Un modo quasi perfetto di attirare l’attenzione è dire che i media main­stream hanno o non hanno fatto qualcosa. Qualcuno risponderà, perché tutti hanno un’opinione a proposito. Questo, per lo meno, è stato il ragionamento di Nick Bacon, un produttore di video di Chicago, che per allargare il giro d’affari ha deciso di chiamare la sua azienda Main­stream Media. In realtà l’azienda si occupa di supporto tecnico per eventi, ma Bacon ha pensato che il nome fosse perfetto per aumentare la visibilità sui motori di ricerca. “Eravamo in due, lavoravamo nello scantinato di un appartamento e ci divertiva l’idea che i media main­stream potessero essere lì”, racconta. La strategia ha funzionato: durante le elezioni primarie per la presidenza degli Stati Uniti del 2016 e del 2020, con Donald Trump che tuonava contro i media mainstream, moltissime persone hanno chiamato, mandato email e twittato sul profilo dell’azienda. L’anno scorso una coppia del South Carolina ha bombardato Bacon di telefonate per un’ora. “Pensavano sinceramente che fossimo i media mainstream di cui parlava Trump”, racconta Bacon.

Questo tipo di confusione è giustificata. Tutti parlano continuamente di media mainstream, ma quasi nessuno si riferisce alla stessa cosa. Prendiamo il polverone che si è alzato intorno ad Andrew Cuomo per la sua gestione della pandemia quando era governatore dello stato di New York: un ospite di Tucker Carl­son su Fox News ha detto che i media mainstream, troppo occupati ad attaccare Trump, hanno chiuso un occhio su come il governatore ha affrontato l’emergenza sanitaria. Max Boot del Washington Post ha scritto che i tanti scandali che riguardano Cuomo sono la dimostrazione del fatto che i media mainstream sono più severi con i democratici che con i repubblicani. David Sirota, fondatore del Daily Poster, ha osservato che la “macchina dei media” era troppo occupata a tessere le lodi di Cuomo per fare davvero informazione. Il Poynter Institute, una scuola di giornalismo della Florida, ha ribattuto: “Forse è arrivato il momento di sfatare l’idea che i cosiddetti media mainstream stiano proteggendo” Cuomo. L’entourage del governatore, da parte sua, era convinto che la campagna di denigrazione fosse stata orchestrata dai “media main­stream ossessionati dai clic”.

Ci sono molti modi di definire cosa sono i media mainstream, ammesso che esistano. A volte ci si riferisce semplicemente ai giornali, o magari a un talk show televisivo. Nell’interpretazione più malevola, l’espressione nasconde una cospirazione ordita da una casta di sinistri custodi dell’informazione. “L’élite dei mezzi d’informazione definisce il quadro entro il quale operano tutti gli altri”, scrive Noam Chomsky. “Questo quadro funziona piuttosto bene, ed è comprensibile che sia un riflesso di inequivocabili strutture di potere”. Una tesi molto diffusa descrive i media main­stream come soggetti che esercitano “un potere sul dibattito”, una definizione che evoca una certa immagine: maschi, bianchi, benestanti. Con il declino dei mezzi d’informazione locali indipendenti e il progressivo consolidamento delle società che controllano i media più potenti questa critica suona ancora più vera. Secondo Sheryl Kennedy Haydel, studiosa di giornali universitari e scolastici afro­americani alla Louisiana state university, l’espressione “media main­stream” resterà utile finché il giornalismo continuerà ad avere rapporti con il capitale. “Le persone che prendono le decisioni, o i giornalisti stessi, non somigliano al paese in cui vivono le persone comuni”, dice.

Matthew Pressman, storico del giornalismo alla Seton Hall university, ha un’opinione diversa: “Penso che sia una brutta espressione”, dice, “perché è talmente vasta che può significare qualsiasi cosa. Cosa sono i media? Un giornalista a caso che scrive un post su Twitter? Il New York Times? Quei giornali gratuiti tipo volantini, pieni di pubblicità, che vengono distribuiti porta a porta?”. Da insegnante, Pressman ha un’esperienza di prima mano di quanto possa essere confusa questa definizione. “Quando i miei studenti parlano dei media che si comportano male, pensano a cose come Tmz, che è un sito di gossip”.

Per qualcuno, mainstream può essere sinonimo di “popolare”; eppure Fox News, da molti anni la rete via cavo con più ascolti negli Stati Uniti, è il più grande megafono di coloro che si scagliano contro la “casta corrotta” dei media mainstream. A maggio il Pew research center ha pubblicato un rapporto da cui emerge un “largo consenso” tra gli statunitensi su quali sono le testate che fanno parte del mainstream: Abc News, Cnn, il New York Times, Msnbc, il Wall Street Journal. Secondo il 73 per cento anche Fox News fa parte del mainstream. E tra gli intervistati che si affidano a Fox News per le notizie sulla politica, o che invece sono in sintonia con le posizioni della National Public Radio, la maggioranza dice di preferire fonti d’informazione main­stream ma che comunque si discostano dalla maggioranza delle altre testate. Huff­Post fa parte dei media mainstream, dice il sondaggio, mentre Buzz­Feed forse no. Più si guardano le risposte, più sembrano contraddittorie.

L’unica cosa chiara è che dietro l’espressione “media mainstream” c’è solo un’interpretazione vagamente condivisa della realtà, nella migliore delle ipotesi. Eppure continuiamo a usarla, con tutto il suo peso storico, per descrivere un fenomeno che sembra certo e radicato, ma che in realtà è amorfo e dinamico. Forse l’ambiguità del concetto di “media mainstream” rivela qualcosa di profondo sul caotico ecosistema dell’informazione in cui viviamo.

Per capire cosa sono i media main­stream oggi, è utile ripercorrere come ci siamo arrivati. “Certamente nessuno avrebbe parlato dei media in termini generali nell’ottocento, quando i lettori s’informavano sui quotidiani locali, ognuno con un punto di vista diverso”, scrive David Greenberg, professore di storia, giornalismo e media alla Rutgers university in un saggio del 2008 sui mezzi d’informazione di sinistra. La nascita del mainstream, se così vogliamo chiamarlo, è stata un processo che è partito in tandem con gli avanzamenti tecnologici e la professionalizzazione del giornalismo, ed è il riflesso di come i mezzi d’informazione statunitensi si sono sintonizzati sulla lunghezza d’onda del dibattito sociale.

Pierluigi Longo

Una prima spinta in questo senso si è avuta a metà dell’ottocento con l’invenzione del telegrafo. “Alcuni giornalisti compresero subito le possibilità e le insidie delle nuove tecnologie, e si misero in azione per padroneggiarle”, scrive Richard Allen Schwarzlose in The nation’s newsbrokers (1989). Uno di questi giornalisti era Moses Yale Beach, l’editore del New York Sun. Dopo la guerra messicano-statunitense Beach, insieme ad altri colleghi, cercò di coordinare un tentativo di condividere i costi della trasmissione delle informazioni tra i vari giornali di New York. Questa cooperativa fu chiamata Harbor News Association, poi si trasformò nell’Associated Press (Ap). L’Ap, che possiamo considerare un primo tentativo di mezzo d’informazione mainstream, contribuì a definire lo standard del giornalismo “obiettivo” moderno con il suo stile conciso e privo di fronzoli.

Però i giornali – almeno la maggior parte – continuavano a essere fortemente localizzati, scollegati l’uno dall’altro e risolutamente di parte. Secondo Michael Schudson, storico e sociologo del giornalismo alla Columbia university, la maggior parte delle persone “se leggeva un giornale, leggeva il giornale locale”: le sue fonti d’informazione erano le testate della città e della regione. Alcune di queste appartenevano alla cosiddetta stampa nera, che scriveva “con convinzione contro il razzismo, la violenza e l’ipocrisia dei bianchi” e “parlava della vita quotidiana degli afro­americani”. Il Chicago Defender, uno dei quotidiani neri più influenti, incoraggiò le famiglie a trasferirsi a nord tra l’indifferenza dei giornali di proprietà dei bianchi (Isabel Wilkerson ha definito la grande migrazione interna degli Stati Uniti “la storia più importante del novecento di cui i giornali non hanno parlato”). Secondo Haydel, i giornali neri definirono a modo loro la stampa main­stream operando al di fuori di essa. “Quando citavano gli altri giornali li chiamavano ‘la stampa bianca’. Era una distinzione molto chiara”, dice.

Nel novecento i giornali e le riviste con tiratura nazionale diventarono sempre più importanti, e così la radio. Durante la prima e la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e i loro alleati cercarono di sfruttare l’informazione per aumentare i consensi. “I notiziari radio ebbero una grandissima influenza sull’opinione pubblica, non solo per le qualità intrinseche del mezzo e della sua capacità d’informare, ma anche perché sembravano immuni dalla macchia della propaganda”, scrive Gerd Horten in Radio goes to war (2002). Per descrivere l’influenza dei mass media, il giornalista statunitense Walter Lippmann coniò l’espressione “fabbrica del consenso”, successivamente presa in prestito da Noam Chomsky ed Edward S. Herman per il loro saggio sul modello di comunicazione della propaganda. I mezzi d’informazione statunitensi, scrivono Chomsky e Herman, permettono “il dibattito acceso, la critica e il dissenso, ma alla condizione che restino fedelmente all’interno del sistema di presupposti e di princìpi che costituiscono l’opinione comune dell’élite: è un sistema così forte da essere interiorizzato in modo in larga misura inconsapevole” (Noam Chomsky ed Edward S. Herman, La fabbrica del consenso. La politica e i mass media, Il Saggiatore 2014).

Negli Stati Uniti la televisione, con i tre grandi network d’informazione, segnò l’inizio di una nuova era, in cui il consumo di notizie diventò un’esperienza condivisa al di là delle distanze geografiche. Negli anni cinquanta, scrive Greenberg, “i principali mezzi d’informazione nazionali – il New York Times e altri quotidiani, Time e Newsweek, le tre reti tv – riuscirono ad attirare lettori e telespettatori grazie al loro approccio dichiaratamente distaccato alle notizie”, impegnandosi a offrire un’informazione imparziale e autorevole al grande pubblico. Nel 1957 più dei due terzi delle famiglie statunitensi avevano la tv; nel 1963 diventò la principale fonte d’informazione per un numero sempre maggiore di persone. Come osserva Schudson, “è questo che permetteva a Walter Cronkite di chiudere il suo notiziario dicendo ‘And that’s the way it is’ (così stanno le cose): la promessa di un’unica verità condivisa accettabile per un main­stream americano”.

Negli anni sessanta e settanta, quando era il volto delle Cbs Evening News, Cronkite si guadagnò la reputazione di “uomo più fidato d’America”. Fu proprio allora, tuttavia, che l’espressione “media main­stream” entrò nel lessico comune, facendo di ogni erba un fascio e rappresentando il giornalismo come un’unica entità dai contorni sinistri (come scrive Jonathan M. Ladd in Why americans hate the media and how it matters, del 2011, “l’esistenza di un gruppo di potere dell’informazione indipendente, forte e rispettato dai più è un’anomalia storica”). Sullo sfondo del movimento per i diritti civili, delle contestazioni alla guerra del Vietnam e di una rivoluzione culturale che investiva tutti gli aspetti della società, Richard Nixon arrivò alla Casa Bianca e, cercando un’arma retorica contro l’informazione ostile, cominciò a usare l’espressione “i media” per sminuire l’autorità del quarto potere e ristabilirne le priorità. “La stampa diventò ‘i media’ perché la parola aveva una connotazione manipolatoria e totalizzante”, scrive William Safire, editorialista ed ex autore dei discorsi di Nixon, nella sua biografia Before the fall (1975). Come dice Michael Schudson: “Nixon voleva che la gente odiasse i media”.

Durante le fasi più calde del movimento per i diritti civili, con le immagini delle violenze contro i neri che arrivavano ogni sera nelle case, i giornali e le tv sostenevano la causa della liberazione nera tra i cittadini bianchi. L’uso sempre più diffuso dell’espressione “i media” fu l’arma del contrattacco conservatore. “I suprematisti bianchi erano sempre più frustrati perché si erano accorti che stavano perdendo la battaglia per conquistare l’opinione pubblica nazionale”, scrive Greenberg. Più i giornalisti si mostravano solidali con gli attivisti per i diritti civili, più si faceva strada a destra l’idea che i grandi mezzi d’informazione, orientati a sinistra, agissero contro gli interessi del paese.

Una tesi molto diffusa descrive i media main­stream come soggetti che esercitano “un potere sul dibattito” ed evoca una certa immagine: maschi, bianchi, benestanti

Questo genere di argomentazioni diede l’impulso a una generazione di testate conservatrici che in modo capzioso, ma molto abile, si presentavano all’opinione pubblica come esterne al mainstream. L’esempio principe è la National Review, fondata da William F. Buckley Jr. nel 1955, che “mise in dubbio l’imparzialità e la correttezza dei media main­stream sostenendo che fossero uno strumento di propaganda per una struttura di potere di sinistra determinata a mantenerne il controllo”, scrive Julie B. Lane, storica delle comunicazioni di massa della Boise state university, in un testo per l’antologia News on the right (2019). Nella dichiarazione fondativa della National Review la parola “media” non compare, ma si parla diffusamente di “ortodossia liberal”; della “complicità” del New York Times con l’Onu, la League of women voters e gli intellettuali di sinistra; e (con grande insistenza) dell’estraneità della rivista al mainstream.

Da allora, rivolgersi a una “maggioranza” di cittadini che la pensano allo stesso modo è diventato il marchio di fabbrica dei mezzi d’informazione conservatori. In una puntata del 1981 di Firing line, un programma di approfondimento e dibattito trasmesso dalla Pbs, Buckley affrontò il tema sollevando la domanda: “I diritti dell’informazione dovrebbero avere dei limiti?”. William A. Rusher, attivista conservatore ed editore della National Review, parlò della sua esperienza al National news council, un comitato che era stato formato per vigilare sulla “faziosità dei media”. “Chi fa parte del comitato?”, chiese Buckley. “Diciotto persone”, rispose Rusher: c’erano figure dei media, qualche esterno, nessuna partigianeria. “Come conservatore ero in minoranza. Del resto, non eravamo sempre in minoranza su queste cose?”.

“Non tra la gente”, interruppe sogghignando Buckley.

Oltre a essere un editore, Rusher aveva una rubrica intitolata “The conservative advocate”, che usciva su diversi giornali in tutto il paese, e veniva spesso ospitato alla radio e in televisione. Anche Buckley aveva una sua rubrica, ancora più seguita. Il contesto, insomma, favoriva l’assalto degli intellettuali conservatori (che continuavano a lamentarsi di non essere ascoltati né rappresentati) ai grandi giornali, alla tv e alle riviste. La loro tribuna era molto più ampia di quella di molti attivisti per i diritti civili, che restavano ai margini del dibattito pubblico.

Nel 1987, con Ronald Reagan alla presidenza, la Commissione federale per le comunicazioni di fatto abolì la cosiddetta fairness doctrine (dottrina della correttezza), che imponeva alle emittenti radiofoniche e televisive di rappresentare visioni contrastanti sulle questioni di pubblico interesse. I talk show alla radio e in tv, ormai privi di qualsiasi restrizione, proliferarono, e i canali via cavo trasmettevano notizie a ciclo continuo per 24 ore al giorno, ospitando dibattiti in cui figuravano gli stessi esperti che scrivevano sui quotidiani e sulle riviste e che formavano la base dell’opinione mainstream: “un gruppo minuscolo”, lo definisce Eric Alterman in Sound and fury (1992), in cui ripercorre la storia del giornalismo di opinione, ma con “una robusta dose di talento per l’auto­promozione”.

Fox News fu lanciata nel 1996. L’obiettivo del suo fondatore, il gigante dei media australiano Rupert Murdoch, era fare concorrenza ai grandi network televisivi: per caratterizzare la rete come un antidoto all’informazione di sinistra, affidò l’incarico di amministratore delegato e responsabile dell’informazione a Roger Ailes, veterano della politica repubblicana e dei media conservatori. Ailes coniò per la Fox uno slogan che sarebbe durato vent’anni: fair and balanced, corretta ed equilibrata. Di giorno Fox News si occupava di notizie; in prima serata, i suoi programmi di approfondimento davano spazio a opinioni che andavano dal moderato al conservatore, poi negli anni si è spostata sempre più a destra. “C’è tutto un paese che l’élite non riconoscerà mai”, dichiarò Ailes al New York Times nel 2001. “Quello che la gente non sopporta è che negli stati a maggioranza democratica si sentono più intelligenti degli altri. Nelle nostre notizie c’è un po’ di questo. Se sembriamo conservatori è perché gli altri sono tutti a sinistra”.

Rappresentare il resto della stampa come scollegata dalla realtà ed elitaria continua a far guadagnare consensi alla Fox, e la visione di Buckley – ovvero che il conservatorismo sarebbe intrinsecamente non mainstream, pur occupando quasi tutte le stanze del potere – persiste (“Fox News sfrutta da sempre le convenzioni dei media main­stream per giustificare i suoi eccessi”, ha scritto nel 2017 Eric Wemple, esperto di media del Washington Post. “Quanto alla domanda se Fox News è un’organizzazione che fa parte dei media mainstream, dipende dalle giornate”, conclude). Ho chiesto a un giornalista di Fox News e a un portavoce dell’azienda se la rete si considera parte dei media mainstream, vista la sua grande popolarità; nessuno dei due mi ha risposto. In linea generale, però, i personaggi dell’universo Fox, compreso Donald Trump, risolvono queste contraddizioni riferendosi al loro pubblico come a una “maggioranza silenziosa” (un’espressione che, come “i media”, è stata inventata da Nixon).

“Questa rappresentazione dei ‘media’ come un’astrazione – come una forza grande, potente, probabilmente maligna e molto distante dalla gente – genera sospetto e diffidenza”, osserva Pressman. Oggi la fiducia nei giornalisti è ai minimi storici, ma i sondaggi dicono che i numeri sono in calo da decenni. Il motivo non è solo la polarizzazione politica. Secondo un recente studio del Media insight project, quella tra giornalisti e opinione pubblica è una spaccatura sui valori di fondo. “La sfiducia verso i mezzi d’informazione non è legata solo alla percezione della faziosità: il vero motivo è uno scetticismo che riguarda gli obiettivi e la missione del giornalismo”.

Molti statunitensi esprimono il desiderio di un’alternativa ai media mainstream, o almeno cercano di seguire un’informazione più equilibrata. Secondo il rapporto Pew, la gente considera i media main­stream credibili, ma preferisce non affidarsi a una sola testata. Insomma, la familiarità conta, ma ai lettori piace fare approfondimenti per conto loro. Come osserva Margaret Sullivan del Washington Post, “non amo l’espressione ‘media mainstream’, ma da un certo punto di vista è utile perché la gente sembra sapere a cosa si riferisce: i media nazionali, i grandi giornali, l’Associated Press, le emittenti tv, le grandi reti via cavo”.

Cosa dice di noi consumatori statunitensi il fatto che oscilliamo tra diverse mezze verità, che ci leggiamo l’uno con l’altro, che ci costruiamo le nostre minuscole bolle di conoscenza? Oggi, con i giusti abbonamenti alle tv via cavo e ai canali digitali, possiamo mettere a confronto tutti i fatti che vogliamo. È facile concludere che stiamo attraversando uno sconvolgimento epocale, dove non esiste più un’opinione condivisa sulla realtà. O forse, più semplicemente, siamo tornati alla polarizzazione dell’ottocento, con una differenza fondamentale: le fratture che un tempo erano locali oggi sono individuali.

Anche in un mercato caratterizzato da una possibilità di scelta sempre più ampia, credo che negli Stati Uniti i media main­stream esistano. Un gruppo di canali tv e pubblicazioni– Abc, Cbs, Nbc, il New York Times, il Washington Post, le testate elencate dal rapporto Pew – dettano l’ordine del giorno e s’influenzano e rafforzano a vicenda. Tutti insieme, questi mezzi d’informazione creano un punto di vista dominante a cui gli altri devono rispondere. Non è necessariamente un male. Secondo Haydel, c’è sempre spazio per espressioni diverse. “Da sostenitrice dei media alternativi, penso che siano fondamentali”, spiega. “Sono un diverso punto d’accesso per chi si sente tagliato fuori dal mainstream e cerca un posto dove imparare a crescere. È un fatto vitale”. ◆ fas

Savannah Jacobson è una giornalista statunitense. Questo articolo è uscito sulla Columbia Journalism Review con il titolo Inside the lines.

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Questo articolo è uscito sul numero 1424 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati