Nelle ore e nei giorni successivi alla morte di Sarah Hegazi (che si è tolta la vita il 14 giugno in Canada) continuavo a guardare la foto che circolava dopo il suo arresto nel 2017: mostra una giovane raggiante sullo sfondo dei cieli inquinati del Cairo e delle luci scintillanti di un concerto della band libanese Mashrou’ Leila. Sollevata al di sopra della folla, probabilmente sulle spalle di qualcuno, con le braccia alzate. La bandiera arcobaleno che stringe tra le mani le cade sulla schiena, come un mantello.

Mi tormentava la gioia che leggevo nei suoi occhi. La lucentezza. Come se non sentisse il peso del suo essere. Incurante, si avvolgeva la bandiera intorno alle spalle. Non è un’immagine di sfida, ma di serena presenza. In un singolo momento di leggerezza, aveva abbassato la guardia, e si era concessa di essere in pace con se stessa. Magari perfino orgogliosa. Sembrava libera. È per questo che quella foto ha rappresentato una minaccia così grande per i suoi persecutori. Perché conteneva una fuggevole allusione al fatto che in Egitto felicità e libertà potrebbero essere possibili anche per persone come noi.

In Medio Oriente non vedevo segni di identità queer intorno a me

Come arabe e arabi queer, appartenenti alla comunità lgbtq+, impariamo a sopravvivere ancora prima di sapere a cosa dobbiamo sopravvivere. Impariamo quali sono i modi socialmente accettabili di camminare e parlare. Come indossare la nostra mascolinità o femminilità per non finire nei guai. Come organizzare realtà intricate, vivere vite plausibili. Irrigidiamo i polsi se diventano troppo sciolti, controlliamo i fianchi se cominciano a ondeggiare troppo e indossiamo vestiti rosa anche se vorremmo i jeans.

Scolpiamo delle maschere, e per lo più continuiamo a indossarle. Anche se conduciamo vite di successo nelle città del Medio Oriente, conosciamo amici e amanti, ci creiamo spazi sicuri e coltiviamo relazioni, ci costruiamo una casa e una carriera, continuiamo a vivere ai margini. Perché nel migliore dei casi questo mondo ci cancella davanti alla legge e nel peggiore ci condanna a morte. Cerchie sociali che nel migliore dei casi ci tollerano, nel peggiore ci ostracizzano e ci allontanano.

Alcune di noi se la cavano meglio di altre. Alcuni prosperano, altri vacillano. Alcune interiorizzano il loro personaggio pubblico, altre l’odio ricevuto. Alcuni si nascondono, altri fuggono. Alcune accettano matrimoni eterosessuali, altre ne escono, ma la maggior parte vive in un limbo, senza sgretolarsi né trionfare. Poi ci sono le anime coraggiose, come Sarah Hegazi, che vivono la verità perché tutti vedano, permettendoci di sognare una realtà dove la nostra sessualità non definisce chi siamo. Forse i tempi stanno cambiando, ci diciamo. Forse possiamo abbassare un po’ la guardia. Per affermare noi stessi e noi stesse, e saggiare i confini del nostro mondo. Ma ecco che poi arriva il crudele risveglio. Chiunque di noi avrebbe potuto essere Sarah, con il suo gesto spensierato in una notte di festa. La sua felicità è stata ripagata con l’arresto, le torture per mezzo di scariche elettriche, gli abusi sessuali e l’esilio in Canada. Un promemoria del fatto che le persone
queer devono sempre tenere le maschere a portata di mano.

Lutto collettivo

Nelle ore e nei giorni dopo la sua morte il mio telefono ha squillato senza sosta. Non conoscevo Sarah di persona e non avevamo amici in comune, perciò mi ha meravigliato quanto intimamente sentissi la sua perdita. I messaggi che mi arrivavano dicevano che per altre persone era lo stesso. In modo naturale ci siamo riunite in gruppi per elaborare il lutto, da Londra a Boston passando per Lisbona, da Amman a Beirut passando per Haifa. Cosa c’era nella storia di Sarah che toccava tutte e tutti in questo modo? Masochisticamente ho cominciato a scorrere i post sui social network. Ogni volta che qualcuno esprimeva solidarietà sentivo un’esplosione di speranza. Qualcuno ci vede. Molti hanno espresso cordoglio e sostegno. Abbiamo bisogno di alleati, di privilegiati che possano parlare per noi, e che possano essere ascoltati in modi a noi preclusi.

Ma la valanga d’odio è stata schiacciante. Sembrava che le persone non riuscissero a decidere quale aspetto di Sarah era più oltraggioso. Facevano a gara nei giudizi per affermare il loro arrogante moralismo. Non riuscivo a capire cosa li irritasse di più, se il suo essere queer, atea, comunista o femminista. Tutti tratti ugualmente criminali, a quanto pare, perché i detrattori citavano infiniti versetti dai libri sacri per giustificare l’odio.

Non meno oltraggioso, ovviamente, è stato il modo in cui è morta. Per loro chi si toglie la vita deve bruciare all’inferno e non merita compassione. Nemmeno un sospetto che Sarah non si sia tolta la vita, ma che sia stata uccisa dalla piccolezza della nostra società e dalla sua incapacità di fare spazio all’ampiezza dell’umanità. Ho cercato di non farmi turbare da quei commenti, ma avevo dimenticato quanto possono essere pericolose le parole spregevoli. Perché l’idea di una donna lesbica, atea e comunista, suscita un’ondata di violenza pubblica, riprovazione religiosa e odio patriarcale? Ovviamente conosciamo la risposta a questa domanda. Non c’è nulla di più spaventoso della minaccia dell’insicurezza. Le nazioni arabe, in tutta la loro potenza, tremano davanti al volto di una giovane donna felice.

Un solo tipo di normalità

La morte di Sarah Hegazi mi ha riportato alla mente le riflessioni del giornalista libanese Samir Kassir sull’infelicità araba: il senso di inadeguatezza che permea il nostro mondo è così schiacciante e pervasivo, così totalmente paralizzante, che molti pensano sia più facile andarsene.

È una scelta dolorosamente familiare. Quando sono cresciuto in Medio Oriente non vedevo segni di identità queer nell’ecosistema intorno a me. Prima di internet, avevo insegnato a me stesso quanto pericolose fossero le voci nel mio animo intente a sussurrarmi che ero gay. Dovevano essere annientate. Bisognava conformarsi o sparire. Questo è il messaggio che, consapevolmente o maliziosamente, ci viene inculcato. C’è solo un tipo di normalità. Di fronte a questa scelta ho tenuto a distanza una parte di me, come fanno molti e molte di noi. Sono stato abbastanza privilegiato perché ho avuto la possibilità di fare quella che Kassir chiama la “fuga individuale”. Mi sono costruito una casa a Londra. Molte altre persone hanno scelto di vivere fuori del Medio Oriente. Impregnati del nostro privilegio, portiamo con noi, oltre a tanta nostalgia, un immenso senso di colpa per aver avuto la possibilità di fuggire.

Esilio è una parola troppo forte: straniamento forse è più adatta. Potevamo scegliere di restare. Molti lo fanno senza rimpianti, altri sono soffocati dalla tirannia di ciò che intorno a loro è ritenuto normale. Molti altri non hanno la possibilità di scegliere. Ma ecco una cosa che non sapevo quando ho deciso di vivere a Londra: che la casa la portiamo nel cuore. Sia che restiamo sia che fuggiamo, lo straniamento ci riguarda allo stesso modo. I messaggi arrivati al mio telefono mostravano che il nostro dolore non conosceva frontiere. Perché una persona può essere esiliata dalla propria famiglia e dalla propria comunità anche quando non va da nessuna parte.

Dobbiamo ancora prendere atto collettivamente della violenza intrinseca di sentirsi dire, esplicitamente o no, che non siamo benvenuti a casa nostra. La tragedia di Sarah Hegazi ha toccato tanti e tante perché è stata la versione estrema di quello che tutti viviamo. Era fuggita per vivere in sicurezza in Canada. Questa avrebbe dovuto essere la fine della sua tragedia, non un altro capitolo di dolore. Avrebbe potuto avere una vita felice, dicono alcuni. Ma chi di noi è fuggito lo sa benissimo. I nostri traumi li portiamo con noi in terre straniere, e lì creano delle metastasi. La separazione geografica può dare sicurezza fisica, ma l’espulsione da casa alla fine ci dilania. La morte di Sarah, da sola a Toronto, è stata la conferma di tutto ciò di cui abbiamo paura: morire da soli, lontano da casa, giudicati e odiati dalle nostre società, perfino dopo la morte.

L’accusa che mi amareggia di più è quella di essere agenti stranieri. Quella secondo cui le nostre menti sono state colonizzate. Occidentalizzate. Senza dio. Corrotte da valori per i quali non c’è posto nel mondo arabo. Mentre il capitalismo statunitense inonda le nostre strade e gli strumenti di sorveglianza israeliani armano i nostri dittatori, è la donna avvolta in una bandiera arcobaleno a essere l’emblema dell’agente straniero corruttore.

Ma siamo prodotti di quello stesso mondo. Veniamo dall’Arabia Saudita e dalla Palestina, dalla Giordania, dal Qatar e dal Bahrein, e respiriamo la stessa aria che respirano tutti. Amiamo lo stesso cibo e la stessa musica che amano tutti. Condividiamo la stessa vita politica e le stesse battaglie. Votiamo per i partiti islamici e siamo laici. Siamo, per nascita e per scelta, arabi e arabe queer. E lasciatecelo dire, siamo una moltitudine.

L’identità araba è così fragile da poter sopravvivere solo se è omogenea? Immaginate un’identità araba abbastanza forte da comprenderci tutti. Forse il mio è un idealismo ingenuo. Forse Sarah aveva ragione quando ha scritto che il cielo è più dolce di questa terra. Non c’era bisogno di spiegare quale dei due stesse scegliendo. Chi può fargliene una colpa?

Sono andato in frantumi quando ho sentito Hamed Sinno, il cantante dei Mashrou’ Leila, prendere le ultime parole scritte da Sarah prima di suicidarsi e dargli vita con la sua voce carica di passione. Indossando una maglietta con scritto “Ma la nostra terra vive dentro di noi”, ha catturato il nostro dolore, e la consapevolezza che la patria, come l’esilio, rimangono nei nostri cuori. La voce di Sinno, che mi aveva dato spazio per sognare, mi ha anche permesso di provare dolore. Di piangere, non solo la morte di Sarah, ma anche il prezzo da pagare per la nostra rivoluzione, per essere accettati. Il prezzo da pagare perché le nostre vite un giorno non debbano più essere accessorie.

Non ci siamo ancora. Ma ci arriveremo, perché non ce ne andremo, e per l’amore che proviamo per questa regione ci rifiutiamo di essere subordinati a un’impossibile negazione di noi stessi.

Mentre s’incammina verso il cielo, Sarah ci ricorda che dobbiamo vivere nella nostra interezza, con tutte le caotiche, dolorose contraddizioni che ci rendono umani. Le nostre vite non sono accessorie. Né lo era la sua. Rest in power, compagna. ◆ fdl

Tareq Baconi è un analista dell’International crisis group che vive a Londra.

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Questo articolo è uscito sul numero 1367 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati