Per evitare di attirare l’attenzione, la riunione si doveva svolgere fuori dalle stanze delle Nazioni Unite, nella sede ginevrina dell’International service for human rights (Ishr), una organizzazione non governativa (ong) svizzera per la difesa dei diritti umani. Il 16 marzo 2024 una quindicina di persone che lavorano per le ong, tra cui anche alcuni uiguri e tibetani, dovevano incontrare l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu (Ohchr) Volker Türk, che voleva raccogliere le loro testimonianze sulla situazione delle loro comunità all’interno della Repubblica Popolare Cinese. Tutti i partecipanti erano arrivati un po’ prima dell’orario previsto, alle 11.30, e discutevano in attesa di Türk, quando quattro persone in abito scuro si sono presentate alla reception: cittadini cinesi che non erano stati invitati.

“Posso aiutarvi?”, ha chiesto un’addetta all’accoglienza. Rimanendo sul vago i visitatori hanno detto di aver sentito parlare di una riunione sui diritti umani. “Ci piacerebbe saperne di più e partecipare”, hanno spiegato. Interrogati sulla loro identità, si presentano come appartenenti all’Associazione per i diritti umani del Guangdong, una provincia cinese. L’impiegata chiude lì la conversazione e i quattro visitatori se ne sono andati.

Cos’erano andati a fare a una riunione a porte chiuse? Quello che fanno spesso alle Nazioni Unite: raccogliere informazioni e far in modo che chi critica il regime cinese sappia di essere osservato. Ne è convinto Raphaël Viana David, responsabile del programma Cina e America Latina nell’Ishr. “Se erano lì, significa che sapevano cosa stava succedendo. Possiamo quindi avere fondati sospetti del fatto che non cercavano di informarsi, ma di far passare un messaggio a tutti i presenti: la Cina vi tiene d’occhio”. Uscendo per fumare una sigaretta, inoltre, due partecipanti uiguri avevano notato parcheggiato davanti all’edificio un furgone nero con i vetri oscurati, da cui sporgeva l’obiettivo di una macchina fotografica puntato verso di loro. Poco dopo hanno visto i quattro individui in abiti scuri entrare nel veicolo.

Raccontare bene la Cina

Frequentatore abituale di eventi delle Nazioni Unite, Raphaël Viana David afferma di aver riconosciuto due delle quattro persone che si erano presentate quella mattina di marzo: Zhou Lulu, vicedirettrice e segretaria del Partito comunista all’istituto dei diritti umani dell’università di Canton (Guangzhou) e Wang Shuqi, assistente al centro di ricerca sui diritti umani dell’università di diritto e scienze politiche della Cina nordorientale. Entrambe prendono regolarmente la parola in occasione di “manifestazioni parallele” nel corso di sessioni del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Unhrc), organizzate da “ong” cinesi accreditate presso l’Onu. Queste organizzazioni, ufficialmente “non governative”, non hanno nulla a che vedere con le associazioni della società civile note per difendere le cause legate ai diritti umani. La maggior parte delle organizzazioni cinesi che si autodefiniscono “ong” all’Onu sono in realtà legate allo stato o al Partito comunista cinese. Un fenomeno talmente diffuso da aver generato un neologismo, gongo, che sta per “organizzazione non governativa organizzata dal governo”.

Se da un lato sono molti i regimi autoritari che usano le gongo, “la Cina si distingue per qualità e quantità”, osserva un dipendente dell’Ohchr che preferisce mantenere l’anonimato. In un rapporto pubblicato il 28 aprile, l’Ishr stimava che delle 106 organizzazioni cinesi accreditate all’Onu nessuna sembra essere davvero indipendente. Secondo un’inchiesta condotta da Le Monde e dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij), almeno 46 sono dirette in parte da persone che occupano anche posizioni ufficiali nel Partito comunista o negli organi statali cinesi, dieci sono finanziate in maggioranza da amministrazioni locali o dal governo centrale e 36 si distinguono nei loro interventi per la ripresentazione di alcune posizioni ufficiali del governo di Pechino.

La delegazione cinese a Ginevra non ha risposto all’Icij, ma l’ambasciata cinese a Washington dichiara che il suo paese ha contribuito “in modo costruttivo alla governance mondiale dei diritti umani” grazie a proposte “sulla cooperazione e lo sviluppo e sulla promozione dei diritti economici, sociali e culturali insieme ai diritti di gruppi specifici”.

Vedere rosa

In generale le gongo vedono tutto rosa: a sentire quelle che intervengono all’ Unhrc, i progressi in materia di parità di genere in Cina sono “favolosi”. La protezione del diritto alla parità economica e sociale nel paese è “formidabile”. Per la Cina hanno tre funzioni: veicolare la propaganda ufficiale cinese attraverso altri canali, occupare lo spazio e i tempi di discussione impedendo così alle organizzazioni indipendenti di esprimere critiche nei confronti delle autorità cinesi e infine, se serve, molestare le persone che si presentano a testimoniare davanti alle istituzioni dell’Onu. L’Icij e i suoi partner hanno raccolto le testimonianze di quindici attivisti e difensori dei diritti umani sorvegliati o molestati da possibili agenti per conto del governo cinese a Ginevra, nelle sedi dell’Onu o all’esterno.

Le gongo cinesi fanno pochi sforzi per nascondere i legami con Pechino. Le autorità del loro paese le incoraggiano ad accreditarsi all’Onu pubblicando anche delle guide pratiche per spiegare come fare. La Cina lo ammette senza dirlo apertamente: in un articolo uscito nel febbraio 2024 sul quotidiano governativo Global Times si legge che di fronte agli attacchi di “forze anticinesi” provenienti dai paesi occidentali, “le ong cinesi hanno svolto un ruolo unico nella difesa degli interessi nazionali”. Organizzando numerose manifestazioni parallele, hanno “messo in ombra le molestie e il rumore creati delle forze anticinesi”, si congratula il giornale.

Oltre a mascherare le critiche, l’obiettivo è trasmettere un messaggio positivo sulla realtà cinese. Poco dopo l’arrivo al potere, nel 2012, il presidente Xi Jinping aveva chiesto ai mezzi d’informazione del paese di “raccontare bene la Cina”. Da allora l’espressione è diventata uno slogan per la guerra di propaganda. All’ Unhrc, in particolare, lo scopo è evidenziare i progressi economici fatti dal paese in nome dei “diritti allo sviluppo” anziché dei diritti civili.

Mezzi enormi

Nei momenti critici le gongo cinesi raddoppiano gli sforzi. Nel 2018, quando gli Stati Uniti sono usciti dall’Unhrc lanciando una guerra commerciale contro la Cina, Pechino ha rafforzato la sua presenza all’Onu. Quello stesso anno, quando sono emerse le prime critiche internazionali sul trattamento della minoranza musulmana degli uiguri nello Xinjiang, le “gongo” hanno difeso la politica cinese nella regione. Sono intervenute di nuovo nel 2019, in occasione delle manifestazioni che hanno incendiato Hong Kong.

Sorveglianza speciale

◆ Questo articolo fa parte di un’inchiesta condotta in trenta paesi dal Consorzio internazionale di giornalismo investigativo (Icij) su come il governo di Pechino controlla e perseguita i suoi oppositori fuori dalla Cina.
Il quotidiano Le Monde ha pubblicato anche un articolo su come in Francia, che ha forti legami commerciali con Pechino, le autorità cinesi hanno gioco facile nel perseguitare gli attivisti della diaspora, spesso con la collaborazione della polizia. Un altro articolo racconta che le autorità cinesi usano l’Interpol come strumento contro dissidenti e imprenditori “corrotti”, o semplicemente scomodi.


Due anni dopo, nel maggio 2022, la visita dell’alta commissaria per i diritti umani dell’Onu Michelle Bachelet nella regione autonoma uigura dello Xinjiang ha riacceso le attività delle gongo. Se la visita di per sé era strettamente controllata e si è conclusa con critiche blande espresse da Bachelet, un rapporto della sua agenzia ha preoccupato Pechino. Nel mese di luglio è uscita sul quotidiano governativo in inglese China Daily una lettera firmata da una migliaio di ong cinesi e di paesi amici che denunciava il rapporto. La manovra è stata piuttosto grossolana: tra i firmatari c’erano una ventina di ong cinesi accreditate all’Onu, ma anche l’Associazione cinese dei fiori e l’Associazione cinese dei giocatori di freccette. Il 31 agosto, a tredici minuti dallo scadere del suo mandato, Michelle Bachelet ha finalmente pubblicato quel rapporto in cui si citano possibili crimini contro l’umanità ai danni delle minoranze musulmane nella regione.

Le gongo cinesi però non si accontentano del proprio tempo a disposizione per intervenire all’Onu: a volte occupano letteralmente l’intero spazio disponibile. La mattina del 23 gennaio 2024, in occasione dell’esame periodico universale della Cina (un meccanismo per valutare la situazione dei diritti umani in ogni stato membro dell’Onu), le ong avevano meno di venti posti riservati in una grande sala conferenze del Palazzo delle nazioni. Sophie Richardson, rappresentante dell’organizzazione Chinese human rights defenders, è stata tra le prime ad arrivare sotto il soffitto decorato con un mare di stalattiti multicolori, ma tutti gli altri posti sono stati rapidamente occupati da rappresentanti delle gongo cinesi. Alla fine il personale dell’Onu ha liberato qualche posto in più per consentire ad altre ong di assistere al dibattito. “In quel caso non si è trattato di violazione delle regole, ma semplicemente dei mezzi enormi di cui dispongono queste organizzazioni, in termini di soldi e di personale, preclusi alle ong indipendenti. Le risorse che Pechino mette in campo per evitare di essere chiamata a rispondere di qualunque cosa sono impressionanti”, osserva Richardson.

Sophie Richardson ha visto l’uomo che le sedeva accanto impugnare uno smartphone per riprendere lei e il suo computer durante l’evento. Ha denunciato l’incidente, senza alcun risultato. “Tutti gli anni la Cina ha un posto di rilievo nel rapporto annuale del segretario generale dell’Onu sugli atti di ritorsione, ma a questo non vengono associate sanzioni”, dice. L’atto repressivo più celebre resta quello di Cao Shunli, attivista cinese arrestata nel 2013 a Pechino mentre cercava di presentarsi alle Nazioni Unite per testimoniare e morta in carcere l’anno successivo.

Quando le intimidazioni non avvengono direttamente nelle sedi dell’Onu, si spostano a distanza: capita spesso alle persone di origine cinese con parenti rimasti in Cina, che rappresentano uno strumento di pressione facile da sfruttare dalle autorità. Il 18 marzo Erbakit Otarbay, un cinese della minoranza kazaka sulla cinquantina, calvo e con le spalle larghe, ha raccontato all’Unhrc il suo calvario in carcere e poi nei campi di rieducazione dello Xinjiang tra il 2017 e il 2018. Pochi minuti dopo ha ricevuto una misteriosa telefonata dalla sorella, rimasta in Cina. Non ha risposto, perché nel pieno della seduta, ma è riuscito a ricontattarla la sera dopo: mentre lui prendeva la parola, la madre aveva ricevuto la visita di un agente della polizia locale. Suo figlio doveva smetterla di “diffondere menzogne”, insisteva.

Accrediti raddoppiati

Gli strumenti formali per limitare le azioni delle gongo o dei diplomatici contro le persone vulnerabili sono limitati. “Ci coordiniamo parecchio con le ong per raccogliere le loro testimonianze. In occasione di eventi all’Onu siamo presenti in sala e cerchiamo di essere reattivi se vediamo persone scattare foto di nascosto o altro”, testimonia un dipendente dell’Unhrc. “Tutto questo però avviene in modo informale, perché sul piano formale siamo limitati. Non abbiamo nemmeno delle email criptate”.

Gli stati invece possono contrattaccare: come spiega un diplomatico statunitense presso le Nazioni Unite, mentre la Cina blocca tante ong che cercano di accreditarsi all’Onu, alcuni paesi occidentali hanno cominciato a sorvegliare più da vicino le richieste di accreditamento cinesi, raddoppiate tra il 2018 e il 2024. Il lasciapassare consente alle ong di formulare osservazioni durante le sessioni dell’ Unhrc, di organizzare “eventi paralleli” e autorizza i loro rappresentanti a entrare e uscire liberamente dai locali dell’istituzione. Gli stati possono facilmente bloccare la procedura “ponendo delle domande” alle organizzazioni candidate, rinviando l’approvazione a data da destinarsi. Secondo l’Ishr, però, è la Cina a mettere in pratica il grosso di queste procedure di ostruzione contro ong potenzialmente sgradite. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati