Cronaca di un anno difficile

Ho vissuto in molte case, case da dimenticare per i giorni amari che ci ho passato, case dove tornavo tardi la notte per rimandare ancora di più il momento d’infilare la chiave nella serratura, case da cui in certe giornate uscivo con il pensiero che non avrei più riaperto la porta. Case che sapevo di dover sopportare, case senza cucchiai e forchette, case dove toglievo il lenzuolo dal materasso, lo ricoprivo con un asciugamano e infilavo il cuscino in una mia camicia per poter passare la notte. Case dove c’era poca luce, dove non c’era una scrivania né un vaso da innaffiare. Case che non permettevano a niente di crescere, case provvisorie, che avrebbero dovuto accogliermi, farsi mie, ma restavano solo quattro mura. In Iran avevano ucciso una ragazza, la gente era scesa in strada a protestare, ma io non mi trovavo lì.

Stavo per impazzire, erano vent’anni che raccontavo tutto quello che succedeva nel mio paese, ogni movimento, ogni rivolta. Ogni volta ero rimasto fuori a seguire gli eventi fino all’ultimo e avevo scritto. Ma adesso, quando tutti pensavano che sarebbe stata l’ultima volta che la gente doveva scendere in strada, non ero in Iran. Stavo impazzendo anche perché avevo scritto cose per cui non ci potevo tornare. Mi avevano inviato un messaggio che diceva che se fossi tornato mi avrebbero processato e mandato in prigione (è stato così quando sono tornato). Per un anno intero mi sono trovato senza fissa dimora. Le case per me erano dei rifugi. Erano temporanee, sapevo che erano di passaggio eppure ce la mettevo tutta perché, in quell’anno, diventassero casa mia. Le case dell’anno difficile.

La casa dietro la stazione di Saronno

Il palazzo è stato costruito poco dopo il boom economico italiano, nei primi anni settanta, con un’architettura funzionale e materiali di buona qualità. Le cerniere delle porte e degli armadi non cigolano, lo sciacquone del bagno funziona perfettamente; niente, in tutta la casa, è mai stato sostituito. Dopo anni la lavastoviglie va riparata, ma Agnese dice che ormai non si trovano più i pezzi di ricambio e che comprarne una nuova costerebbe meno. L’appartamento l’aveva acquistato il padre di Agnese come regalo di nozze e Giacomo è nato e cresciuto proprio lì. Ma adesso Agnese non ci vive più, nemmeno lui: la casa è per lo più vuota oppure accoglie ospiti e amici.

La mia stanza è rimasta quella della sua infanzia: alle pareti ci sono le foto di lui da piccolo e un paio di disegni incorniciati. Negli armadi c’erano sempre lenzuola pulite e asciugamani inamidati e piegati con cura, questo prima che Agnese si ammalasse di cancro. Adesso i cassetti sono vuoti e anche la pulizia della casa lascia a desiderare. Giacomo dice che ha preso una persona che viene a pulire, ma lui vive come un maiale. È lui che lo dice: “Ho fatto un porcile, lascio sempre tutto in giro”.

Bisogna sempre raccogliere i bicchieri e i piatti dalla sua scrivania, allora lui raccomanda di non mettere in lavastoviglie i piatti con il bordo dorato di suo nonno. All’inizio diceva di non versare l’acqua bollente della pasta nel lavandino della cucina, oppure di non chiudere del tutto la finestra di alluminio del bagno quando facevo la doccia, per non far ristagnare il vapore; ma era prima che Agnese si ammalasse. Era Agnese che sorvegliava, puliva e teneva in ordine questo regalo di nozze.

In questi giorni sono solo nell’appartamento. Il giardino del palazzo è pieno di fiori di camomilla: a volte ne colgo un po’, li porto dentro e faccio un infuso; ogni tanto compare un coniglietto che subito si nasconde. C’è un giardiniere che pota regolarmente le piante e taglia il prato, però non l’ho mai visto.

A volte arrivano dei predicatori a suonare i campanelli per avvicinare gli abitanti a Cristo, oppure viene il parroco per benedire gli inquilini del palazzo che risultano nei registri parrocchiali oppure qualcuno che vuole vendere un’edizione preziosa del Vangelo, ma quando vedo le loro facce sullo schermo del citofono evito di aprire. Loro continuano a suonare gli altri campanelli e così anche quello di questo appartamento torna a squillare, finché a un certo punto se ne vanno; non ho visto mai nessuno aprire, ma i loro volti si somigliano molto. Uomini e donne di mezza età che, probabilmente, hanno smesso con qualche dipendenza e hanno consacrato la loro ritrovata purezza a Cristo.

Quando suonano, sono sempre gentili e ben vestiti, ma una cicatrice sulla fronte, un dente di un colore diverso dagli altri, o una scottatura sul collo rivelano che hanno passato tempi difficili. Non apro mai la porta, ma noto sempre questi dettagli e quando sono sicuro che se ne sono andati esco sul balcone e cerco di capire con che macchina sono arrivati, se vanno alla stazione per prendere il treno o in che altro modo si allontanano dal palazzo che si trova proprio dietro la stazione.

Ogni mattina attraverso il sottopassaggio, arrivo sull’altro lato della stazione e compro un cornetto al cioccolato; per questi piccoli acquisti parlo in italiano, ma per le cose più importanti uso un miscuglio di inglese e di gesti. Al negozio marocchino compro carne e lenticchie rosse mentre seguo con la voce le litanie coraniche diffuse dalla radio. A casa preparo il caffè con la moka da tre tazzine e lo verso tutto in una tazza grande. Prendo il cornetto al cioccolato e ne mangio metà insieme al caffè, mentre l’altra metà la tengo da parte per il caffè delle undici.

Nel frattempo cerco di scrivere, ma faccio tutto tranne che quello. Faccio qualche piegamento, cerco di tenere il plank per più di due minuti, ma non ci riesco. Se provo a leggere, dopo poche pagine perdo la concentrazione, passo continuamente da Instagram a Telegram a Twitter per seguire le notizie che arrivano dall’Iran. Scrivo qualcosa anch’io; so di essere molto lontano da tutto e di essere rimasto indietro rispetto ai pensieri che circolano per le strade di Teheran e delle altre città, ma scorro i social per capire dove mi trovo in questa storia. Appunto note intitolate “Che fare?”.

Più che un riferimento al libro di Lenin o un appello alle persone in Iran, sono istruzioni che do a me stesso per mantenere la salute mentale. Sono cose molto semplici: ama il tuo vicino, parla con i tuoi amici della situazione in corso. Cerca di essere come un riccio. Impara a fasciare una ferita. Rispetta chi non è d’accordo con te. Solo che appena le scrivo si sciolgono come palle di neve e suonano come melense frasi di un esiliato. Perché sono qui? Me lo chiedo ogni giorno.

Mia moglie è tornata in Iran per vendere alcune cose e portarmi dei soldi, abbastanza per vivere per un tempo indefinito; Giacomo è andato ad Azzate per occuparsi di Agnese che è in convalescenza dopo la chemioterapia. Ha detto che da domani arriverà un suo amico palestinese, e che rimarrà qualche giorno nel suo studio. Non ho nemmeno chiesto come si chiama; so già, senza averlo visto, che non avrò voglia di socializzare. Sono molto più a pezzi di quanto pensavo.

La mia unica consolazione è che domani c’è la prima partita dell’Iran ai Mondiali e finalmente potrò sfogarmi. Potrò urlare, piangere o perfino ridere rumorosamente, dopo giorni in cui sono rimasto chiuso in me stesso. Ho lo stomaco che brucia, nel sonno digrigno i denti così forte che i bordi si sono scheggiati, i nervi della mia mano destra non funzionano bene e non riesco più a piegare il mignolo.

Ma la casa, il regalo di nozze di Agnese, resiste a ogni deterioramento. L’ascensore con le pareti in legno e i robusti pulsanti di plastica sale i tre piani lento ma sicuro e sull’ampio pianerottolo o nei corridoi non incontro mai nessuno. L’unica volta che mi sono trovato faccia a faccia con il vicino, mi sono presentato: gli ho detto come mi chiamo, che sono iraniano e faccio lo scrittore e che mi avrebbe fatto piacere prendere un caffè insieme qualche volta; lui, un uomo più o meno della mia età, ha annuito, mi ha stretto la mano e mi è sembrato contento anche se poi non è mai venuto a bussare per fare due chiacchiere.

Tiro a lucido il bagno di casa fino all’arrivo dell’amico palestinese di Giacomo, sistemo la cucina e so già che nei prossimi giorni, a parte quando trasmetteranno la partita, mi rintanerò in camera e non metterò il naso fuori.

L’Iran prende sei gol dall’Inghilterra; l’amico palestinese di Giacomo esulta per ogni gol che l’Iran subisce, come se li avesse segnati la sua squadra. Potrei tirargli un pugno sul mento, ma mi ritiro in camera, chiudo la porta e posto una storia in cui dico quanto sono a pezzi e quanto il concetto d’identità continua a prendere forma e a disfarsi nella mia testa.

La casa di via Kurtuluş

L’appartamento era al terzo piano, da un lato si affacciava su un cimitero ortodosso e dall’altro su un cimitero cattolico. Salendo le scale, dalle finestrelle sotto il tetto si vedevano le tombe e le croci ortodosse; una luce fioca proveniva dai lampioni e mia sorella ha detto: “Ti ho portato qualche stoviglia, la ragazza ha anche pulito la casa e poi è tornata a Rasht”.

Ho domandato: “La ragazza è di Rasht?”.

Mia sorella ha posato il sacco delle lenzuola davanti alla porta, mi ha abbracciato nel corridoio e mi ha baciato. L’ho baciata anch’io, era da tanto che non la vedevo, il suo profumo, sempre un po’ caldo e materno, mi ha inebriato le narici. Mi ha detto: “Mi sei mancato da morire”. Le ho risposto: “Anche tu”.

Proprio adesso, quando tutti pensavano che sarebbe stata l’ultima volta che la gente avrebbe dovuto scendere in strada, non ero in Iran. Stavo impazzendo

Ho pensato alla disinvoltura con cui esprime i suoi sentimenti e a quanto per me sia diventato difficile. Ho detto: “Entriamo”.

Sembravamo una coppia che si è appena conosciuta e, un po’ esitante, si scambia un bacio nel corridoio di un palazzo senza sapere se vuole andare oltre. Nel corridoio c’erano altre cinque porte ed ero sicuro che qualcuno ci stesse osservando dallo spioncino. Mia sorella ha detto: “Devo andare da Kurosh, domani ha un esame”. Ho detto: “Prima potevamo bere un tè insieme”.

Ero sceso dall’autobus vicino a piazza Taksim, mia sorella mi aveva salutato con la mano e avevo trascinato una valigia di trenta chili su per la salita fino a Kurtuluş; mia sorella mi aveva detto che potevo passare la notte da lei, ma avevo risposto che ormai ero abituato a stare da solo e preferivo dormire a casa mia. Da un mese occupava l’appartamento di un’amica che doveva tornare in Iran per una questione di famiglia e non voleva affittarlo a sconosciuti per quel breve periodo.

Mi sono detto: “Se resta ancora un po’ da sola non succede niente”.

Mia sorella si è seduta sull’unico divano della casa, che era composta da una sola stanza: da un lato c’era un letto matrimoniale, dall’altro un lavello con un piccolo frigorifero e un fornellino elettrico. Di fronte alla porta d’ingresso c’erano il bagno con doccia e wc, e alla parete era fissato un televisore da quaranta pollici. Mia sorella ha commentato: “Però di giorno entra tanta luce”.

Dalla mia faccia aveva capito che le dimensioni dell’appartamento mi avevano sorpreso. O anche solo il fatto che si potesse chiamare casa. Ha detto: “Devo abituarmi a cose come queste, ormai”. Mi ha baciato e ha aggiunto: “Tu non ti adatti mai a qualcosa di brutto, tu le cose le sistemi”.

Ho scaldato l’acqua con il bollitore e versato nelle tazze un po’ di camomilla che avevo portato dall’Italia, ho appoggiato sopra le tazze due piattini capovolti per lasciare a riposo l’infuso. Ho guardato mia sorella: era diventata un po’ robusta, un po’ più piena di quanto la ricordassi e agli angoli degli occhi le erano comparse delle sottili zampe di gallina che non erano da lei. Le ho detto: “Sei stanca, a quest’ora. Bevi la camomilla e vedi che dormi come un sasso”.

“In questi giorni non riesco proprio a dormire. Gli altri pensano che, in questi giorni, per chi sta all’estero sia più facile, ma in realtà si soffre ancora di più”.

“Dovresti fare un salto da papà e mamma, sono preoccupati”.

Si è alzata, si è legata i capelli in alto con un elastico e ha detto: “È ora che quella generazione si preoccupi un po’”.

“Ziya ha detto che l’hanno convocato in tribunale al posto tuo, è vero che ti è arrivata la citazione?”.

Riccardo Gola

Ne era al corrente, e non sarebbe più tornata a Rasht. Ha risposto: “Ormai questa è casa mia”.

Quando se n’è andata, credevo che sarei riuscito a dormire, ma per quanto ci provassi il sonno non arrivava. Ogni volta che spegnevo la luce, sentivo come se qualcosa mi pesasse sul petto. Mi svegliavo, scorrevo le notizie e poi, quando pensavo che finalmente il sonno fosse arrivato e spegnevo di nuovo la luce, quella stessa sensazione di soffocamento tornava.

Mi sono alzato, ho girato per casa e ho aperto le finestre per far entrare un po’ d’aria fresca; ho pulito il bagno e la doccia, ma non è cambiato nulla. Ho spostato il letto e mi sono accorto che dietro c’era della muffa. A Istanbul la muffa in casa è normale, ma tutta quella muffa non si forma in un giorno, né in due mesi, né in tre anni. Era chiaro che nessuno aveva mai spostato il letto. Prima di sapere che c’era la muffa, provavo solo una sensazione di oppressione, ma quando l’ho vista, mi ha preso un senso di disfacimento: ero convinto che, se mi fossi addormentato, la muffa avrebbe cominciato a crescermi addosso e a impossessarsi di me.

Dietro il letto c’erano una mutanda da donna e un paio di boxer da uomo. Nella mia mente avrei potuto inventarmi una rovente storia d’amore, ma probabilmente alla fine avrebbe cambiato tono e si sarebbe trasformata in una storia dell’orrore. Un uomo e una donna che erano stati divorati dalla muffa e di cui alla fine erano rimaste solo le mutande.

Ho fatto una foto al muro per mandarla a mia sorella e lamentarmi, ma poi ho pensato che anche lei, quando era venuta qui, aveva pulito solo ciò che si vedeva, come tutti quelli che avevano abitato quella casa. Ho pensato di uscire, di vagare per le strade fino all’apertura dei primi negozi e comprare i prodotti per lavare e disinfettare. Mi sono vestito e sono uscito. Scendendo le scale, ho notato che uno strato sottile di neve si era posato sulle lapidi del cimitero.

La casa di Upper Lonsdale

La prima volta che ho visto il signor Ehsan gli ho chiesto quanti metri fosse la casa e lui ha risposto: “600 square feet”. Nella mia testa cercavo di convertire le unità, mentre mia moglie ha detto: “In foto sembrava più grande”.

Mia moglie e il signor Ehsan si conoscevano già. Dietro c’era una storia che era anche il motivo per cui avevamo preso questa casa. Il signor Ehsan mi ha dato il suo numero e al posto del cognome ho scritto Landlord. Avevo già imparato che qui nessuno dà il proprio cognome e dunque non mi aspettavo che lo facesse nemmeno il signor Ehsan. Mia moglie, un po’ alla volta, mi stava spiegando queste abitudini di Vancouver. Non le ho chiesto quanti metri quadrati fossero seicento square feet, ho cercato invece di misurare la casa nella mia testa. Più grande della casa di piazza Jomhuri e più piccola di quella di vicolo Shahrivar, quindi tra i cinquanta e i sessanta metri quadrati.

La ristrutturazione, come molti lavoretti della casa, l’aveva fatta il signor Ehsan: pittura, falegnameria, impianto elettrico, installazione dei sensori intelligenti. Lui faceva proprio questo di mestiere: ristrutturare e rivendere case. Ha detto: “Qui avere un lavoro è la cosa più importante. Se vuoi, puoi venire a lavorare con me”.

Ho risposto: “Non è questo il mio destino”.

Ha dato qualche colpo di vanga ai cespugli di lamponi in giardino e ha detto: “E chi mai ha scelto davvero il proprio destino?”.

Ha indicato i messicani che scaricavano le piante dal retro del pick-up per metterle a terra e ha detto: “Secondo te, loro avrebbero mai immaginato di poter arrivare in un posto così?”.

Non c’era sarcasmo nelle sue parole, ma ero in un momento della mia vita in cui tutto mi feriva. Ho commentato: “Se devo fare manovalanza, in Iran ci sono sia le possibilità sia la terra per farlo. Non dicono che questo è il paese delle opportunità?”.

Riccardo Gola

Ha riso, Ehsan era uno di quelli che ridono facilmente, e ha detto: “No, quelli sono gli Stati Uniti. Qui nessuno ti dà un’opportunità. Se cerchi un’opportunità, devi tornare in Iran”.

Ho pensato che volevo tornare. Dovevo tornare. Avevo aspettato tutta la vita questo momento di libertà, l’attesa sensazione di questo momento di libertà, e allora perché sono qui? Sono rientrato in casa, mia moglie era al lavoro. Era un po’ tardi per il pranzo, ma ho pensato che avrei comunque cucinato una pasta con le verdure e che per comprare le verdure dovevo arrivare fino al negozio. Si chiamava Persia.

Nel frattempo, ho compilato uno o due proposte per delle riviste canadesi, ho scritto una mia breve biografia e ho allegato una nota in cui spiegavo il senso del testo che inviavo. Spiegavo cosa pensavo quando l’avevo scritto. Ho pensato che in Iran mai e poi mai avrei accettato di scrivere una spiegazione per un mio testo, ma qui era la prassi e lo facevo. Ho pensato che molte cose che in Iran mi pesavano o che non ero disposto a prendere in considerazione qui le stavo facendo; e che, se le facessi in Iran, la mia vita sarebbe più facile. Ho portato il tè a Ehsan e ai messicani: tè primaverile di Lahijan, comprato al Persia. Ehsan ha preso la tazza, ha addentato una zolletta di zucchero e ha detto: “Questo tè per loro è sprecato, non sanno cos’è. Loro bevono il matcha”.

“Allora non glielo do?”, ho chiesto.

“Daglielo pure, ma non ti aspettare che lo apprezzino. Non gli piacerà”.

Ha pestato la terra sotto le piante di lamponi che avrebbero dovuto dare frutti all’inizio dell’estate e guardando le cime di Grouse Mountain ha aggiunto: “Quest’anno non è stato molto freddo”.

La casa del Distretto Cinque

La casa sembra più una grande pensione, con molte porte che si aprono su un lungo corridoio. In ciascuno dei quattro piani trovi sempre lo stesso corridoio. Nel cortile, al centro, ci sono due grandi alberi di castagno in fiore. Le case del quartiere risalgono all’epoca comunista e questo susseguirsi di porte, gli occhi dietro gli spioncini, sembrano sostituire il controllo onnipresente dello stato. La gente si controlla a vicenda.

Forse un tempo era davvero così, ma adesso la maggior parte delle porte ha una serratura con un codice: gli ospiti di Airbnb trascinano le loro piccole valigie nel corridoio, leggono il codice sul telefono, lo digitano, aprono la porta ed entrano. Anche noi abbiamo fatto così, con due valigie che avevano girato mezzo mondo.

Il nostro appartamento è una grande stanza all’ultimo piano; durante la ristrutturazione hanno aggiunto un soppalco a cui si accede da una scala di ferro molto ripida e che è uno spazio basso in cui è stato messo un letto matrimoniale queen size, non c’è posto per nient’altro. In un angolo della stanza, su un tavolo, ci sono un fornello elettrico, una piastra per panini e un bollitore; in un altro angolo, una doccia a pavimento e un wc. Intorno alla doccia e al wc è stato costruito un muro che si ferma prima di arrivare al soffitto ed è sormontato da un vetro. Dal letto del soppalco, se qualcuno fa la doccia, si vede. Mia moglie dice: “Tanto non dobbiamo restare a lungo”.

E io: “Chissà, per ora chi può dirlo?”.

Apre il rubinetto, riempie un bicchiere d’acqua e lo porta sotto la luce. Dice: “Quando esci compra anche dell’acqua, del pane, del caffè, un barattolo di marmellata e del formaggio, poi capiamo cos’altro ci serve”.

È la lista fissa della spesa ogni volta che ci sistemiamo in una nuova casa. I bisogni standard dei primi giorni. A volte di mia iniziativa compro anche burro d’arachidi e banane, o qualche lattina di birra. Come qualcuno che prepara un kit di emergenza e lo ripone sotto il letto, come chi si aspetta da un momento all’altro un terremoto. Faccio la doccia ed esco. Mentre sto per andare via, mia moglie urla dalla doccia: “Non comprare troppa roba, non si sa quanto restiamo”.

È lei che tiene i conti dei soldi rimasti, lei che trova le case, lei che sa quando dobbiamo andare via. È lei che, se saremo costretti, tornerà in Iran per vendere la macchina e il resto delle nostre cose e portare i soldi qui. Devo aggiungere qualcosa per dimostrare che mi rendo conto della situazione. Dico: “Stasera potremmo andare al ristorante”.

Apre la porta della doccia e mi guarda, nuda; il vapore comincia a invadere la stanza. Non dice niente, mi guarda soltanto. In un altro momento forse sarei entrato nella doccia e avremmo fatto l’amore, ma preciso: “Ho davvero bisogno di qualcosa che mi faccia sperare. Non posso andare avanti così”.

Sa cosa intendo, ma non ha più parole di conforto, in quest’anno le ha esaurite tutte. Chiudo la porta e, mentre attraverso il corridoio, due tortore si alzano in volo dai rami di un albero. Due tortore che probabilmente sono una coppia. Nel corridoio del piano inferiore una ragazzina sta riparando la sua bicicletta. Le sorrido, ma lei non ricambia. Forse, se mi avesse sorriso, mi sarei seduto accanto a lei e le avrei cambiato i pattini dei freni. Si vedeva che non sapeva bene come fare.

In strada c’è il freddo dell’inizio della primavera; i miei vestiti non sono abbastanza pesanti, ma non ho voglia di tornare indietro a metterne di più caldi. Entro nell’androne di un hotel per riscaldarmi un po’. Le case di questa zona, molto vicina al ghetto di Budapest, sembrano costruite tutte dalla stessa mano e sullo stesso progetto. Tutto il quartiere e i suoi vicoli si somigliano.

Una o due delle case accanto sono state ristrutturate, come quell’hotel in cui sono entrato: hanno coperto il cortile con una tettoia di vetro, dalle travi pendono lampadari e nei grandi vasi di cemento hanno piantato banani e palme. In alcuni punti hanno raschiato le pareti per far riaffiorare i mattoni pressati e i materiali originali. È un’architettura modernista che vuole mostrare i segni dell’antica vita tradizionale, ma nonostante questi interventi nello spazio aleggia ancora lo spirito comunista. Ci sono occhi che ti osservano e ogni momento ti sembra che una porta possa aprirsi e un gruppo di soldati irrompa per arrestarti.

Compro il pane. Penso di essere ormai diventato un esperto, ma il giorno dopo lo butteremo tutto perché è ammuffito. Cammino lungo il fiume; voglio tornare a casa il più tardi possibile. È una di quelle case dove vuoi rientrare il più tardi possibile.

Accanto al Danubio sono allineate diverse paia di scarpe di bronzo. Cerco su internet e scopro che sono le scarpe degli ebrei che durante la seconda guerra mondiale erano stati gettati nel fiume. Mi siedo e scoppio a piangere. Ho tanti pensieri in testa, ma il più chiaro è: questo viaggio è il Danubio e io ci sono caduto dentro. In momenti così si tende a paragonare il destino di tutti al proprio. Non voglio avere un destino del genere, ma mentre torno a casa penso che, in fondo, la mia situazione non è così terribile. Almeno sono vivo e il mio Danubio non è poi così mortale: mi ha solo fatto diventare un profugo. Sono come un prigioniero che ha scelto da solo la sua prigione. Penso che dirò a mia moglie quella frase e che sono pronto a tornare in Iran. Nel corridoio del terzo piano mi fermo un istante a cercare la ragazza e la sua bicicletta, ma non ci sono. A casa dico a mia moglie: “Forse dovrei fare un altro lavoro. Forse dovrei riparare biciclette. Mi piacerebbe”.

Lei mi abbraccia, mi accarezza e risponde: “Se ti va di piangere, piangi pure”.

“Ho già pianto, lungo il Danubio. Non mi vengono più le lacrime”.

Mia moglie si scosta un po’, sorpresa: “Hai pianto da solo?”.

Si aspetta che condivida con lei quei momenti di emotività. Ha ragione, per tutto quest’anno ha vissuto con me, in piccole case provvisorie, senza mai uno spazio tutto suo: merita almeno che io pianga accanto a lei. Dico: “Forse dovremmo tornare”.

E lei: “Ho già pagato l’affitto fino alla fine del mese. Per un mese il prezzo era più basso. Fino ad allora ci puoi pensare”. ◆ gl

Mohammad Tolouei è uno scrittore iraniano nato a Rasht nel 1979. Il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia è Enciclopedia dei sogni (Bompiani 2025). Questo racconto è uscito in Iran sul trimestrale Angah con il titolo Khaneha-ye kharej.

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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati