Recentemente ho cantato nella Passione secondo Matteo di Bach, una delle composizioni più belle del repertorio della musica classica antica. Non sono cristiana (non mi ci avvicino neanche), ma il racconto della passione di Bach è divino nella sua umanità. Mettete da parte Dio, e la crocifissione diventa una storia di colpa e sentimenti tutti umani: la nostra attitudine al pregiudizio, alla mentalità del branco, all’apatia e all’impotenza acquisita, la paura di chi si accorge che nessuno sta venendo a salvarlo, il lutto di chi lo ha amato e viene abbandonato. È un’opera straziante, bellissima e teatrale, quasi blasfema.
E compreso l’intervallo dura tre ore.
Ho dato un biglietto omaggio a un’amica e l’ho avvertita della durata; le ho detto di venire preparata e di assicurarsi di sgranchirsi le gambe durante l’intervallo.
Sono abituata a dire questo tipo di scuse preventive quando invito le persone ai miei spettacoli. “È abbastanza lungo ma…”, “È un po’ strano ma…”, “È un pochino lento ma…”.
Preparo sempre le persone perché mi aspetto che troveranno noiosa la cosa che più amo al mondo. Poco importa che vengano ai miei spettacoli fin dal mio primo saggio all’università o che continuino a venirci di loro spontanea volontà e con entusiasmo anni dopo che ho finito gli studi. Poco importa che mi dicano sempre di avere apprezzato la musica e l’opportunità di rallentare un po’.
Poco importa che capiti anche a me di distrarmi agli spettacoli. Continuo ad andarci comunque.
Poco importa che, quando ce lo chiedono, siamo tutti d’accordo che un po’ di noia fa bene all’anima.
Rispetto alla musica leggera, le melodie hanno il lusso del tempo in un formato che presuppone molta attenzione. La musica classica non è stata scritta come sottofondo
Un concerto di musica classica è un’esperienza molto diversa rispetto a un’esibizione di musica leggera.
Tanto per cominciare, non è amplificata. Nella sua essenza, la musica classica si basa sui princìpi della performance acustica. Certo, occasionalmente c’è un elemento elettronico e dalla metà degli anni novanta ogni tanto i teatri hanno cominciato a usare i microfoni per amplificare i cantanti d’opera (a scapito sia dei cantanti sia del pubblico, ma questa è un’altra storia), ma resta puramente acustica.
Anche se c’è un pochino di amplificazione, è un’esperienza sonora molto diversa dalle performance di musica leggera, anche le più eteree. Magari, in un concerto folk, il cantante canta e suona la chitarra a basso volume, ma ha un microfono vicino alla chitarra e alla bocca, ed è questo a far arrivare il suono tranquillo direttamente al pubblico attraverso gli altoparlanti. Nella musica classica, il suono sommesso prodotto dai violini o dal piano viaggia nell’aria e arriva senza supporti all’ascoltatore. I momenti più tenui hanno una sorta di squillante integrità, eppure bisogna comunque tendere bene l’orecchio per sentire.
Con poche eccezioni, è musica che non vi fracassa i timpani con le chitarre di un concerto rock né con i bassi che vi rimbombano nello sterno durante un rave. Non lo fa neanche se andate a sentire musica classica superlativamente rumorosa come la seconda sinfonia di Mahler, detta Resurrezione, Il castello di Barbablù di Bartók, il Poème de l’extase di Skrjabin, il Requiem di Verdi o magari l’Ouverture 1812 di Čajkovskij, che nel finale ha dei veri cannoni.
Ho cantato nella sinfonia Resurrezione un anno fa e, anche se ci hanno dato dei tappi per le orecchie per proteggerci dal volume nei passaggi più rumorosi, l’entrata dei cantanti è anche uno dei momenti più silenziosi del repertorio classico: è richiesto un incredibile sforzo d’intonazione e di controllo, e passano diverse battute prima che il pubblico si accorga di ascoltare delle voci umane, non solo l’eco dell’ora di straordinaria intensità che ci ha preceduto.
Queste però sono le opere più opulente e dense. La maggior parte non impone al pubblico un volume del genere. Le orecchie sono consapevoli di dover colmare la distanza tra il corpo e i musicisti per andare incontro al suono. Lo spazio intensifica la sensibilità dell’ascolto.
La musica classica richiede anche più tempo per sviluppare un’idea. Molte delle strutture che ascoltiamo nella musica pop hanno delle analogie nella musica classica – l’introduzione di una melodia, l’aggiunta dell’armonia e degli abbellimenti, il passaggio a un’altra chiave, il ritorno all’idea principale – ma qui queste idee sono portate avanti per chilometri mentre la musica leggera lavora su una scala più ridotta. Una canzone lunga può arrivare a cinque minuti, una breve opera di musica classica non dura quasi mai meno di un quarto d’ora.
Questo richiede anche uno sforzo da parte del pubblico. Un cambiamento di tonalità può essere accennato da uno strumento un bel po’ prima che lo esegua il resto dell’orchestra o dell’ensemble. Rispetto alla musica leggera le melodie sono più frammentate, riarrangiate e riassemblate perché hanno il lusso del tempo e dello spazio in un formato che presuppone molta attenzione. La musica classica non è stata scritta per essere usata come sottofondo.
Una delle gioie più grandi di ascoltare la nona sinfonia di Beethoven è sentire nel primo, secondo, terzo e quarto movimento i primi barlumi delle idee musicali che, una volta ricondotte tutte sotto lo stesso tetto, diventano il famoso finale corale. Dall’ascoltatore ci si aspetta l’attenzione necessaria per seguire questa costruzione graduale. Così può condividerne l’apice.
La musica classica è anche meno densa dal punto di vista sonoro, anche se spesso è più complessa armonicamente. Il momento più bello della Passione secondo Matteo è l’assolo di violino alternato all’aria del contralto solista Erbarme dich, mein Gott, in cui il violino sofferente riempie la volta della sala da concerto o della cattedrale accompagnato solo dal pizzicare delicato delle corde del violoncello e del contrabbasso. C’è una tale tensione, una tale audacia nella scelta del violino e nella relativa melodia, da straziare l’orecchio con il dolore e l’angoscia dell’argomento trattato. Mentre si ascolta si ha un’acuta consapevolezza non solo della melodia, ma anche dello spazio che cerca di riempire senza riuscirci. È la percezione della distanza sonora tra i registri alti del violino e i registri del basso continuo, di quella tra soffitto e pavimento, di come anche il violino più risonante e penetrante sia incapace di raggiungere ogni angolo della sala con il suono.
In questi spazi – nei vuoti di densità sonora, nei meandri dello sviluppo armonico, nella risacca di una musica che deve arrivare ottanta file dietro di voi invece di colpirvi come l’oceano dagli altoparlanti – la mente ha il tempo di vagare.
È maleducazione usare il telefono a un concerto di musica classica. È assolutamente vietato filmarlo, mentre filmare un concerto pop non è solo accettato, ma dato per scontato. Con ogni probabilità sarete seduti in un posto d’infinita comodità, e se volete alzarvi a metà concerto dovete scavalcare tra le dieci e le cinquanta persone in un ambiente progettato perché tutti sentano ogni minimo suono: non ci sono altoparlanti a coprire i vostri “mi scusi, devo passare, un attimo”. Dovete restare seduti e relativamente fermi per venti, trenta o quaranta minuti, e anche se non siete costretti ad ascoltare per tutto il tempo dovete comunque riuscire a godervi il silenzio nella vostra testa a meno che non vogliate attivamente infrangere il protocollo.
Gli amici che sono venuti ai miei concerti l’hanno sempre descritta come una cosa positiva.
“Mi sono un po’ distratta, ma è stato bello lasciare andare i pensieri”.
“Non ho tante occasioni di starmene seduta ed essere me stessa e basta. È molto meditativo”.
“A dire il vero, ho cominciato a distrarmi, ma poi a un certo punto ho riconosciuto la melodia di un film e non sono più riuscita a smettere di ascoltarla. Mi sono sorpresa di quanto sia finito in fretta”.
Quando vado a un concerto non come musicista ma come spettatrice spengo il telefono. A volte tendo l’orecchio, con gli occhi chiusi, mimando il direttore d’orchestra, con il cervello che prende fuoco mentre mi sforzo d’internalizzare e capire la musica. Altre volte mi rilasso. Mi distraggo. Vado alla deriva, senza proprio addormentarmi o sonnecchiare, ma scivolando via da me stessa, tenuta a galla da una musica che magari non sto ascoltando attivamente, in un mondo di sogni a occhi aperti, di riflessione o di catarsi.
Sono ormai pochi, nella società digitale, i luoghi dove questo è possibile, a meno di non sborsare qualche migliaio di dollari per un ritiro di meditazione o di rinunciare a mettere alla prova la forza di volontà chiudendo il telefono in una gabbia di Faraday. Controlliamo la posta elettronica mentre siamo in fila per il caffè, ascoltiamo le notizie mentre guidiamo per andare al lavoro, scrolliamo automaticamente i social media durante le pause delle riunioni o tra un cliente e l’altro. La nostra attenzione rimbalza come una pallina da flipper in una sala giochi, con tanto di luci lampeggianti e distrazioni prefabbricate.
In una sala da concerto, per un accordo reciproco, torniamo all’analogico per un paio d’ore.
Quando ero molto attiva su TikTok, ai commentatori che mi chiedevano com’è andare a vedere una sinfonia o un’opera per la prima volta dicevo sempre che, alla fine, va bene se si annoiano. Va bene se si estraniano. Va bene se smaniano e non sono sicuri se gli piace o no. Di solito lo faccio per dare a chi viene per la prima volta e si sente nervoso il permesso di trattare la musica classica come un gusto acquisito, e sgomberare il campo dall’idea che non sia “roba per loro” se non riescono a capirla o ad apprezzarla al primo tentativo.
Ma in realtà lo penso davvero, perché nel nostro mondo nuovo huxleyano è un lusso anche annoiarsi. La quiete è un dono. Nella noia succedono cose bellissime. Nello spazio vuoto ci liberiamo e ci rigeneriamo.
Seduta in silenzio in fondo a un teatro in un’appiccicosa estate romana, ascoltando l’adagio per archi di Samuel Barber finalmente sono riuscita a piangere per la malattia terminale di uno dei miei genitori. Seduta sull’attenti durante i primi quattro movimenti della sinfonia Resurrezione con lo spartito in grembo, ho finalmente accettato di abbandonare l’idea che avevo della mia carriera musicale e di abbracciarne un’altra, molto più felice. In tante altre occasioni, altri dolori e altre ansie quotidiane mi hanno parlato ad alta voce nei primi dieci minuti di noia prima di assestarsi nell’ora restante in qualcosa di più calmo, più regolato, più presente, una calma che dura anche dopo essere uscita dalla sala, dal teatro o dalla chiesa.
I miei amici mi hanno raccontato decine di versioni della stessa storia. Mi dicono quanto è tonificante avere la possibilità di concentrarsi, di meditare, di essere, senza distrazioni, notifiche e altre chiamate e richieste di attenzione.
“È un tale sollievo avere la possibilità di non guardare il telefono”, mi ha detto un’amica che lavora nel settore legale. “È l’unico momento in cui posso permettermi di essere offline”.
Un’altra amica ha detto che per lei è stata come una piccola disintossicazione digitale, e che non le è venuta voglia di controllare l’email mentre tornava a casa in metropolitana. È rimasta seduta in silenzio fino alla sua fermata, sentendosi centrata e calma.
“Onestamente non mi ricordo l’ultima volta che ho dovuto rimanere seduta e annoiarmi un po’”, mi ha detto un’altra, “ma superato il primo disagio ho cominciato a stare veramente bene”.
Ovviamente questo non significa che la musica classica sia veramente noiosa. Più che altro ci chiede uno stato d’animo a cui non siamo più abituati nell’atomizzazione della modernità.
Nella frustrazione delle prove, spesso ricordo a me stessa (e ogni tanto ai colleghi) che una volta che il suono ci lascia la musica non ci appartiene più. Non sta a noi stabilire come reagirà ciascuna delle persone sedute in sala di fronte a noi. Se la cantante vicino a me alza gli occhi al cielo per un’entrata in ritardo e telegrafa quell’errore al pubblico, stiamo comunicandogli: non deve piacervi, c’è stato un errore, non è perfetto, se vi piace siete degli incompetenti e non avete buon gusto. Se non cantiamo un pezzetto insipido del libretto con sufficiente convinzione, chiediamo al pubblico di farsi carico della nostra insicurezza e del nostro imbarazzo.
E allora perché avvertire i miei amici che il concerto è lungo, che magari è lento, che potrebbero passare dei momenti di noia?
Al pubblico, sia quello casuale sia quello impegnato, non interessano il nostro ego né la nostra insicurezza per un momento d’imprecisione musicale o per un verso scritto male o per la lunghezza del concerto.
Il pubblico vuole avere la possibilità di lasciarsi alle spalle il mondo connesso almeno per un po’, di essere presente nel pieno di una nuova esperienza, di sentire per intero un pezzo di cui magari ha avuto solo un assaggio al cinema, di tenere la mano di chi gli sta a fianco, di chiedersi che diavolo sta facendo il direttore d’orchestra quando agita la bacchetta, di contare quante persone nella fila davanti sono vestite di blu, di provare a decidere se gli piacciono veramente i candelieri moderni appesi al soffitto, di farsi trascinare dalla musica finché il chiacchiericcio ansioso nel cervello si dissolve nelle acque acustiche, o di riuscire finalmente a provare le emozioni che ribollono in una stanza nascosta di cui ha perso la chiave nella fretta quotidiana.
E sì, forse alcuni smanieranno, alcuni si annoieranno, alcuni si accorgeranno che i bassi sono entrati in ritardo o che il soprano solista continuava a grattarsi il gomito sinistro e che i flauti erano crescenti e che uno dei clarinetti, degli oboi o delle trombe ha preso una stecca. Magari decideranno che non fa per loro e non torneranno più.
Ma questo non sta a me deciderlo, giusto? ◆ fas
Mary Rice è un mezzosoprano statunitense. Questo articolo è uscito online su Substack con il titolo “It’s good you’re bored at the symphony, actually”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati