La sera del 28 novembre migliaia di georgiani hanno invaso le strade della capitale Tbilisi, a un anno esatto dalla svolta antieuropea del governo e dall’inizio delle proteste quotidiane che continuano a scuotere il paese. Nel 366esimo giorno consecutivo di mobilitazione, i manifestanti sono confluiti da diverse strade della città per unirsi in un grande corteo diretto verso il parlamento, dove in questi dodici mesi si sono concentrate le proteste contro il governo. “Fino alla fine!” era lo slogan più scandito. “Il nostro paese non merita tutto questo. Il posto della Georgia è in Europa”, ci ha detto Sopo Alavidze, un’operatrice sanitaria di 39 anni.
Alavidze era tra le migliaia di persone scese spontaneamente in piazza il 28 novembre 2024, dopo che il primo ministro Irakli Kobakhidze aveva annunciato in diretta televisiva la sospensione della richiesta della Georgia di entrare nell’Unione europea almeno “fino alla fine del 2028”. Per molti georgiani quell’annuncio era la conferma definitiva che il partito di governo Sogno georgiano – che già in precedenza aveva inasprito la sua retorica nei confronti dei partner occidentali e intensificato la pressione sugli oppositori interni – aveva deciso di abbandonare il percorso già avviato verso l’ingresso nell’Unione.
Il movimento ha coinvolto persone e gruppi molto eterogenei
Il percorso interrotto
Le proteste di Tbilisi sono state accompagnate da altre manifestazioni nel resto del paese, con meno persone ma comunque significative. Anche se nel corso dei mesi la partecipazione è diminuita, la mobilitazione ha assunto un carattere estremamente ostinato, e i manifestanti si sono dimostrati determinati a tenere alta la pressione sul governo.
“Non riesco a immaginare un futuro in cui i miei figli debbano vivere nella stessa Georgia di oggi, costretti a subire quello che abbiamo subìto noi”, sottolinea Alavidze, che non può partecipare ogni giorno alle proteste di Tbilisi, ma cerca comunque di essere presente più volte al mese. “Lo slogan ‘fino alla fine!’ significa che ci mobiliteremo fino al cambio del governo”.
Nell’ultimo anno Sogno georgiano ha ripetutamente cercato di reprimere le proteste, prima attraverso la violenza della polizia e decine di arresti e poi affidandosi a una serie di leggi restrittive, multe pesanti e detenzioni amministrative.
I manifestanti rappresentano solo uno dei tanti bersagli del governo, che ha preso di mira anche la società civile, i mezzi d’informazione indipendenti e l’opposizione, imprimendo una netta accelerazione a quella che secondo molti osservatori è una chiara svolta autoritaria. “Poco a poco è diventato chiaro che i motivi per essere arrabbiati erano molti di più di quanto pensassimo all’inizio”, spiega l’attivista Tatia Dvali, del Movimento per la democrazia sociale, una formazione di sinistra nata durante le proteste.
Nei primi mesi della mobilitazione alcuni esponenti del movimento organizzavano manifestazioni davanti alla sede dell’emittente pubblica georgiana, la Gpb, chiedendo di dare voce anche alle ragioni dei manifestanti. Quelle mobilitazioni sono poi sfociate nei cortei organizzati quotidianamente, fino a poco tempo fa, dalla sede della Gpb fino al parlamento. “Nella difficile situazione che dobbiamo affrontare oggi vediamo il riflesso del modello che Sogno georgiano vuole imporre al paese in futuro”, dice Dvali. “Per esempio, rischiamo di perdere la possibilità di avere una reale istruzione pubblica. E sono a rischio anche i mezzi d’informazione che ancora raccontano la verità. Potrebbero essere cancellate le tutele sul lavoro, e tutte le aree verdi pubbliche rischiano di essere privatizzate”.
Fin dall’inizio il movimento di protesta è stato eterogeneo e capace di coinvolgere persone e gruppi molto diversi sul piano politico, sociale e ideologico.
Secondo Dvali il processo di avvicinamento all’Unione europea “è legato al fatto che in questo paese non sono soddisfatti nemmeno i bisogni sociali minimi. Anche se personalmente ho una visione molto critica dell’Unione, è chiaro che i georgiani vogliono farne parte perché credono che solo in questo modo le loro necessità più basilari potranno essere garantite”.
Nella prima fase delle proteste migliaia di persone partecipavano ogni giorno alle manifestazioni. Nonostante le pressioni del governo, la stanchezza e il disincanto abbiano fatto diminuire le presenze, ancora adesso gruppi di manifestanti si riuniscono quotidianamente fuori del parlamento, sul viale Rustaveli, tenendo in piedi il movimento di protesta più duraturo dai tempi dell’indipendenza della Georgia dall’Unione Sovietica.
La forza di andare avanti
Il graphic designer e illustratore Dato Simonia è tra quelli che continuano a mobilitarsi. Per reagire ai tentativi del governo di screditare i manifestanti definendoli “radicali” e “agitatori prezzolati”, tiene una sorta di rubrica sui social network intitolata “Chi protesta su viale Rustaveli”, disegnando ritratti dei manifestanti e condividendone le storie con il pubblico. “Quando penso agli eventi dell’ultimo anno, la prima parola che mi viene in mente è ‘sopravvivenza’. Non solo fisica, ma anche morale ed etica”, dice.
Simonia non è nuovo alle proteste. Prima del 2024 si era schierato con la gente del comune di Martvili, nell’ovest del paese, che si batteva contro le privatizzazioni e contro un progetto di sviluppo immobiliare nella gola di Balda, un’area naturale incontaminata. Le due mobilitazioni hanno diversi punti in comune, spiega: “Le persone lottano per uno scopo e il potere reagisce attaccandole. Penso che a Tbilisi sia in gioco non solo il futuro del paese, ma anche quello di ogni vallata, di ogni foresta. Se crolla la spina dorsale morale della società, la repressione travolgerà tutto, e in provincia sarà ancora più implacabile”. Oggi molti dei manifestanti della prima ora sono costretti a seguire il movimento dal carcere. Nella fase iniziale della protesta gli scontri con la polizia hanno portato all’arresto di decine di persone, spesso con accuse molto serie. Le condanne sono state altrettanto severe. Secondo gli oppositori, i processi erano politicamente motivati e molte condanne non erano sostenute da prove sufficienti.
Tra le persone finite dietro le sbarre c’è lo studente e attivista ventenne Zviad Tsetskhladze, arrestato nel dicembre 2024 e condannato a due anni e mezzo di prigione per aver “organizzato azioni di gruppo in violazione dell’ordine pubblico”. “La determinazione dei nostri figli in carcere ci dà la forza di continuare a lottare”, ha detto il padre di Tsetskhladze, Zurab, presente in piazza il 28 novembre.
Insieme alla moglie Nargiz Davitadze continua a partecipare alle proteste, spesso indossando una maglia con la foto del figlio. Zurab vede da un lato “la giustizia, il popolo e il futuro europeo del paese”, mentre dall’altro c’è il “regime russo”, che secondo i manifestanti sta manovrando il governo di Sogno georgiano per riportare il paese nell’orbita di Mosca.
Anche Zurab è stato in carcere per una settimana, con l’accusa di aver bloccato una strada durante le proteste. Oggi è convinto che la grande partecipazione alla manifestazione del 28 novembre dimostri che “il movimento non è morto. Abbiamo completato un ciclo. Abbiamo combattuto, abbiamo affrontato le difficoltà, siamo andati in prigione, siamo stati travolti dai problemi. Ma abbiamo resistito”, dice.
Alle prese con una repressione sempre più forte – tra arresti e nuove leggi draconiane – la protesta ha dovuto ripetutamente adeguare i suoi metodi alle circostanze esterne. Tutto questo ha alimentato il dibattito sul futuro del movimento, sulle prospettive di cambiamento e sull’efficacia delle sue strategie attuali.
Intanto la mobilitazione è entrata da un paio di settimane nel suo secondo anno di vita. “Capisco chi si sente frustrato”, riassume Dvali. “Ma se concordiamo sul fatto che il potere di Sogno georgiano è senza freni, come le ingiustizie che commette, allora dobbiamo ammettere che non possiamo pensare di cambiare le cose in un solo giorno”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1644 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati