppongono dati concreti come il fatto che tra “due anni ci sarà il 50 per cento delle persone che vivono del sussidio di disoccupazione. Ci sono famiglie che esploderanno, questo lo sanno tutti”. E ancora: “I dipendenti non hanno voglia di essere presi per delle semplici variabili degli azionisti. Se l’azienda è in difficoltà allora perché dal resoconto degli azionisti che noi abbiamo viene fuori che gli azionisti hanno aumentato il loro dividendo del 25 per cento senza parlare del compenso dell’amministratore del gruppo tedesco che è aumentato del 18 per cento? Il che porta il suo stipendio a nove milioni di euro all’anno!”.

Se il governo è svuotato di sostanza, impotente, allora si scelgono altre azioni simboliche, o anche strade più forti

Aree dismesse, zone sempre più depresse, in una deriva sociale che non si ferma, che non cessa mai. Se le persone che vivono del sussidio di disoccupazione non faranno altro che aumentare, allora come vivranno? Questo in paesi come la Francia, dove il taglio della spesa pubblica è continuamente richiesto perché i bilanci statali devono rimanere sotto controllo, in qualche modo quindi competitivi, nel confronto liberista imposto dalla globalizzazione. Un vicolo cieco, forse una fine ineluttabile, come detto in apertura. Questo è il terzo contesto, quello della politica e dei poteri finanziari internazionali.

Ma prima di approfondirlo, continuiamo ancora un po’ con il secondo. Perché se il governo è svuotato di sostanza, impotente, ridotto a pura rappresentanza simbolica, allora si scelgono altre azioni simboliche, o anche strade più forti. Come l’arrivo in massa nella sede del Medef, la Confindustria francese, per chiedere un incontro con il suo presidente perché costringa il presidente del gruppo tedesco a riceverli. Dopo lunga attesa e trattativa, sembrano averla vinta. Ma poi il presidente si defila. Arrabbiati e sempre più indignati per questa assoluta assenza di rispetto e sensibilità, si faranno buttare fuori dalla polizia.

Alla fine il governo ottiene però un successo. Il presidente del gruppo tedesco accetta di incontrarsi con una delegazione degli operai. Ma gli viene fatto presente che l’industriale vuole prendere aiuti dallo stato per poi chiudere la fabbrica e trasferirla in Romania dove il lavoro è pagato cinque volte meno caro. Cosa ne sarà di loro, cosa diventeranno?, chiedono. In Inghilterra, Spagna, perfino in Germania, tre fabbriche che avevano ricevuto aiuti hanno chiuso in otto anni, mentre il gruppo tedesco cresceva del 38 per cento, ricordano. La sostanza però resterà inalterata. Aggiungendo al leit motiv della competitività quello della redditività.

Un microcosmo
Ma a quel punto la violenza, la rabbia di una parte del personale esplode. I mezzi d’informazione li rovinano forse definitivamente nel riportare quelle immagini, quegli episodi certamente gravi ma del tutto isolati dalle dinamiche che hanno portato a questo comportamento. Dal contesto. Quanta piccola borghesia, quanti commercianti, insegnanti, professionisti penseranno che sono degli esaltati, dei folli, dei violenti endemici tipici della sinistra radicale. E arriviamo appunto al terzo contesto, quello della politica e dei poteri finanziari internazionali. Perché in fondo il film, nel riprodurre con grande accuratezza il confronto tra operai, padronato e meccanismi economici, riproduce all’interno di questo microcosmo claustrofobico – non per sua scelta, ma per necessità – quelli che sono grosso modo i temi in cui si dibatte attualmente la sinistra. È fuori campo, per meglio esser messa in campo. La sua assenza fa meglio percepire la necessità di una sua presenza forte.

Ritorno al sovranismo oppure no? Il film pone la questione, in maniera indiretta e insieme diretta. Perché è evidente che pare auspicabile un rinnovo in chiave sociale e con un controllo realmente democratico di strutture effettivamente tecnocratiche come l’Unione europea. Ma pare difficile che nel frattempo le persone, gli umili come pure la classe media che sta implodendo a livello globale, riescano a resistere oltre e forse bisognerà allora pensare a temporanei accordi tampone che permettano subito il ritorno di alcune forme di sovranismo, in attesa che si riformulino le regole dell’Unione e della globalizzazione. Non c’è dubbio, tra l’altro, che le ultime elezioni in Usa possano segnare un punto importante di svolta, perché non segnano soltanto il successo di tante donne o membri della comunità lgbt, ma perché tutti costoro sono stati eletti all’insegna di un programma fortemente sociale.

Oggi ci si accorge che non c’è futuro per il pianeta stesso senza solidarietà e senza ecologia. Sembrano averlo un po’ troppo dimenticato le formazioni politiche di destra e sinistra classiche. Questo è il contesto.

Intanto, ai personaggi di questo film che ha praticamente tre finali, e in particolare al suo straordinario protagonista interpretato da Vincent Lindon, non restano altro che l’attesa e la speranza in un miracolo. Oppure resta la possibilità di un atto estremo e insieme inedito che rovesci l’asettico e mostruoso meccanismo dei mezzi d’informazione e la percezione che l’opinione pubblica ha delle ragioni della classe operaia, dando così alla stessa un insperato sbocco di speranza.

Non si possono non spendere alcune parole per Lindon, grazie al quale l’operaio diventa quasi carne della sua carne, facendo corpo con la massa pur emanando forte semplicità e autenticità. Spicca tra loro pur restando uno di loro. Ricorda gli attori popolari di un tempo, quasi un moderno Jean Gabin, l’attore feticcio e amatissimo del cinema del Fronte popolare, che in film capolavoro come Alba tragica (1939) di Marcel Carné (sceneggiatura di Jacques Prévert) interpretava la parte di un operaio disperato colpevole di omicidio e barricatosi in casa circondato dalla polizia. Ma un Gabin rielaborato nel contesto moderno, immerso in un film che ci porta con prosaicità nel mondo operaio attuale. Un film in guerra, che pone le questioni gravi con gravità, ma tutt’altro che privo di umanità ed empatia. Malgrado il contesto.

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