Quasi ogni giorno, in un incrocio trafficato di Johannes­burg incorniciato da alberi di jacaranda, compaiono i tre uomini d’argento. Scivolano nel traffico assordante assumendo sembianze diverse: a volte sono impiegati azzimati con gli occhiali sottili e le cravatte sollevate dal vento, altre volte sono giullari luccicanti. Più spesso indossano scarponi da lavoro e caschi da minatore, e hanno in mano un piccone, come reincarnazioni spettrali delle migliaia di lavoratori a contratto che si spezzarono la schiena a Johannesburg nella più grande corsa all’oro al mondo.

Gli uomini sfoggiano un sorriso fisso anche quando il caldo estivo sfiora i quaranta gradi o le temperature invernali precipitano sotto lo zero. Si muovono solo quando si abbassa un finestrino e compare una mano con dentro una moneta o una banconota. Allora, con grazia inattesa, raccolgono il denaro e subito si rimettono in posa. Il più alto del gruppo, Bernard Monana, è un uomo loquace e allampanato di 58 anni, con il pizzetto incolto e inclinazioni da filosofo. È arrivato a Johannesburg dal vicino Zimbabwe nel 1993, quando era ancora un giovane sognatore. Il regime dell’apartheid stava per finire e la città dei sogni africana prometteva opportunità di una vita migliore. Decine di migliaia di persone avevano avuto la sua stessa idea. Poi i mesi sono diventati anni, e Monana ha finito per passare da un lavoro all’altro.

Un pomeriggio afoso di ottobre, mentre si concede una pausa sull’erba vicino alla strada, Monana racconta di com’è diventato una statua vivente: all’inizio ha osservato i colleghi nei centri commerciali, poi ha fatto le prove nel suo minuscolo appartamento in città. Ora, sei giorni alla settimana, si spruzza di vernice argentata, abito compreso, prende l’autobus per uscire dalla township in cui vive e si dirige verso i viali dei quartieri residenziali a nord. “Ho imparato da solo. Perché questa è Johannesburg. Devi fare quello che serve per sopravvivere”, dice con una scrollata di spalle.

Restare immobile, a volte, è quasi insopportabile. Per esempio, può deglutire una volta ogni quindici minuti. Il lavoro però gli piace perché lo costringe a spegnere il cervello. Così non gli vengono in mente tutte le volte in cui si è trovato con una pistola puntata alla tempia (la città ha un tasso di omicidi tra i più alti al mondo). Quando i semafori vanno in tilt lui resta immobile, mentre i senzatetto sbucano dall’ombra e si mettono a dirigere il traffico. Non gli piace pensare al paradosso di essere un laureato che si contende pochi spicci con queste persone, spesso stordite dall’eroina.

Una volta, un camion che sterzava per evitare una buca l’ha quasi investito. Monana dice orgoglioso di non aver quasi battuto ciglio. “A volte penso che bisogna essere dei pazzi bastardi per vivere qui”, commenta ripensando a quell’episodio.

Parte la corsa all’oro

I primi coloni di Johannesburg probabilmente gli avrebbero dato ragione: nessuno sano di mente poteva pensare che fosse una buona idea costruire una metropoli sopra il Witwatersrand, un’arida dorsale geologica che rende Johannesburg una delle poche grandi aree urbane senza una fonte naturale d’acqua nelle vicinanze.

Le fondamenta che ancora oggi danno forma alla città più ricca dell’Africa risalgono al 1886, quando George Harrison, un vagabondo che si era fermato a riparare la ruota del suo carro vicino a un ruscello nella zona di Lang­laagte, notò dei riflessi scintillanti nell’acqua. Erano circa vent’anni che i cercatori di metalli preziosi setacciavano la regione, ma la scoperta di Harrison diede il via a una corsa all’oro.

Le persone accorsero in massa a eGoli, la “città dell’oro” in lingua zulu. Armate di picconi e pale, scavarono per sessanta chilometri lungo il Witwatersrand, e in dieci anni un mosaico di piccole fattorie si trasformò in un centro minerario con più di centomila abitanti.

All’apice della loro attività le miniere di Johannesburg producevano il 40 per cento dell’oro mondiale. Nel frattempo, un gruppo ristretto di Randlords – i capitalisti che avevano fatto fortuna con i diamanti del Sudafrica – accumulava ricchezze smisurate grazie a un sistema basato sul lavoro di immigrati pagati una miseria. “Le antiche Ninive e Babilonia sono risorte. Johannesburg è il loro prototipo del ventesimo secolo”, scriveva un giornalista che visitò la zona nel 1913. Lì ci si poteva arricchire ma “i lavoratori ne pagavano il prezzo con le sofferenze e il sangue”.

Oggi la metropoli continua ad attirare ogni anno quasi 750mila migranti, più di qualsiasi altro posto in Africa. Il 22 e 23 novembre Joburg, o Jozi, come la chiamano i suoi abitanti, è stata la prima città del continente a ospitare un vertice del G20, accogliendo leader come Narendra Modi, Luiz Inácio Lula da Silva e Keir Starmer, visto che il Sudafrica era presidente di turno dell’organizzazione.

Eppure, sul fronte interno, ci sono molti dubbi sulle capacità di Johannes­burg di governarsi. I disservizi sono all’ordine del giorno: ci sono stati quasi centomila blackout tra il giugno 2024 e il febbraio 2025, e alcuni sono durati giorni. Anche le interruzioni nell’erogazione di acqua potabile sono frequenti. L’offerta di alloggi è drammaticamente insufficiente.

Bambini di un palazzo controllato da bande criminali nel quartiere di Hillbrow, 31 agosto 2023 (Michele Spatari, Afp/Getty)

A settembre l’azienda elettrica locale ha sequestrato duemila chili di cavi d’alluminio rubati, in gran parte usati per improvvisare allacci alla rete elettrica nelle baraccopoli. In centro, gli edifici fatiscenti controllati da bande criminali che riscuotono l’affitto da inquilini abusivi hanno ormai un nome: hijacked build­ings, palazzi dirottati. Nel 2023 77 persone sono morte in un grave incendio divampato in uno di questi palazzi.

Alcuni problemi di Johannesburg non sono responsabilità solo delle autorità locali. A livello nazionale la criminalità costa all’economia almeno il 10 per cento del pil ogni anno. La creazione di nuovi posti di lavoro è soffocata da una crescita che negli ultimi dieci anni è stata inferiore all’1 per cento.

Nonostante un bilancio annuale di 89,4 miliardi di rand (4,47 miliardi di euro), superiore a quello di alcuni piccoli stati africani, il consiglio comunale di Johannesburg fatica a garantire la manutenzione ordinaria. L’anno scorso ha accumulato più di 22 miliardi di rand di spese non autorizzate e sprechi, tanto da ricevere un richiamo dal dipartimento del tesoro. Il succedersi di coalizioni di governo instabili (Johannesburg ha cambiato nove sindaci dal 2016) ha paralizzato i processi decisionali.

Nel 2023, lo stesso anno dell’incendio nel palazzo occupato, l’esplosione di una conduttura del gas ha aperto una voragine in pieno centro all’ora di punta. A quel punto l’amministrazione ha mandato un messaggio concitato su Whats­App in cui chiedeva l’aiuto di ingegneri per capire cosa fosse accaduto. La strada è stata riparata solo a ottobre di quest’anno.

“Quando c’è instabilità politica la burocrazia va in letargo”, nota Edgar Pieterse, direttore dell’African centre for cities dell’università di Città del Capo. “Il consiglio comunale si limita alle attività essenziali, non fa una pianificazione di lungo termine”. Di fronte alle critiche ricevute in vista del vertice del G20, il sindaco Dada Morero ha ammesso che “il comune da solo non può risolvere i problemi dei servizi, del degrado urbano e del calo di fiducia dell’opinione pubblica”.

Se Johannesburg sarà capace di uscire dalla sua spirale discendente, potrà diventare un modello per altre città del continente

La domanda è: qualcuno riuscirà a salvare questa città in caduta libera? La posta in gioco è alta in vista delle elezioni del 2026. La provincia del Gauteng, che ha Johannesburg come capoluogo, è lo snodo economico più vitale del paese: ospita le sedi di decine di multinazionali e il 70 per cento delle aziende sudafricane. “Se il Gauteng va a rotoli, il Sudafrica non può andare avanti”, ha detto il presidente Cyril Ramaphosa a marzo.

Il destino di Johannesburg non interessa solo il Sudafrica: con l’urbanizzazione che accelera ovunque, la gestione di metropoli in rapida espansione diventa cruciale. Soprattutto in Africa, dove la popolazione passerà da 1,5 miliardi a quattro miliardi entro la fine del secolo. Se Johannesburg sarà capace di uscire dalla sua spirale discendente, potrà diventare un modello per altre città del continente.

Sulla torre del privilegio

Nella primavera del 1976, a un isolato dal quartiere alla moda di Hillbrow, che all’epoca era riservato ai bianchi, fu inaugurato l’edificio residenziale più alto dell’emisfero australe. Il grattacielo cilindrico di Ponte City era un baluardo del privilegio bianco, il fiore all’occhiello di un governo dell’apartheid che si aggrappava al potere mentre i movimenti indipendentisti si diffondevano in tutto il continente.

Quella torre di 54 piani, si leggeva su un dépliant pubblicitario dell’epoca, “dà vita all’Utopia e dimostra che il Sudafrica è al passo con i grandi centri urbani del mondo”. Le finestre rivolte all’interno si aprono su un pozzo di luce dove, si diceva, sarebbe sorta una pista da sci al coperto. Dai piani più alti i residenti potevano vedere la periferia della città, circondata dai cumuli di residui minerari tossici, e le township dove vivevano i non bianchi.

Durante l’apartheid gli unici neri ammessi a Hillbrow erano quelli che lavoravano nelle case dei bianchi, e che erano tenuti deliberatamente in condizioni di povertà da un sistema concepito per preservare il potere bianco a ogni costo. Fuori da quelle enclave, però, l’apartheid stava crollando. Lo stesso anno in cui fu inaugurato Ponte City, gli studenti delle scuole superiori scatenarono una rivolta nella township di Soweto costringendo le autorità a cancellare alcune delle restrizioni più odiose del sistema.

Poco alla volta i neri cominciarono a trasferirsi in città. Vivere in quartieri come Hillbrow significava avere a portata di mano più opportunità di lavoro, in zone dotate dei servizi essenziali. Nel frattempo, però, i residenti bianchi – con loro le attività economiche – se ne stavano andando. All’afflusso di nuove persone non corrispondeva un aumento dei nuovi posti di lavoro, e questo contribuiva a rafforzare l’esodo di capitali dal centro. Hill­brow diventò tristemente nota per la criminalità e la povertà. “Ponte era invasa da gangster e spacciatori”, racconta Nickolaus Bauer, giornalista ed ex inquilino del palazzo, mentre indica il disco di cielo azzurro sopra di noi nella corte centrale. “I rifiuti arrivavano fino al quattordicesimo piano e si diceva che in mezzo ci fossero perfino dei cadaveri”.

Nel 1994, con la fine dell’apartheid, una città che fino ad allora era stata spezzettata in più di una decina di municipalità divise su base razziale fu improvvisamente unificata. Le nuove autorità, che non dovevano più rispondere solo alla minoranza bianca, dovevano garantire servizi decenti a una popolazione cresciuta del 70 per cento. S’investirono grandi somme per ammodernare le township a scapito dei quartieri bianchi. Le zone centrali di Johannes­burg sprofondarono in un tale degrado che ormai ci vivevano solo coloro che non avevano un altro posto dove andare.

Ma la forza di Ponte è sempre stata la sua posizione. Arroccata su un incrocio che domina le principali stazioni ferroviarie e degli autobus, la torre è spesso la prima tappa per chi arriva dalle campagne o dall’estero. È qui che Monana, a 22 anni e pieno di ottimismo, arrivò dopo un viaggio in pullman di 18 ore. “Ero davvero contento e sentivo che stavo per cominciare una vita migliore”, ricorda.

La crisi delle bollette

All’inizio del 2011 gli abitanti di Johannes­burg cominciarono a ricevere bollette dell’acqua e dell’elettricità astronomiche. Quello che all’inizio era sembrato un banale errore burocratico sfociò in un’inchiesta giudiziaria e in una crisi politica destinate a cambiare radicalmente l’amministrazione della città.

Hillbrow, Johannesburg, 9 settembre 2023 (Michele Spatari, Afp/Getty)

Il giovane e popolare sindaco di allora, Parks Tau, stava portando avanti un ambizioso progetto per migliorare l’efficienza dei servizi, compresa la gestione delle bollette. Figura di spicco dell’African national congress (Anc) – il partito a cui erano appartenuti tutti i sindaci dall’avvento della democrazia nel 1994 – Tau si ritrovò con una serie di problemi tecnici e di dati incongruenti che fecero partire un’ondata di bollette impazzite e disservizi. Molte persone, esasperate, semplicemente smisero di pagare.

Nel settembre del 2011 i debiti accumulati da cittadini e aziende verso la municipalità di Johannesburg ammontavano a 12,1 miliardi di rand. Il bilancio comunale finì in rosso. Un membro della commissione finanze definì la situazione “sinceramente sconcertante”, precisando che “il cuore tossico di Johannesburg è la crisi delle bollette. Tutti i problemi finanziari si possono ricondurre a questo”. Alla fine scoppiò uno scandalo di corruzione in cui furono coinvolti più di venti dipendenti pubblici e appaltatori, accusati di aver approfittato del sistema di riscossione municipale. Secondo alcune stime, erano stati sottratti alla casse del comune più di 200 milioni di rand. “Non c’era più fiducia nelle autorità. Sul piano politico è stato l’inizio della fine”, ricorda Pieterse.

Alle elezioni del 2016 i partiti d’opposizione cavalcarono la crisi presentandola come il simbolo della corruzione e dell’incompetenza dell’Anc. Per la prima volta dal 1994 il partito perse il controllo della città, che da allora è governata da coalizioni fragili, destinate a crollare per dare vita a nuove alleanze e a una successione di sindaci di breve durata. Uno è rimasto in carica appena tre mesi.

Intanto la situazione finanziaria si è aggravata. Ogni anno il 15 per cento dei cittadini non paga le bollette, e secondo le previsioni, nel 2025 quelle non saldate ammonteranno a 8 miliardi di rand. Anche le risorse destinate alle infrastrutture sono state ridotte e molte persone hanno preferito trasferirsi in città più efficienti, togliendo a Johannesburg ulteriori entrate. L’ultima crisi infrastrutturale riguarda l’acqua. A causa dell’incuria e degli scarsi investimenti, quasi metà dell’acqua della città si disperde nelle tubature, mentre i rubinetti rimangono a secco. La costituzione progressista del Sudafrica post­apartheid impone al comune di garantire a tutti i cittadini il diritto fondamentale all’acqua e all’elettricità, anche a chi non può pagarle. Il risultato è che molti “si sono abituati a inseguire le autobotti con in mano i secchi, a causa delle continue emergenze idriche”, si lamentava un quotidiano nel 2024.

Ancora una volta la cattiva gestione finanziaria ha aggravato la situazione. A ottobre la città aveva un debito di circa un miliardo di rand verso i fornitori d’acqua. “Il comune sposta letteralmente i soldi da un secchio all’altro, a seconda del problema di cui si parla di più in quel momento”, dice Ferrial Adam, direttrice dell’organizzazione non profit Water community action network (WaterCan). “È un caos totale”.

“Certo, i ladri e gli sbandati non mancano. Ma ci sono anche tante persone che vogliono semplicemente vivere la loro vita”

A settembre di quest’anno, dopo essere rimasti per giorni senz’acqua, gli abitanti di cinque insediamenti informali hanno incendiato dei copertoni nelle strade, un chiaro segnale di tensioni sociali. La polizia ha risposto sparando proiettili di gomma. Grazie all’intervento di WaterCan, alla fine sono state inviate le autobotti.

“Le riflessioni più importanti sul futuro di Johannesburg ormai avvengono fuori dalle istituzioni. Passano per i gruppi Whats­App, il nuovo terreno dell’attivismo. Sono ottimi cani da guardia”, osserva la giornalista Ferial Haffajee, una strenua difensora della città. La situazione le ricorda quando, da giovane, era un’attivista antiapartheid. “È come se fossimo tornati agli anni in cui la gente si organizzava intorno a grandi questioni come l’acqua, l’energia o i trasporti. È politicamente stimolante. Però non so quanto durerà: non si può mandare avanti una città senza un governo efficiente”.

Il viaggio insieme

Dopo l’apartheid, i progetti per trasformare Ponte City in un complesso residenziale di lusso – o, in alternativa, in un carcere – non andarono in porto. I proprietari ripulirono l’edificio, introdussero un servizio di sicurezza 24 ore su 24 e l’accesso con le impronte digitali. Tra i nuovi frequentatori c’era anche Bauer. Una sera del 2010 lui e un amico tornarono nel suo vecchio appartamento. Il giornalista – un uomo alto dall’entusiasmo contagioso – era consapevole che molti sarebbero inorriditi: “Ma sei matto? Sei fuori di testa?”. Eppure quella sera, dopo aver aiutato un tassista a far ripartire la sua auto, incontrò poche persone: un gruppo di suore e un uomo che rientrava dal lavoro. Per lui fu una rivelazione.

“Magari pensi che, appena metti piede fuori casa, ti trovi davanti ladri e sbandati”, dice Bauer in un attico di Ponte City un pomeriggio d’ottobre. Johannesburg si stende ai nostri piedi in tutto il suo caos e splendore. “Certo, i ladri e gli sbandati non mancano. Ma ci sono anche tante persone che vogliono semplicemente vivere la loro vita. La vera sfida è riconoscere e cercare quei cittadini di Joburg pronti a fare insieme il viaggio per salvare la città”.

Bauer fa sul serio. Nel 2012, insieme a un amico, ha fondato Dlala Nje, che in zulu che significa “gioca e basta”. L’associazione, con sede a Ponte City, gestisce un centro giovanile ai piedi del grattacielo e organizza visite guidate in centro con i residenti di Hillbrow. Finora ha già accolto trentamila visitatori, tra cui anche dei capi di stato.

La prima tappa del tour a piedi, dice Bauer indicando un edificio fatiscente, “è un palazzo occupato e abbandonato che in dodici anni ha continuato a peggiorare. Quindi sì, il degrado è evidente. Vedo che le cose vanno in una certa direzione, poi però…”. Indica una striscia verde brillante incastonata tra i grattacieli di cemento. “Vedo questo parco: un anno fa era un girone infernale della droga”.

Grazie alla collaborazione tra le istituzioni e la società civile, il parco è diventato un rifugio per i bambini del quartiere. “Questo posto è l’esempio perfetto di come si può trasformare un posto di merda in un posto top”, dice Bauer.

Ci sono decine di altri casi come questo. Qualche chilometro più a sud, nell’area commerciale che un tempo ospitava la borsa del Sudafrica, la vecchia sede dell’azienda mineraria Anglo American, per anni motore economico del paese, si staglia in modo stridente tra cumuli di rifiuti e pozzanghere di liquidi non meglio identificati, lungo strade piene di negozi con le vetrine rotte o le serrande sbarrate. Lì l’imprenditore Gerald Olitzki ha intravisto un’opportunità. Negli ultimi trent’anni ha ristrutturato più di una decina di isolati intorno a Gandhi square, assumendosi molte responsabilità che spetterebbero al comune. Ha assunto addetti alle pulizie e alla sicurezza, ha spinto per far introdurre un divieto ai venditori abusivi e ha negoziato (a volte per mesi) con i criminali che occupavano illegalmente alcuni edifici. Le attività economiche sono ripartite. Le startup, molte provenienti da quartieri popolari come Soweto, si contendono lo spazio con banche, catene di supermercati e negozi di abbigliamento. “La situazione è grave, ma dire che Johannesburg sta morendo o è già morta è una sciocchezza”, osserva Olitzki.

“Sembra che qualcuno in città abbia deciso di darsi da fare”, dice. “Quando se ne vedranno i frutti, allora si comincerà a investire”. Per ora, però, Gandhi square resta un caso a sé. Kudzai Sithole, che gestisce un bar accanto alla piazza, spiega che non le verrebbe mai in mente di avviare un’attività notturna in un’altra parte del centro. “Due strade più in là è tutta un’altra storia”, nota.

Non molto tempo fa Johannesburg ha annunciato una collaborazione con enti privati per tenere accesi i semafori e i lampioni durante i blackout. Le luci devono essere collegate a generatori elettrici forniti dall’azienda più vicina. Banche, hotel di lusso e società di gestione fondi hanno aderito. Il progetto è stato avviato a Sand­ton, il quartiere più ricco di tutta l’Africa, in cui molte imprese si sono trasferite dopo essere andate via dalla stessa zona che Olitzki sta cercando di riqualificare. Secondo Rashid Seedat, direttore del Gauteng city-region observatory, Johannesburg ha le competenze e l’esperienza necessarie per avere successo. “Joburg non è una città povera. È in grado di realizzare infrastrutture straordinarie”, ha dichiarato Seedat, che partecipò all’organizzazione dei Mondiali di calcio del 2010. “Serve solo una guida all’altezza”. Dopo dieci anni di lavoro con le comunità di Hill­brow, con risultati positivi anche dal punto di vista economico, Bauer è fiducioso. “Non posso che essere ottimista: del resto, lavoro in un edificio che prima era una specie di baraccopoli verticale”.

Le città africane più ricche

◆ Secondo la società di consulenza Henley & Partners e il sito TechPoint.africa, le prime città in Africa per pil e numero di residenti milionari sono:
Johannesburg (Sudafrica), sede delle più importanti aziende quotate alla borsa sudafricana, concentrate nel quartiere di lusso di Sand­ton, ha 6,3 milioni di abitanti, di cui 11.700 milionari;

Città del Capo (Sudafrica) è una città di cinque milioni di abitanti con i prezzi degli immobili più alti del continente e un’economia in forte crescita;**
****Il Cairo** (Egitto) è una città di 22 milioni di abitanti dove vive il maggior numero di miliardari del continente (cinque) e dove si concentra il 45 per cento del pil egiziano;**
****Nairobi** (Kenya), motore economico dell’Africa orientale grazie alle sue aziende informatiche, ha 5,7 milioni di abitanti; **
****Lagos** (Nigeria) è il principale centro finanziario ed economico nigeriano, e ha circa 17 milioni di abitanti.


Più che una trasformazione spettacolare o una riqualificazione in grande stile, quella di Ponte e di Gandhi square è una progressione silenziosa. Con l’aumento della sicurezza e della pulizia questi due luoghi possono trainare l’intera città, centimetro dopo centimetro. È un processo fragile, ma in un paese segnato da enormi disuguaglianze può determinare se Johannesburg affonderà o se riuscirà a navigare in un mare di energie inesplorate.

Quando ho chiesto a Olitzki se per le aziende è sostenibile fare il lavoro del comune, mi è sembrato fiducioso. “Purtroppo è diventato sostenibile. Insomma, vale la regola: aiutati che il ciel t’aiuta”. Le aziende sono intervenute più volte per supplire alle mancanze dell’amministrazione, soprattutto nelle zone più ricche. Nei quartieri residenziali della classe media, immersi nel verde, operano agenzie di sicurezza privata, ambulanze private e perfino una compagnia assicurativa che ripara le buche segnalate via app.

Alla fine, però, tutti concordano che una metropoli pienamente funzionante ha bisogno che le istituzioni prendano l’iniziativa. Adam, l’attivista per l’acqua, sottolinea che ci sono competenze profonde che semplicemente non vengono valorizzate. Johannesburg Water, per esempio, “ha tecnici preparati e un buon piano di rilancio. Serve solo la volontà politica”.

Un sorriso in cambio

A novembre il tempo a Johannesburg è capriccioso: è capace di passare in un istante dal freddo al caldo soffocante. Quando smette di piovere, la città si immerge nella luce dorata della prateria dell’Alto veld. L’ultima volta che incontro Monana, le nuvole si sono dissipate e nel tardo pomeriggio è spuntato il sole, i cui raggi si riflettono sugli abiti argentati dei tre uomini in pausa.

All’inizio della settimana, un piccolo esercito di operai è arrivato a Hillbrow per spazzare via i rifiuti dalle strade, riparare i lampioni e allontanare dai marciapiedi i venditori senza autorizzazione. Quell’attività frenetica rientrava nei preparativi per il G20. Monana non si è lasciato impressionare. “Solo per gli stranieri? Dovrebbero farlo per noi, che viviamo qui da un sacco di tempo”, dice.

Alza la mano per contare le rapine a mano armata – tre – dalle quali è riuscito a scampare da quando è arrivato in città, tanti anni fa. Fare volontariato in una chiesa nel cuore di Hillbrow gli dà conforto. Gli chiedo come vede il futuro, soprattutto per suo figlio di vent’anni. “Il compito più grande che Dio ci affida è amarci gli uni con gli altri”, mi risponde. Accanto a lui, Eric Ngwenya, un’altra “statua vivente”, annuisce. Ngwenya viene dalla provincia del Capo orientale, la più povera del paese. “Chi comanda ama troppo il denaro. Non gli importa delle nostre sofferenze”, commenta.

In quel momento si ferma un fuoristrada abbassando il finestrino. Un gruppo di bambini grida salutando gli uomini d’argento. Monana ricambia il gesto sorridendo. “La gente mi aspetta, ora devo tornare al lavoro”. ◆ fas

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Questo articolo è uscito sul numero 1645 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati