Chiedete a qualunque appassionato di snooker chi è il più grande giocatore nella storia di questo sport, e vi risponderà Ronnie O’Sullivan. Non è questione di dati e cifre, anche se O’Sullivan, con trent’anni di carriera professionistica all’attivo, eccelle sotto quasi tutti i parametri statistici. Se volete sapere davvero come mai è considerato il più grande, dovete guardarlo giocare.
Lo snooker è imparentato – nonostante se ne distingua – con altri tipi di biliardo, come la carambola e il pool palla 8. Una differenza fondamentale tra lo snooker e il pool, o biliardo americano, è che i tavoli da snooker sono più grandi. Molto più grandi. Due uomini di media statura potrebbero sdraiarsi uno di seguito all’altro lungo il lato di un tavolo da snooker e non arriverebbero agli angoli. Un tavolo da pool ha un’area di gioco totale di circa 2,5 metri quadrati, un tavolo da snooker ne misura più di sei. Inoltre, le buche dei tavoli da snooker sono più piccole: sono larghe tra gli otto e i nove centimetri.
La premessa basilare del gioco è semplice. Un giocatore colpisce con la stecca la biglia bianca in modo che vada a impattare contro una delle quindici palle rosse, facendola rotolare in buca. Così guadagna un punto. Poi rifà la stessa cosa, ma stavolta mirando a una delle altre sei biglie colorate, che valgono ciascuna un diverso numero di punti: la gialla, la verde, la marrone, la blu, la rosa e quella con il valore più alto, la nera, sette punti. Poi si torna alle rosse. Ogni volta che il giocatore non mette una biglia in buca, il suo turno finisce e il gioco passa all’avversario. Quando uno dei due accumula un numero sufficiente di punti perché l’altro non possa più pareggiarlo, vince una frazione di gioco, o frame; la partita termina quando uno dei due giocatori vince un certo numero di frame: tre, sette o, nel caso della finale del campionato del mondo di snooker, trentacinque.
Se tutto ciò sembra fattibile, o addirittura divertente, vuol dire che purtroppo la mia descrizione è stata fuorviante. Davanti a un vero tavolo da snooker – a meno che non abbiate anni di pratica alle spalle – probabilmente non riuscireste a fare quasi nessuna delle cose che ho appena elencato: la stecca vi scivolerebbe di mano; il pallino, muovendosi sulla sconfinata superficie del tavolo, colpirebbe il bersaglio sbagliato o farebbe cilecca; la biglia colpita schizzerebbe nella direzione sbagliata. E ovviamente, quando riusciste a mettere una palla in buca, il pallino finirebbe in una posizione così scomoda che non avreste nessuna speranza d’imbucarne un’altra.
Quasi tutti gli sport più diffusi, per quanto spettacolari al livello professionistico, funzionano anche come passatempi divertenti e accessibili per chi li pratica in modo amatoriale, perfino in giovanissima età. Pensate al calcio, al tennis, alla pallacanestro. Lo snooker invece si rifiuta di prestarsi all’intrattenimento dei dilettanti. Il suo status culturale non deriva quindi da una partecipazione di massa ma da un grande pubblico di spettatori. Lo snooker giocato male sarebbe una tortura da guardare; lo snooker giocato senza infamia e senza lode è notoriamente noioso; ma lo snooker giocato bene è sublime. C’è un consenso generale sul fatto che anche tra le leggende di questo sport che hanno sbalordito e deliziato il pubblico un solo giocatore si staglia su tutti.
Quando è al meglio, Ronnie O’Sullivan conduce le sue partite con una sorta di splendore orchestrale, sistemando e risistemando le biglie sulla superficie del tavolo grazie a giocate di una precisione ipnotica. Ogni frame diventa una sorta di rompicapo logico, una domanda complicata con una risposta gustosamente semplice, risposta che solo una persona è in grado di vedere. Un miscuglio apparentemente caotico rivela pian piano la sua forma nascosta: il pallino segue una rotta precisa, dal rosso al colore e poi di nuovo al rosso, roteando, deviando, rimbalzando o fermandosi immobile come richiesto, finché il tavolo non resta perfettamente sgombro. No, no, pensate voi, non è possibile: e poi, dopo aver rimbalzato contro la sponda destra, la rossa scivola per tutta la colossale larghezza del tavolo e va a infilarsi ordinatamente, inevitabilmente, nella minuscola buca centrale di sinistra.
Prendete l’ultimo frame della finale del Welsh open del 2014. Il video si trova online, per gentile concessione di Eurosport Snooker: se vi va, potete guardare O’Sullivan, allora sotto la quarantina, che gira attorno al tavolo, passando il gesso sulla punta della stecca senza togliere gli occhi dal panno verde. È in vantaggio sul suo avversario, Ding Junhui – all’epoca numero tre del ranking mondiale – di otto frame a tre, gliene serve solo un altro per vincere la partita e portarsi a casa il titolo. Imbuca una rossa, poi la nera, poi un’altra rossa, e ogni colpo è esattamente come vuole lui: pulitissimo, incantevole, miracolosamente controllato.
L’ultima rossa è rimasta isolata vicino alla sponda destra, e il pallino va a fermarsi subito a sinistra della buca centrale destra. L’angolo è strettissimo, scomodo, la biglia bianca e quella rossa sono allineate a distanza di pochi centimetri dalla sponda. O’Sullivan osserva la posizione, cambia mano con disinvolutura, e mette in buca la rossa con un colpo mancino. Il pallino colpisce la sponda di testa, riattraversa tutto il tavolo nella direzione opposta e si ferma, quasi a comando, in posizione perfetta per il colpo successivo sulla nera. O’Sullivan non avrebbe potuto scegliere un punto migliore se avesse preso il pallino e l’avesse piazzato lì con le sue mani. Il pubblico scoppia in un boato: esaltazione mista a incredulità. Alla fine del frame, quando sul tavolo rimane solo la nera, O’Sullivan cambia mano di nuovo, forse solo per divertimento, e il colpo finale lo fa con la sinistra. La palla nera cade nella buca, completando quello che nello snooker si chiama maximum break: l’impresa d’imbucare tutte le biglie nell’ordine perfetto raggiungendo così il totale di 147 punti, il massimo possibile.
Guardate una cosa di questo tipo per qualche minuto e lo troverete uno spettacolo estremamente divertente. Guardatene per ore e ore e forse comincerete a farvi strane domande. Per esempio: in quel particolare frame, come faceva O’Sullivan dopo aver messo in buca l’ultima rossa a sapere che il pallino sarebbe tornato indietro in quella direzione fermandosi precisamente dove voleva lui? Ovviamente la biglia stava solo obbedendo alle leggi della fisica. Ma se voleste calcolare la traiettoria di un pallino che rimbalza sulla biglia da imbucare e poi su una sponda usando la fisica newtoniana, vi servirebbe la misurazione precisa di ciascuna variabile, alcune equazioni differenziali piuttosto complesse e tanto tempo per fare i calcoli. O’Sullivan prende la mira ed effettua il colpo nello spazio di cinque o sei secondi. È stato un colpo di fortuna? Sarebbe uno di quelli che capitano una sola volta nella vita. Lui fa cose del genere da trent’anni.
E allora? Se non è questione di calcoli né di tentare la fortuna, come fa Ronnie O’Sullivan a giocare così? Perché la domanda sembra tanto strana? E perché nessuno sa la risposta?
O’Sullivan è diventato celebre in circostanze talmente sensazionali che hanno dell’incredibile. Nato nel 1975 nelle Midlands occidentali, nel Regno Unito, è cresciuto fuori Londra e ha giocato a snooker fin dall’infanzia: suo padre e il suo mentore, Ron senior diceva che la sala biliardo era stata “il suo asilo”. Poi, dopo essere passato al professionismo nel 1992, ha imboccato una storica sequenza di vittorie, aggiudicandosi 74 delle sue prime 76 partite, tra cui una serie da record di 38 successi consecutivi. Ha cominciato a comparire regolarmente in tv, la sua immagine è entrata direttamente in milioni di case. Quello stesso anno suo padre è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso un uomo a coltellate. All’epoca dei fatti, Ronnie O’Sullivan aveva sedici anni.
Negli anni successivi, O’Sullivan ha giocato lo snooker migliore di tutti i tempi. Ha anche – come racconta nella sua recente autobiografia Unbreakable – combattuto con una grave depressione, sviluppato un problema di abuso di sostanze, passato del tempo in un ospedale psichiatrico e in disintossicazione. Durante il campionato mondiale del 2005, dov’era il campione uscente, si è rasato la testa a metà torneo, è salito sugli arredi, si è preso a unghiate la faccia ed è rovinosamente uscito ai quarti di finale dopo aver perso undici degli ultimi quattordici frame. Il quotidiano The Independent ha descritto la sua performance in quel torneo come una “disintegrazione emotiva pubblica”. O’Sullivan ha dichiarato che non avrebbe potuto continuare per molto a giocare da professionista, perché “a livello fisico e mentale probabilmente finirò per ammazzarmi”.
Vent’anni dopo, sta ancora giocando. Negli ultimi tempi – nel suo libro, nel documentario del 2023 Ronnie O’Sullivan: the edge of everything e nella relativa campagna di promozione – ha cercato di presentarsi come una persona più matura e assennata, un tossico che ha intrapreso un lungo percorso di riabilitazione. Dice di aver imparato a smettere d’inseguire la perfezione; che non si preoccupa più di vincere o perdere; che continua a giocare a snooker solo per amore dello sport. Ma questa apparente trasformazione in vecchio saggio è stata, quantomeno, poco costante. Solo lo scorso gennaio, visibilmente frustrato per la sua performance in un torneo a inviti, ha sbattuto la stecca sul tavolo, poi è uscito dalla gara. In varie occasioni ha definito lo snooker come un “brutto sport”; ha deriso apertamente le capacità di giocatori più giovani; ha affermato che continua a giocare solo per i soldi; e ha dissuaso dei potenziali entusiasti dall’avvicinarsi al gioco.
Nel Regno Unito e in Irlanda O’Sullivan è un uomo molto famoso. Gente che non ha mai neppure visto una partita di snooker professa opinioni forti sulla sua vita e la sua personalità: è un arrogante, è ossessivo, in realtà è un tipo molto simpatico. In parte, a renderlo una figura così carismatica è il fatto che, nonostante la sua famigerata abitudine di contraddirsi, sembra credere sempre a ciò che dice. Il 23 aprile 2024, a una domanda sul suo presunto status di più grande giocatore di snooker di tutti i tempi ha risposto: “Non mi considero il più bravo di tutti. Uno dei più bravi, magari”. Solo due giorni dopo la vedeva in maniera diversa: “Ho avuto la carriera più brillante di qualunque altro giocatore di snooker. Dovrei veramente darmi una pacca sulla spalla, perché non lo faccio mai, sono molto severo con me stesso. Statisticamente, sul tavolo da gioco nessuno ha ottenuto i miei risultati”. Per quello che vale, secondo me aveva ragione la seconda volta.
I mezzi d’informazione britannici parlano da anni dell’instabilità emotiva di O’Sullivan, a volte invitando esperti di psicologia a dare opinioni sul suo stato mentale. La turbolenza della sua vita familiare – qualche anno dopo la condanna del padre, la madre è finita in carcere per evasione fiscale, lasciando Ronnie, ventenne, a prendersi cura della sorella minore – è stata esaminata nel dettaglio (“Ha un bisogno disperato di dimostrare qualcosa e anche di compensare psicologicamente le azioni dei propri genitori”, secondo un certo professor Cary Cooper). Ma l’estrema volubilità di O’Sullivan mi è sempre sembrata scollegata dalle circostanze. Il temperamento volubile, il talento assurdo, gli alti e bassi vertiginosi: tutto si tiene. Anche quando gioca male, c’è sempre qualcosa di selvaggio e folle nel suo approccio allo sport. E quando è al suo meglio, sembra il favorito degli dei.
Cosa vi passa per la testa quando tirate una palla verso un bersaglio? Intendo in senso letterale. Avete preso una palla, la tenete in mano, guardate il bersaglio e ora la tirate. Forse lo colpite, forse no. Ma nella vostra testa, in quel momento, quando avete la palla in mano e poi la lasciate andare, la guardate muoversi nell’aria: cosa state pensando? Pensate davvero a qualcosa?
Forse siete convinti che la risposta sia no. A tutti probabilmente è capitato di afferrare qualcosa al volo senza pensarci: un gesto istintivo, compiuto prima ancora di rendercene conto. Sappiamo quindi che una cosa del genere – l’azione senza pensiero – è possibile. Ma tirare una palla verso un bersaglio è diverso. Si esegue consapevolmente un compito specifico. Si soppesa la palla in mano, si valuta la distanza dall’obiettivo, si considerano le angolazioni e la velocità. Se uno fosse addormentato o drogato, incapace di pensare, non ci riuscirebbe: tutto ciò che interferisce con la lucidità mentale disturberebbe la precisione del tiro. Ma, si potrebbe obiettare, ciò non significa che uno ragioni sul tiro come si ragiona su un problema matematico o un rompicapo linguistico. Si percepisce il peso della palla, si vede la propria distanza dal bersaglio. Ma cosa distingue la percezione dal ragionamento? Guardare può essere una forma di ragionamento? E il tiro?
Quando prendiamo la palla e la tiriamo, indubbiamente nel nostro cervello avviene un certo processo. Forse questo processo non ci sembra simile al pensiero. Ma c’è un modo migliore di chiamarlo? Abbiamo capito dove volevamo che andasse la palla, e poi abbiamo mosso il braccio per farla andare lì. Chissà quanti milioni di terminazioni nervose ci stavano mandando informazioni sulla palla, sul bersaglio; chissà quanti muscoli della spalla, del braccio e della mano si sono attivati al momento di effettuare il tiro. È come ricordare una canzone e poi cantarla. Non dobbiamo fare calcoli mentali sulle frequenze di risonanza delle nostre corde vocali. La canzone ci viene in mente e la sappiamo cantare (o magari no).
Vedere il bersaglio, tirare la palla. È semplicissimo, sembra che non valga la pena di pensarci. Finché uno non prova a pensarci. A quel punto forse sembra che valga la pena.
Negli anni ottanta, nel Regno Unito e in Irlanda lo snooker era un grosso fenomeno culturale. I nomi dei giocatori più forti erano sulla bocca di tutti e le loro rivalità erano oggetto di conversazione ovunque. Nei decenni successivi, però, è cominciato il declino. Il pubblico televisivo è calato a picco, e quando al tavolo non c’è O’Sullivan è anche peggio. Si vedono segnali di rinascita nell’Asia orientale – dove i tornei attirano un pubblico più ampio e più giovane – ma i top player sono ancora in maggioranza britannici. Al di fuori di queste zone non sono molte le persone che seguono o praticano lo snooker, o semplicemente sanno davvero cos’è. Durante la stesura di questo pezzo ne ho parlato con molti amici e sconosciuti, nel Regno Unito e in Irlanda: tutti, nessuno escluso, sapevano chi era Ronnie O’Sullivan, e molti hanno voluto dirmi esattamente cosa pensavano di lui. I miei amici nordamericani, invece, non sapevano proprio di chi stessi parlando.
La specificità dello snooker non è solo geografica ma, evidentemente, anche socioeconomica. In fatto di giocatori e di spettatori lo snooker professionistico è sempre stato uno sport da classe lavoratrice. Il tennis e il golf, con il loro pubblico ricco e internazionale e i loro legami con marchi di alto livello, sullo schermo trasmettono un’atmosfera di lusso esclusivo. Il campionato del mondo di snooker, invece, è sponsorizzato da un concessionario online di auto usate. I tornei si svolgono in centri ricreativi e teatri semibui, con i tavoli immersi in un bagliore uniforme di luce artificiale che piove dall’alto. In certe competizioni ai giocatori si richiede ancora la divisa tradizionale di gilet e papillon; in altre indossano polo nere, lucide e sintetiche, con sopra stampati i loghi di agenzie di scommesse o di negozi di ferramenta di qualche cittadina di provincia.
C’è anche la specificità di genere. Le donne giocano a snooker – il campionato del mondo femminile si tiene ogni anno e tutti i tornei teoricamente sono aperti alle donne – ma gli uomini continuano a dominare la scena. Nessuna giocatrice ha mai raggiunto le prime cinquanta posizioni della classifica mondiale. Lo snooker trasmesso in tv offre dunque lo spettacolo di un tipo particolare di mascolinità. Ma che tipo? A differenza degli sport di squadra, in cui ogni giocatore è il cittadino modello di una città-stato, reale o immaginaria, nello snooker non si crea nessun cameratismo, nessuno spirito collettivo. E a differenza degli sport individuali – tennis, nuoto, ginnastica – non offre allo spettatore un corpo esemplare da guardare con invidia o desiderio. I giocatori professionisti sono praticamente indistinguibili dalle persone comuni, tranne per il fatto che quasi tutti sono maschi.
Il parente più prossimo dello snooker, a livello culturale, è probabilmente il gioco delle freccette. Entrambi sono passatempi britannici, dominati dai maschi e tradizionalmente della classe lavoratrice, ed entrambi hanno qualche affinità con i “giochi da pub”. Ma come spettacoli televisivi non potrebbero essere più diversi. Nei tornei di freccette il gioco vero e proprio passa per lo più in secondo piano rispetto alla chiassosa atmosfera di festa. Il pubblico fischia e intona cori di continuo; certe zone degli spalti ne fischiano altre perché non fischiano abbastanza. Durante le pause, per intrattenere il pubblico entrano ballerine in costume da cheerleader. In confronto lo snooker è un’attività cerebrale e sobria. Il gioco si svolge in un silenzio e una calma rigorosamente rispettati. Tra un colpo e l’altro possono scoppiare applausi, ma con un semplice gesto della sua mano guantata di bianco l’arbitro ripristina immancabilmente il silenzio. Se un torneo di freccette ha l’atmosfera di una festa caotica a base di birra, l’atmosfera di un torneo di snooker sembra più quella di una sala da concerto classico, con i solisti in abito formale, distaccati, muti.
In ultima analisi, la teatralità dello snooker non ha un preciso equivalente da nessuna parte. La nevroticità del gioco professionistico ad alto livello, il suo perfezionismo puntiglioso – i giocatori chiedono all’arbitro di pulire una palla apparentemente immacolata o si rifiutano di tirare se un solo spettatore si sta muovendo – non sono, come in altri sport, compensati da una manifestazione di vigore e forza fisica. Lo snooker mette in scena l’ossessione in forma purissima, l’iper-fissazione resa visibile. Le partite trasmesse in tv non offrono un’impressione di lusso o bella vita né di divertimento chiassoso e di amicizia e neppure di freschezza e buona salute. C’è qualcosa di cupo nell’eleganza cinetica del gioco, in tutta quell’oscurità, quella solitudine, l’osservazione e l’attesa. “Lo snooker è uno sport molto, molto duro”, ha detto O’Sullivan nel 2021. “Si sta chiusi in una stanza, senza luce naturale, con le tende tirate, ci si resta per cinque o sei ore, senza parlare con nessuno. Non è una cosa salutare. Non è un bel modo di passare la vita”.
Nel 2010, durante il World Open a Glasgow, all’inizio di un frame O’Sullivan smette di giocare e fa una domanda all’arbitro, Jan Verhaas. Per tutta risposta Verhaas annuisce e poi si volta verso un altro ufficiale di gara e mormora: “Puoi informarti su quanto paga un maximum break?”. O’Sullivan si ferma e aspetta di scoprire quanto sarà il premio in denaro se porterà a termine una serie perfetta. A quel punto della partita ha messo in buca solo due biglie.
I commentatori – gli ex giocatori professionisti John Virgo e Dennis Taylor – sono chiaramente perplessi, ridono, ma nella risata c’è del disagio. Taylor descrive il comportamento di O’Sullivan come “bizzarro”. In seguito Virgo ha detto: “Nello snooker ne ho viste parecchie, ma mai niente di simile”. La gran parte dei giocatori professionisti realizza al massimo una manciata di maximum break in tutta la carriera; alcuni non ci riescono neanche una volta. All’epoca O’Sullivan ne aveva già completati nove, record mondiale che condivideva con Stephen Hendry. Prevedere una serie perfetta, pubblicamente, dopo aver imbucato solo due biglie, è assurdo; chiedere quanto sia il premio in denaro sembra quasi osceno. “Va bene, proveremo a reperirgli questa informazione quando arriverà all’ultima nera”, scherza Taylor con indulgenza.
O’Sullivan arriva, ovviamente, all’ultima biglia nera. A quel punto, ormai, il tono dei commentatori è notevolmente cambiato. “Stiamo guardando, questo va detto, un genio all’opera”, dice Taylor. A O’Sullivan nel frattempo è stato comunicato che non c’è nessuna ricompensa particolare per chi realizza un maximum break, a parte il premio di quattromila sterline per la più lunga serie ininterrotta. E così, con l’ultima biglia nera ancora sul tavolo, lui stringe la mano all’avversario e fa per andarsene dalla sala. Interviene l’arbitro, avvicinandosi a O’Sullivan e dicendo: “Non la vuole mettere dentro per dare soddisfazione ai tifosi? Andiamo, su”. Solo a quel punto, come cedendo alla richiesta, O’Sullivan mette in buca l’ultima biglia nera e completa la sua decima serie perfetta, stabilendo un nuovo record.
Sono seguiti giorni di polemiche e discussioni. Avrebbe davvero lasciato quell’ultima nera sul tavolo se non fosse intervenuto Verhaas? Era obbligato a tentare il colpo o aveva tutto il diritto di non farlo se non gli andava? Era una protesta sul premio in denaro o c’era dell’altro? Barry Hearn, all’epoca presidente del World snooker tour, dichiarò che se O’Sullivan non avesse giocato la nera sarebbe incorso in un’azione disciplinare. O’Sullivan rispose: “Se vuole, questo è l’ultimo frame di snooker che gioco in vita mia. Sono ben felice di mollare tutto e andarmene”.
Il nocciolo della questione era: cosa deve al pubblico un individuo di talento? Con la sola biglia nera rimasta da mettere in buca, il frame e la partita erano già finiti: O’Sullivan aveva vinto. In altri sport, l’ambito del gioco coincide con l’ambito della competizione: i giocatori hanno come unico obbligo provare a vincere la partita. Ma lo snooker è diverso. Dai professionisti ci si aspetta che vadano oltre il piano del vantaggio competitivo, finché la logica interna del frame non si esaurisce e il tavolo non ha più nulla da offrire. Tutte le serie perfette – e in realtà tutte le serie che vanno sopra i 75 o 80 punti – hanno questa componente di eccesso estetico, di purezza formale, snooker fine a se stesso. O’Sullivan era già andato molto oltre la pura competizione arrivando all’ultima nera. Abbandonando la partita, o almeno provandoci, sembrava rivendicare il diritto di decidere quanto voleva spingersi oltre quel punto.
Ma dal vespaio di polemiche mancava una semplice domanda. Come faceva O’Sullivan a sapere, con diciannove biglie ancora sul tavolo, che avrebbe fatto un maximum break? Vedeva già la sequenza, il modo in cui il pallino si sarebbe mosso sul tavolo, ogni biglia rossa, ogni nera, ogni buca? Gli è balenato in mente tutto a un tratto? Era solo istinto? Cosa gli passava per la testa?
Mentre scrivevo questo articolo ho chiesto a diverse persone di provare a descrivere cosa succede dentro la loro testa quando eseguono azioni percettivo-motorie come acchiappare al volo un oggetto o lanciarlo. E alcune mi hanno risposto: niente d’importante. Messi di fronte a una determinata prova fisica, tutti capiscono a occhio che risultato gli piacerebbe ottenere, dove vogliono che vada la palla, che tipo di tiro vogliono fare. In risposta alla proposta di un dato compito la nostra mente dà a tutti noi le stesse istruzioni, ma gli atleti riescono a obbedire a quelle istruzioni con maggiore rapidità, efficienza e precisione.
In alcuni casi è così, certo. Quando si tratta di gareggiare in uno sprint, per esempio, si può tranquillamente dire che sappiamo quello che ci piacerebbe fare – cioè correre più veloci degli altri – ma il nostro corpo non è sempre all’altezza. E quasi tutti gli sport richiedono di sfidare dei rigidi limiti fisici: la velocità, la forza, l’equilibrio e così via. Ma ora immaginate nuovamente di tenere in mano una palla. Provate a fare un tiro e mancate il bersaglio. Vi sembra che, in un certo senso, il tiro che avevate in testa fosse giusto, ma sia stato il braccio a sbagliare? A volte magari è così: se la palla vi è caduta di mano, per esempio. Ma il più delle volte probabilmente la sensazione è semplicemente quella di aver mancato il bersaglio. Giusto? Voi, il vostro cervello, e anche il vostro braccio e la mano, nello stesso momento e nello stesso modo, avete solo fatto cilecca.
Il fatto stesso di ritrovarci a parlare di una differenza tra questi due casi è prova di un certo modo d’intendere il processo cognitivo. Abbiamo il cervello, che assorbe i dati e produce decisioni e comandi, e abbiamo il corpo, che trasmette i dati al cervello e poi esegue i suoi ordini. È questo il modello dominante della coscienza umana, la metafora su cui si basa il modo in cui pensiamo al pensiero. E i parametri di questo modello sembrano richiederci di decidere, più o meno, dove si colloca il talento atletico. Nel cervello o nel corpo? Be’, messa così la questione è semplice. I matematici e i fisici hanno doti cognitive; gli atleti hanno doti fisiche.
Il punto non è tanto quanto sia speciale Ronnie O’Sullivan. È che cercando di spiegare come fa, raggiungiamo velocemente i limiti di ciò che siamo in grado di spiegare su noi stessi
Ma quando tirate quella palla, non vi state proponendo un obiettivo difficile a livello fisico. La palla non è pesante, il bersaglio non è lontano e non c’è bisogno di tirare molto veloce o molto forte. Dovete solo fare il calcolo ed effettuare il tiro corretto. In quel momento, non sembra che fare il calcolo equivalga a effettuare il tiro? Il calcolo avviene nel cervello, ovviamente, ma anche, in un certo senso, nel braccio. Il tiro è esso stesso il calcolo. Forse l’avete immaginato, forse ci avete pensato prima, ma la decisione finale è stata l’azione. Il cervello, dopotutto, fa parte del corpo. È possibile che il corpo sia anche parte del cervello?
Nel 2015, in un profilo sul New Yorker, Ronnie O’Sullivan è stato paragonato a “un idiota sapiente in grado di concepire soluzioni matematiche senza sapere come o perché”. Sulla London Review of Books, nel 2024, Jon Day ha scritto: “In parte il fascino di Ronnie risiede nella sua completa incapacità di spiegare come fa a fare quello che fa”. Precisare che nessun altro è capace di spiegarlo non toglie nulla al considerevole fascino di O’Sullivan.
In effetti, sarebbe strano se un qualunque atleta di un qualunque sport sapesse davvero spiegare quello che fa. Di sicuro non ci aspettiamo che si metta a snocciolare teorie sulla conservazione del momento angolare. Ma è anche vero che in genere non descriviamo gli sportivi come idioti sapienti. Perché no? Forse perché le loro doti – nel lanciare, nel saltare, nell’afferrare – ci sembrano, di base, un potenziamento delle nostre. Guardare uno come O’Sullivan, invece, dà una sensazione diversa. Quello che sa fare lui non ci ricorda più quello che sappiamo fare noi. Sembra che le sue abilità pretendano una spiegazione. Ma in cosa dovrebbe consistere questa spiegazione? Quale campo di studi sarebbe in grado di articolare la risposta? La fisica, la scienza cognitiva, la psicologia, la filosofia della mente?
Secondo l’idea comune, tutti i più grandi giocatori di snooker ricadono in uno di questi due campi. Il primo è il professionista veterano: calmo, costante, tecnicamente impeccabile, emotivamente contenuto. Tra gli esempi di questo tipo ci sono Ray Reardon negli anni settanta, Steve Davis negli anni ottanta e Stephen Hendry nei novanta. La seconda varietà è quella che si potrebbe definire del tipo caotico: affascinante ma incostante, al tavolo e fuori. In questa categoria possiamo inserire Alex Higgins, detto “Uragano”, e Jimmy White, “Turbine”, giocatori il cui stile straordinario andava di pari passo con un comportamento imprevedibile. Tradizionalmente, i giocatori del primo tipo hanno sempre vinto i trofei – Reardon e Davis si sono portati a casa il titolo mondiale sei volte ciascuno e Hendry sette volte, un record – ma sono quelli del secondo tipo a conquistare il cuore e l’immaginario delle persone.
C’è sempre stato qualcosa di vagamente politico in questa differenza. Al suo apice, durante l’era Thatcher, il mondo dello snooker sembrava proiettare una certa immagine di mobilità sociale: ragazzi della classe lavoratrice che facevano soldi a palate lavorando sodo su qualcosa di dignitoso e rispettabile. A volte l’elemento politico non era così vago. Nel 1983 Steve Davis partecipò a un comizio del Partito conservatore. In questo contesto, giocatori come Higgins e White – brillanti, inaffidabili, mai fino in fondo all’altezza del loro potenziale – sembravano rappresentare una piccola ribellione contro il culto della rispettabilità e del duro lavoro.
Solo O’Sullivan è riuscito a percorrere entrambe le strade. All’inizio, con il suo atteggiamento strafottente e le giocate veloci e raffinate, dev’essere sembrato il successore naturale di Alex Higgins. Ma con il tempo il suo talento si è dimostrato di tutt’altro ordine. Ha avuto un successo da record, uguagliando i sette titoli mondiali di Hendry, ma i suoi fan continuano a tifare per lui come se fosse lo sfavorito. E non lo vedrete mai fare propaganda per il Partito conservatore. O’Sullivan si è iscritto al Partito laburista negli anni dieci del duemila, quando il segretario era Jeremy Corbyn, e adesso pare ne sia uscito di nuovo per via del sostegno del partito alla guerra di Israele contro Gaza. I suoi conflitti – con gli organi direttivi dello snooker, i mezzi d’informazione, gli arbitri, gli altri giocatori – fanno tutt’uno con la sua generale posizione d’isolamento, nello snooker e nella vita pubblica britannica. Non c’è veramente nessuno come lui.
Altra domanda: perché i computer riescono a battere gli esseri umani negli scacchi, ma non (ancora) nel biliardo? Stavolta una risposta c’è. A livello computazionale, lo snooker è semplicemente molto più difficile degli scacchi. Un normale telefono o un computer portatile hanno una potenza di calcolo più che sufficiente per trovare una mossa di scacchi ottimale nel giro di pochi secondi. Ma un computer, per giocare a snooker, anche con un braccio robotico di assoluta precisione, prima di tutto dovrebbe calcolare come colpire esattamente il pallino. E per farlo, dovrebbe avere accesso a un modello in grado di simulare la fisica reale del tavolo e delle biglie, e prevedere esattamente il risultato di ogni tiro. Per far questo servirebbe una potenza di calcolo parecchio maggiore di quella che può offrirvi uno smartphone.
I simulatori di biliardo, sia pool sia snooker, esistono – e da essi derivano parecchi videogiochi, tra cui l’ormai defunta serie World snooker championship – ma i loro motori fisici si basano su modelli semplificati. Quando una biglia da snooker colpisce una sponda, per esempio, come fa il simulatore a sapere cosa succederà? Be’, non lo sa. Anche i modelli più complessi dell’interazione biglia-sponda devono presupporre che la collisione sia istantanea, il che non è vero, e che la sponda non si comprimerà significativamente all’impatto, cosa che invece, come ogni appassionato di snooker sa bene, può succedere. E le migliori formule esistenti sono comunque troppo complesse per risultare utili a una simulazione da videogioco. Al momento, un computer che voglia giocare a snooker deve affidarsi a un modello semplificato e con risultati meno precisi.
Da un punto di vista matematico, quindi, lo snooker pone un problema molto più spinoso degli scacchi: richiede calcoli più difficili e molte più variabili. Ma questo non fa che riportarci alla nostra prima domanda: se la fisica dello snooker è così complicata, perché gli esseri umani dovrebbero essere capaci di giocarlo meglio dei computer? E, domanda correlata: com’è possibile che un giocatore di snooker preveda i risultati d’interazioni fisiche complesse con precisione millimetrica, apparentemente senza fare nessun calcolo?
Supponiamo di tornare al momento in cui tiriamo quella palla. Gli scienziati hanno alcune teorie al riguardo. Nel 2013 un team del Massachusetts institute of technology ha ipotizzato che il cervello umano attivi intuitivamente qualcosa di simile al motore fisico che usiamo in background nei videogiochi. Mentalmente, senza saperlo, simuliamo di continuo le condizioni del mondo reale e le usiamo per prevedere il risultato d’interazioni complesse. Quando vediamo una pila di piatti poco stabile, per esempio, il nostro motore intuitivo crea all’istante modelli sulla probabilità che quella pila cada, senza far ricorso a calcoli consapevoli.
I ricercatori che per primi hanno formulato questa ipotesi si sono premurati di sottolineare che il motore fisico del cervello umano, se davvero esiste, ha necessariamente dei grandi limiti. Il motore dovrebbe sacrificare la precisione in favore della “velocità, la generalità e la capacità di fare previsioni che siano corrette quel tanto che basta per svolgere le attività quotidiane”. Come le console per videogiochi, il nostro cervello ha solo una determinata potenza di calcolo a disposizione, quindi il nostro motore fisico dev’essere approssimato e semplificato di conseguenza. I risultati non sono neanche lontanamente precisi quanto dei veri calcoli matematici, ma sono (di solito) abbastanza precisi per le necessità della vita quotidiana.
È un quadro che sembra piuttosto sensato. Negli sport dal ritmo veloce come il calcio, la precisione è importante, ma è la rapidità quella che conta. Il pallone, in fondo, è molto più piccolo della porta, quindi spesso è improbabile che dei piccoli errori di traiettoria facciano una gran differenza. È ragionevole immaginare che un calciatore usi una rapida, approssimativa simulazione mentale del pallone e della porta per prendere una decisione sul campo nel giro di una frazione di secondo. Viceversa, in giochi mentali dal ritmo più lento come gli scacchi la velocità è comunque un fattore, ma la precisione è più importante. Per uno scacchista, nessuna stima approssimativa può competere con il buon vecchio calcolo, la consapevole analisi di una serie di mosse possibili.
I giocatori di snooker sono un caso a parte. Nello snooker la velocità non è molto utile, se non sul piano psicologico, perché il gioco formalmente non impone limiti di tempo. In teoria i giocatori ci possono mettere quanto vogliono per fare un tiro: venti secondi, trenta, un minuto, due. La precisione – cioè la validità predittiva – è l’unica cosa che conta. Eppure, a differenza degli scacchisti, i professionisti dello snooker non calcolano e non sono in grado di calcolare in maniera consapevole le loro mosse. Il procedimento matematico sarebbe, come abbiamo detto, troppo complesso, ma probabilmente non sarebbe neanche abbastanza preciso. Se si tratta di colpire una palla in un certo modo per ottenere un certo risultato, e se O’Sullivan gareggiasse contro un esperto di fisica armato di un calcolatore elettronico, io scommetterei sempre e comunque sulla vittoria di Ronnie.
Il punto non è tanto che lo snooker sia speciale, e neppure che lo sia O’Sullivan. Il punto è che cercando di spiegare qualcosa che appare straordinario, raggiungiamo velocemente i limiti di ciò che siamo in grado di spiegare su noi stessi, sulla normale mente umana. La teoria del motore fisico mentale sulle prime sembra utile, perché spiegherebbe come facciamo a simulare approssimativamente problemi come il tiro di una palla verso un bersaglio. Ma ha senso solo se la simulazione usa meno potenza di calcolo e fornisce risultati meno accurati di una soluzione matematica. Se il motore fisico che abbiamo in testa riesce a risolvere i problemi con la stessa esattezza di una formula newtoniana, allora l’idea del motore non spiega niente. È solo un sipario concettuale che cala sulla stessa domanda rimasta senza risposta.
La domanda è: come fa Ronnie O’Sullivan a fare quello che fa? Il tipo di problema che i matematici e gli ingegneri devono affrontare faticosamente a forza di equazioni differenziali – il tipo di problema talmente complesso da far surriscaldare e impallare un computer portatile – lui lo risolve a prima vista. Il rompicapo si presenta sotto forma della sua stessa soluzione, un gesto che nell’atto del calcolo completa se stesso. Il calcolo è lì, nel movimento del suo braccio; e il movimento diventa il colpo, il tocco della stecca, l’impatto, la palla che rotola diligentemente in buca.
Ludwig Wittgenstein ha posto la stessa domanda in un altro modo: “Le persone che sono prodigi del calcolo e danno la risposta giusta ma non sanno spiegare come. Dobbiamo forse dire che non calcolano?”.
Nel 2016, al Welsh open, O’Sullivan alla fine ha davvero rinunciato di proposito a una serie perfetta. Con la palla nera a disposizione, ha deciso di mettere in buca la rosa, per un totale di 146 punti invece del massimo di 147. Quella volta, il premio per un maximum break era di diecimila sterline. Dopo la partita O’Sullivan ha detto che i soldi non erano abbastanza. Ma in seguito, come spesso accade, è sembrato cambiare idea.
“Quando arrivi a quarant’anni e fai questa cosa da venticinque, a un certo punto devi per forza cominciare a divertirti”, ha detto in televisione il giorno dopo. “Sai, in allenamento mi è capitato spesso di arrivare sopra i 140 e decidere di non imbucare la nera, perché…”. Qui ha faticato un po’ a completare il pensiero. “Era più, come dire… faceva più effetto così”. L’intervistatore ha ricordato che da qualcuno quel 146 era stato definito come una mancanza di rispetto. “Se è una mancanza di rispetto”, ha risposto O’Sullivan, “be’, se qualcun altro è in grado di fare una prestazione del genere, ecco la mia stecca, ecco il mio gessetto, ecco il mio gilet. Ditegli pure di andarla a fare al posto mio”.
Naturalmente, nessuno era in grado né lo è tuttora. Malgrado l’occasione volutamente mancata, O’Sullivan ha ancora il record per il maggior numero di serie perfette completate: quindici. Forse se al Welsh open del 2016 il premio fosse stato più alto, il record ora sarebbe di sedici. Ma diecimila sterline non sono poche. E buttarle via – senza ragione, per puro dispetto, solo perché sei l’unico al mondo che può farlo – anche quello non è poco. Se riguardate quel frame vedrete che O’Sullivan sorride. Sembra veramente felice. Quello che sa fare lui, nessun altro è mai stato in grado di farlo. E nessuno sa neanche spiegare come ci riesca. Quale altra parola sarebbe sufficiente? Siamo in presenza del genio.
All’epoca O’Sullivan aveva quarant’anni; quest’anno ne compirà cinquanta. Dopo una performance eccezionale nella scorsa stagione, negli ultimi mesi ha fatto fatica a trovare la forma e si è ritirato da diversi tornei, suscitando timori di un suo addio alle scene. Forse sì, forse no. Io spero di no. In ogni caso, nel corso della sua carriera finora ci ha consegnato più performance appassionanti, più perfezione tecnica e più pura bellezza formale di quanto riesca a fare la maggioranza degli artisti. Vorrei saper scrivere libri come lui gioca a snooker. So che non ci riuscirò mai. Ma anche solo volerlo è abbastanza. ◆ mat
Sally Rooney è una scrittrice irlandese. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Intermezzo (Einaudi 2024). Sull’argomento di questo testo si può leggere il libro Unbreakable di Ronnie O’Sullivan (Seven Dials 2023) e vedere il documentario Ronnie O’Sullivan: the edge of everything di Sam Blair (2023). L’articolo è stato pubblicato dalla New York Review of Books con il titolo “Angles of approach”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1622 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati