Alle cinque del mattino María Tomasa Obando, 51 anni, è in piedi. Fa bollire l’acqua per il caffè, mette i fagioli in ammollo e sciacqua il riso. Tutti i giorni le stesse cose. Dopo colazione lava i piatti, raggiunge a piedi il pozzo del villaggio, gira la ruota finché non esce l’acqua, riempie un secchio blu (venti litri d’acqua) e lo porta fino a casa poggiandoselo in vita.

“Ho il fianco distrutto”, dice e mi mostra la cicatrice.

Ogni mattina riempie dieci secchi, d’estate tra la polvere, d’inverno nel fango. Bagna il pavimento fatto di terra, per evitare che nelle stanze si alzi la polvere. Sistema i letti, pulisce le sedie, lava i tavoli e le panche. Torna in cucina e rimette l’acqua a bollire per preparare riso e fagioli per il pranzo. Si riposa un po’ e all’una torna al pozzo per riempire altri dieci secchi.

L’acqua è il centro della sua giornata, la sua occupazione principale, il pretesto per chiacchierare con le vicine. È la vita. E la vita è quello che le capita mentre lei è occupata a fare provvista di acqua.

Queste terre cominciarono a popolarsi verso il 1826, in nome dell’acqua. Sulle sponde del lago Xolotlán, con la vista sul vulcano Momotombo, nacque il villaggio di San Francisco, che all’inizio del novecento diventò una zona di passaggio tra il nord del Nicaragua e la capitale Managua. I raccolti dei dipartimenti di Matagalpa, Jinotega, Estelí e Nueva Segovia arrivavano nel porto di San Francisco e da lì attraversavano il lago Xolotlán su piccole imbarcazioni dirette a Managua, nella costa sud del lago. Dalla capitale arrivavano i commercianti di sale, tessuti e scarpe in cerca di clienti.

Gli abitanti più anziani raccontano che nel porto c’erano molti negozi, fornai, pensioni e osterie. Poi negli anni cinquanta fu costruita la strada Panamericana, e i prodotti commerciali smisero di essere trasportati sulle barche per viaggiare solo sui camion. Oggi San Francisco sembra quasi un villaggio fantasma.

Corridoio secco

Da novembre ad agosto dal cielo non cade neanche una goccia di pioggia. Da settembre a ottobre l’acqua è una bestia selvaggia capace di sradicare le piante. San Francisco Libre (chiamato così dopo il trionfo della rivoluzione sandinista nel 1979) si trova sulla costa settentrionale del lago Xolotlán e dista una ventina di chilometri da El Vijague, il villaggio dove Obando passa le giornate raccogliendo l’acqua. Trentatré comunità in un raggio di 756 chilometri quadrati. Nei campi si coltiva riso, saggina, mais, grano e fagioli. Sulla sponda del lago pascolano le mucche, ma nell’entroterra i letti dei fiumi sono secchi.

Il Nicaragua è il paese centroamericano con più acqua pro capite (la disponibilità idrica divisa per numero di abitanti). Secondo l’Organizzazione panamericana della sanità e la Food and agriculture organization (l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), a ogni nicaraguense toccano 38.668 metri cubi d’acqua all’anno. Il 15 per cento della superficie del paese è ricoperto d’acqua: diciotto lagune, due laghi (il Xolotlán e il Cocibolca), cinquantuno fiumi che sfociano nell’Atlantico, dodici fiumi che finiscono nel Pacifico e quattro bacini idrici che insieme coprono più di 19mila chilometri quadrati, una superficie simile a quella della Slovenia.

Ma l’acqua potabile non è per tutti. Nelle zone rurali manca a più del 70 per cento degli abitanti e in quelle urbane al 10 per cento. Meno della metà degli abitanti può contare su un sistema fognario. I dati sono dell’Enacal, l’azienda responsabile degli acquedotti e delle fognature. Lo stato non ha un progetto per ampliare la rete fognaria.

Così, nelle zone rurali l’acqua che si consuma arriva dai pozzi, dalle gole e dalla pioggia. Nei periodi di siccità, quando i pozzi cominciano a prosciugarsi, l’Enacal manda autocisterne piene d’acqua per fare fronte all’emergenza. Ma c’è chi deve comunque percorrere molti chilometri a piedi per procurarsi l’acqua. La siccità colpisce un terzo del Nicaragua: 39mila chilometri quadrati, una zona un po’ più piccola della Svizzera ma più grande del Salvador. Il paese che contiene l’acqua perfino nel suo nome (agua in spagnolo significa acqua) è attraversato dal corridoio secco centroamericano, una zona di bosco tropicale secco in cui la siccità è lunga e la pioggia breve e intensa. A farne le spese sarebbero trecentomila abitanti (su sei milioni totali). Secondo il World food programme (Wfp), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di assistenza alimentare, due terzi di quelle persone potrebbero soffrire la fame. Vivono di quello che seminano però, quando arriva il fenomeno climatico del Niño, le piogge si riducono ulteriormente e i raccolti vanno perduti.

La maggior parte della zona secca è a nord – nei dipartimenti di Madriz, Nueva Segovia, Estelí, Matagalpa, Chinandega — ma ci sono regioni secche anche vicino ai laghi Xolotlán e Cocibolca, dove si trova il villaggio di María Tomasa Obando e dove, tra maggio e agosto, le famiglie vanno avanti solo grazie alle provviste che hanno messo da parte. Il fatto di avere un lago dove si può pescare aiuta. Ma nonostante tutto le donne – sempre le donne – trascorrono le giornate cercando l’acqua.

Managua, 2018 (James Rodriguez, Panos/Luz)

Non ci sono indicazioni per arrivare a El Vijague. Uscendo da San Francisco Libre, verso nord, si attraversa una strada polverosa. Poi bisogna proseguire per una ventina di chilometri, attraversare dodici gole in cui i massi, rotondi ed enormi, ricordano che una volta da lì passava un fiume tumultuoso, e cinque gole con qualche pozzanghera dove si abbeverano aironi, mucche, pappagalli e cani. Si continua fino a quando, sulla sinistra, appare un fiume enorme. In realtà, è un letto di pietre: dell’impetuoso fiume Viejo di Matagalpa resta solo un rigagnolo nascosto tra gli alberi. Andando ancora oltre, gli _ jicaros_ (gli alberi che sono il simbolo delle zone più secche) aumentano a vista d’occhio. Ogni tanto si vedono mucche pelle e ossa in compagnia di qualche mandriano. Superati alcuni agglomerati di case, finalmente si arriva alla piccola abitazione di legno e cemento, lamiera e tegole di Santos Félix Treminio e María Tomasa Obando.

Treminio semina il mais sui pendii che si trovano dall’altra parte della gola. Con un bastone appuntito fa un buco, getta i semi a terra e spera che la pioggia basti a farli crescere, e non sia così abbondante da trascinarli giù a valle.

La cucina è un po’ distante dal resto della casa. Ha pareti di cartongesso, un pavimento in terra battuta e un tetto di tegole da cui entrano i raggi del sole. La legna brucia sul fuoco. Il pomeriggio e l’acqua sono finiti. Obando torna al pozzo, protetto da quattro colonne di legno e un tetto di lamiera. Comincia a far girare una ruota fino a quando un getto d’acqua cade nel secchio. Lo sciacqua e butta l’acqua a terra: tre anatre di una vicina ne approfittano subito. Dopo sessantadue giri, il secchio finalmente è pieno e lei può ripartire. A metà strada si ferma per riprendere fiato. “Soffro di cuore”, dice.

Subito al pozzo arriva una vicina, una donna anziana minuta e piena di rughe, con un altro secchio. Se qualcuno si fermasse lì senza girare per il villaggio, penserebbe che questa sia una terra abitata solo da donne.

Anche se Obando ha i fianchi spezzati, se le manca il fiato e ha il volto indurito dalla stanchezza, nessun uomo della casa si offre mai di aiutarla. María Tomasa Obando è una schiava dell’acqua.

Una questione di genere

È una mattina d’inizio gennaio a Managua. Nell’ufficio del Wfp Antonella D’Aprile, la rappresentante dell’agenzia delle Nazione Unite in Nicaragua, mi conferma che in tutta la zona del corridoio secco – in realtà in tutte le regioni rurali – l’acqua è una questione di genere.

“La ricerca e la raccolta dell’acqua è un compito esclusivamente femminile, che comporta un notevole investimento di tempo durante il giorno, sottratto ad altre attività”, dice con enfasi.

I molti litri d’acqua che le donne trasportano ogni giorno non sono l’unico peso che grava sulle loro spalle: “Per garantire da mangiare alla famiglia, le donne seminano e raccolgono quello che possono sui loro terreni. E tocca sempre a loro mettere da parte le provviste per affrontare i periodi più duri di siccità”.

Le scarse piogge non solo distruggono i raccolti, ma separano anche le famiglie. Quando non si riesce a seminare, gli uomini vanno in Honduras o in Costa Rica a lavorare come braccianti. In quei mesi sono solo le donne a occuparsi della famiglia. Ma se la situazione è molto grave, anche loro devono partire: vanno in Costa Rica o a Panamá per cercare un impiego come collaboratrici domestiche. E i bambini sono affidati alle cure dei parenti più anziani.

Secondo D’Aprile, uno dei problemi è che in Nicaragua non ci sono studi di genere: “Bisogna mettere insieme delle prove. Fare studi e analisi per poi sviluppare dei programmi”.

Per ora l’agenzia ha aiutato cinquecento donne a ottenere un titolo di studio che gli ha dato qualche nozione sul prezzo degli alimenti e sul funzionamento del mercato. Le donne non hanno accesso al credito o agli attrezzi agricoli. Non sono viste come leader e neanche loro si considerano tali. “Hanno una formazione legata all’agricoltura, che è il mezzo di sostentamento principale nel paese”.

Quando nella regione arriva la siccità, il Wfp garantisce ogni giorno una merenda in più nelle scuole dei comuni più colpiti. Lo fa attraverso il programma di alimentazione scolastica del ministero dell’istruzione. Prepara anche i piccoli produttori a gestire l’emergenza. Nelle zone più esposte alla siccità l’agenzia lavora con più di quattromila persone organizzate in cooperative per raccogliere acqua, piantare alberi per il rimboschimento e informarle sul clima.

Legna e formaggio

Torna tutti gli anni, solo per pochi giorni: una pioggia brutale che s’insinua con un vento che scuote le foglie, sferza i tetti di lamiera, gli animali, gli alberi e i pochi fiori e i letti dei fiumi secchi. Una pioggia selvaggia che scende veloce come un fulmine giù per i pendii e affoga ogni seme che trova sulla sua strada.

A quaranta chilometri da Managua, nel villaggio di Colama, la siccità schiaccia la vita della gente. Ma la pioggia non la risolleva. Qui vivono circa settecento persone. Ci sono una biblioteca, una scuola elementare e un pozzo. C’è anche l’energia elettrica, ma non piove e manca l’acqua potabile.

Mentre lava i vestiti, Leonor Salgado dice che non sa cosa ne sarà di lei. Sbatte un paio di pantaloni su una pietra e si lamenta per la sorte del marito, Orlando Rocha.

“Si è ammalato ai reni sei mesi fa. Seminava fagioli e tagliava la legna, ma ora non fa altro che mangiare e dormire”, dice. Tagliare la legna è l’occupazione principale di molti uomini della zona. Come tanti altri, anche Rocha ha la sua ascia per abbattere gli alberi. “Era buono. Guadagnava cinque o seicento córdoba a settimana”, cioè poco più di quindici dollari.

Secondo il ministero dell’energia e delle miniere, il 60 per cento delle famiglie nicaraguensi cucina su un fuoco alimentato a legna. Quindi tagliare gli alberi è una fonte di guadagno essenziale per le famiglie più povere delle zone rurali.

Salgado ha 46 anni, una faccia rotonda con gli zigomi alti e le rughe intorno agli occhi. Per lavare i vestiti della sua famiglia di cinque persone limita l’acqua al minimo: in una bacinella mette in ammollo i capi insaponati, in un secchio prepara tutta l’acqua che userà per sciacquarli. Mi spiega che nei periodi di siccità non risciacqua quasi mai. I vestiti sono rigidi, ma vanno bene lo stesso. L’acqua che usa per lavare viene da una botte con cui riempie dodici secchi, che bastano per i panni di una settimana.

Salgado mi racconta che non ha un terreno da seminare: Orlando coltivava un appezzamento che suo padre gli aveva dato in prestito. Il raccolto sostentava tutta la famiglia. Oggi, oltre a occuparsi dell’acqua, degli animali, del bucato e della cucina, Leonor Salgado prepara anche la crema e la cuajada, un tipo di formaggio fresco diffuso in Nicaragua. Con ottanta litri di latte produce una quarantina di cuajadas, che vende a coppie, due per 45 córdoba, cioè poco meno di un dollaro e mezzo.

Dopo una curva incontriamo un fiume di pietre. Sono così rotonde e perfette che da lontano somigliano al letto di un fiume pieno d’acqua

“Sono diventata bravissima”, dice. Ma poi le si spezza la voce: “Però posso farlo solo in questo periodo. In estate gli animali non daranno più latte”, spiega.

Sete

A scuola ci hanno insegnato che è una sostanza inodore, incolore e insapore. Che si trova in natura più o meno pura, dolce o salata. Allo stato liquido genera fiumi, laghi, lagune e oceani. In quello solido, se la temperatura è sotto lo zero, genera ghiacciai. E in quello gassoso, a più di cento gradi, è vapore.

Ci hanno detto che si condensa, si solidifica, si fonde ed evapora. Che forma le nuvole che coprono il cielo. Che occupa tre quarti del pianeta. Che costituisce circa il 60 per cento del peso di una persona e si trova in ogni essere vivente. Che senza acqua possiamo vivere fino a cinque giorni, la possiamo fabbricare in laboratorio se uniamo due molecole di idrogeno e una di ossigeno. In chimica la formula che la descrive è H2O. La usiamo per lavare i vestiti e spazzolarci i denti. Per riempire le fontane pubbliche e annaffiare i giardini nei parchi. Per far funzionare i mulini, per irrigare i campi e pulire le stalle. Nell’acqua possiamo nuotare e immergerci.

Se beviamo a sufficienza, la nostra pelle avrà un bell’aspetto, la nostra temperatura sarà normale, la nostra urina sarà chiara e il nostro sudore abbondante. Se ci manteniamo ben idratati non avremo calcoli renali o infezioni del sistema urinario. L’acqua infetta può farci ammalare di febbre tifoidea, meningite, epatite, diarrea o colera.

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, circa 842mila persone muoiono ogni anno di diarrea per aver bevuto acqua insalubre. È nell’acqua che crescono le larve delle zanzare che trasmettono malaria, febbre gialla, dengue, zika o chikungunya.

Bere troppa acqua può uccidere: provoca iperidratazione, un’intossicazione da acqua. Lo stesso succede se non si beve abbastanza: ogni anno più di cinque milioni di persone muoiono di sete. Se sommassimo la popolazione di Stati Uniti, Indonesia e Russia (circa 748 milioni di persone) avremmo il numero di persone nel mondo che hanno problemi seri di accesso all’acqua, secondo l’Unicef. Il 20 per cento degli esseri umani (insieme formerebbero un paese grande come la Cina) vivono in zone in cui non c’è abbastanza acqua. 

Sostanze tossiche

Sono le nove di mattina e sulla strada sterrata verso El Vijague un camioncino solleva nuvole di polvere. Ci sono prati secchi dove pascolano vacche magre e l’enorme letto su cui un tempo scorreva il fiume Viejo di Matagalpa. Più in lontananza si vede una cordigliera con sfumature verdi così intense da sembrare quasi sfacciate in confronto a questo paesaggio secco. Si vede anche la cima del monte Güisisil dove, secondo la leggenda, c’è un orto paradisiaco, con manghi e jocotes, e si può mangiare fino alla sazietà ma non bisogna portare via nulla.

“Se cerchi di prendere quella frutta finisci per perderti. Così racconta mio nonno”, dice Xavier Bobadilla mentre guida. Indossa una maglietta gialla, gli piace molto parlare e quando sorride gli occhi diventano a mandorla. Mi spiega che nel 2020 sono morte quattro o cinque persone “per via dei reni”. Erano giovani, quasi tutti avevano meno di quarant’anni. “Solo un uomo ne aveva sessanta”, afferma. La colpa, sostiene, è del glifosato. Anche se l’acqua del pozzo non è stata analizzata, lui è sicuro che il problema sia la sostanza chimica che i contadini usano per diserbare senza neanche conoscerne le controindicazioni.

“L’acqua è veleno”, afferma.

Quest’idea è importante per Bobadilla: l’acqua di queste terre non solo è scarsa, ma è anche tossica. Mentre parliamo, me lo ripete varie volte.

Dopo una curva, in basso, incontriamo un fiume di pietre. Sono tante, così rotonde e perfette che da lontano somigliano al letto di un fiume pieno d’acqua. Il fiume Viejo de Matagalpa si è prosciugato vent’anni fa. “È stato a causa dell’uragano Mitch. Trascinò via le pietre e fece deviare il corso del fiume. Oggi rimane solo questo rivolo d’acqua”, spiega Bobadilla indicando un fiumiciattolo che scorre nella gola, dal lato della boscaglia.

Da sapere
Accesso ridotto
Percentuale di popolazione che ha accesso all’acqua in America Latina e nella regione dei Caraibi (fonte: oms, unicef)

Ad aprile le foglie cadute coprono il paesaggio, che sembra uno strato di gesso bianco. È la fase peggiore della siccità, quando gli alberi diventano più esili, si liberano dei fiori, delle foglie e di tutto quello che consuma acqua. L’albero deve risparmiare, mi dice Bobadilla mentre continua a guidare verso El Vijague. 

Un po’ più avanti incrociamo un camion carico di legname.

“Qui non ci sono né mogani né cedri, non si vedono neanche i pochotes, e i _guapiroles _sono sempre più rari. Le persone disboscano per fare spazio ai pascoli. Non resta quasi nulla. Quando ero bambino nella gola c’erano i pesci, le tartarughe e i granchi”.

Uscendo da Managua in direzione di Tipitapa, da dove a seconda della direzione che si prende si può arrivare a Colama, a San Francisco Libre o a El Vijague, si susseguono i banchetti che vendono fusti d’acqua. Ce ne sono di blu, di neri e di bianchi. Di capienza diversa, di plastica o di metallo. Possono costare 270, 400, 900 o mille córdoba, in un paese in cui il salario minimo è di 4.100 córdoba (120 dollari). Alcuni contenitori hanno ancora l’etichetta con il teschio per indicare le sostanze chimiche che hanno trasportato prima. Anche l’acqua è veleno.

Nella gola

“Ogni volta che passo da qui mi viene da piangere”, dice Obando.

Sale e scende tutti i giorni lungo il sentieri di questa gola, cercando di tenersi in equilibrio e di non cadere sui sassi. Ogni tanto si ferma e si riposa posando il secchio e la bacinella in cui trasporta i vestiti da lavare.

Le viene da piangere perché più di una volta in questa gola è stata sul punto di morire. Una volta, cadendo, si è fatta male e ha abortito. Era al terzo mese di gravidanza. Era già scesa nella gola, aveva tirato fuori il secchio dell’acqua da portare a casa quando si è aggrappata a una liana per non finire in una pozzanghera. Scivolando ha sbattuto e ha subito sentito un dolore forte al ventre. Il sangue ha cominciato a colarle tra le gambe. È tornata a casa spaventata e la suocera le ha spiegato che stava avendo un aborto.

“Hanno subito chiamato la levatrice. Era una palla di sangue, una femmina”, racconta.

La suocera, dice Obando, era molto anziana ma scendeva sempre nella gola con un secchio sulla testa e un altro in mano. Le donne in queste regioni non vanno in pensione dal compito di portare l’acqua, anche se hanno molti figli o sono anziane.

Un’altra volta, di nuovo incinta, Obando è caduta rotolando sui massi: “Mi sono salvata grazie a un bastone che mi ha bloccata”.

Il bastone a cui si riferisce è un albero che si affaccia sull’abisso. Il feto si è salvato, lei si è solo sbucciata una gamba.

Un’altra volta è scivolata con un recipiente pieno di piatti in equilibrio sulla testa e un secchio in mano. I piatti si sono rotti e le schegge le si sono conficcate in faccia. È riuscita a fermarsi a pochi centimetri da un masso grande come una palla. Me lo fa vedere e dice che se ci fosse andata addosso si sarebbe sicuramente rotta il collo.

Le sue grida hanno messo in allerta la famiglia: i figli e il marito sono scesi e l’hanno portata a casa. Neanche una settimana dopo, ancora indolenzita, Obando è dovuta tornare al pozzo.

Ogni giorno scende almeno quattro volte. Lava i panni: un viaggio. Sciacqua i piatti: un altro viaggio. Bagna il mais: un altro ancora. Lavarsi: l’ultimo viaggio.

La luce del pomeriggio è liquida e serena, il cielo è azzurro e limpido come uno specchio.

“Questa gola mi ha fatto invecchiare”, dice risalendo il sentiero in cui ha perso un bambino, stava per perderne un altro e dove per poco non perdeva la vita.

Ogni giorno María Tomasa Obando dovrà scendere e salire quattro volte quella gola. Andare e venire dal pozzo, senza ricevere aiuto o potersi riposare. Alla fine la vita, la sua vita, dipende dall’acqua.◆ fr

Sabrina Duque è una giornalista ecuadoriana nata a Guayaquil nel 1979. Ha scritto vari libri tra cui _VolcáNica _(Debate 2019), sul rapporto tra i vulcani del Nicaragua e le proteste antigovernative scoppiate nel 2018.

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Questo articolo è uscito sul numero 1397 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati