Quando un paguro ha la possibilità di scegliere tra due conchiglie, sa quale sarà una casa migliore. A meno che la sua mente non sia annebbiata per aver ingerito microplastiche. In quel caso l’animale ha difficoltà a prendere una decisione che potrebbe rivelarsi cruciale per la sua sopravvivenza. Il paguro non è solo: a quanto pare, in tutto il regno animale i piccoli frammenti di plastica stanno cambiando i comportamenti e creando problemi cognitivi. L’esposizione a queste sostanze rende i topi meno attenti e sociali. Le api hanno difficoltà a imparare e i pesci zebra si comportano in modo più ansioso.
Queste scoperte sono un campanello d’allarme anche per gli esseri umani. I frammenti di microplastica sono ovunque, dalla neve dell’Artico alla foresta amazzonica. Quel che è peggio, si trovano nei nostri alimenti, come birra, sale, pesce e miele. “Ogni volta che ruotiamo il tappo di una bottiglia di plastica, riversiamo piccoli frammenti nell’acqua”, dice Tamara Galloway, ecotossicologa dell’università di Exeter, nel Regno Unito, che studia gli effetti ambientali e sanitari di inquinanti come le microplastiche.
In media ogni individuo ingerisce 52mila particelle di microplastica all’anno, che diventano 121mila se consideriamo anche quelle inalate. Studi recenti indicano che alcune particelle possono superare le barriere che dovrebbero impedire alle tossine di passare dai vasi sanguigni alle cellule cerebrali. Al momento non è chiaro se e come queste sostanze danneggino le nostre capacità cognitive, perché non è possibile sottoporre gli esseri umani agli stessi esperimenti condotti su altri animali, come i topi. Ma Galloway crede che gli effetti potrebbero essere gravi.
Gli studi sugli animali ci permettono di capire come le microplastiche influiscano sull’attività cerebrale e comportamentale di altre specie. Inoltre possediamo sempre più dati sulla quantità di microplastiche presenti nel cervello umano, e alcuni studi evidenziano un legame tra livelli elevati e un rischio maggiore di disturbi neurologici come la demenza. Quindi quanto dovremmo preoccuparci?
L’origine del problema risale al 1907, quando un chimico belga di nome Leo Baekeland inventò la prima plastica sintetica usando fenolo e formaldeide, chiamandola bachelite. Presto avviò la produzione commerciale nel suo laboratorio di New York, all’inizio per isolare i cavi elettrici. Da allora la plastica ha invaso il pianeta.
Alla fine degli anni cinquanta l’umanità produceva circa un milione di tonnellate di plastiche all’anno. Oggi ne produce 400 volte di più. Tra la metà del novecento e il 2017 abbiamo creato 9,2 miliardi di tonnellate di plastica. Nella sua moltitudine di forme, questo materiale si trova ovunque, dai vestiti ai pannolini fino alle bustine di tè e al dentifricio. Il riciclo contribuisce a ridurre la quantità di rifiuti, ma attualmente riusciamo a recuperare solo il 9 per cento della plastica prodotta. La maggior parte continua a finire nelle discariche o nell’ambiente, contaminando i fiumi, gli oceani, i campi e le foreste.
Attaccata dalla luce solare, dall’acqua e dal vento, la plastica si disintegra in pezzi sempre più piccoli. I frammenti di dimensioni inferiori a cinque millimetri di diametro sono chiamati microplastiche, mentre quelli più piccoli di 0,001 millimetri sono detti nanoplastiche. Più i frammenti sono piccoli, più è facile che siano ingeriti dagli organismi acquatici, assorbiti dalle piante attraverso le radici o inalati dagli insetti. “Possono diventare parte della catena alimentare”, spiega Galloway. Oggi sappiamo che alcuni di essi finiscono nel cervello degli animali, e stando ad alcuni studi recenti, questo è un problema.
Coraggio di polistirolo
Prendiamo il paguro. Quando Andrew Crump del Royal veterinary college di Londra ha deciso di studiare come le microplastiche influiscono sul comportamento di questi animali, non si aspettava di fare scoperte sorprendenti. Era stato uno studente a convincerlo a fare l’esperimento, che consisteva nel tenere decine di paguri in diverse vasche con acqua pulita o contaminata da piccoli pezzi di polietilene, un materiale molto usato per le buste della spesa e per gli imballaggi. Dopo cinque giorni, a ogni crostaceo veniva data la possibilità di scegliere tra due conchiglie (il paguro usa i gusci vuoti di altre specie per proteggersi, sostituendoli con altri più grandi man mano che cresce). In questi casi, una delle conchiglie era più piccola di quella occupata dal paguro (quindi meno adatta), mentre l’altra era più grande (e quindi migliore). “I risultati sono stati impressionanti”, racconta Crump. Gli animali tenuti nell’acqua pulita tendevano a prendere la decisione giusta, scegliendo la conchiglia più grande. Quelli esposti alle microplastiche, invece, apparivano confusi e spesso sceglievano l’opzione peggiore.
Lo studio di Crump è stato uno dei primi a suggerire che le microplastiche possono penetrare nel cervello degli animali e influenzare il loro comportamento. Poi è stato seguito da altre ricerche, molte delle quali sui roditori. Oggi sappiamo che ingerire microplastiche compromette la capacità dei topi di orientarsi nei labirinti, e ci sono altre prove che danneggia l’apprendimento e la memoria. Se si mostra a un topo un pezzo di legno, 24 ore dopo tenderà a ricordarsi di averlo già visto. Ma se il topo è esposto alle microplastiche, basta un giorno per fargli dimenticare di aver visto il pezzo di legno: lo annusa per la stessa quantità di tempo che riserva a un oggetto sconosciuto.
Inoltre i topi esposti alle microplastiche si comportano in modo più incauto di fronte ai predatori. Alcuni esemplari sono stati messi in una grande scatola insieme a un serpente del grano, un loro nemico naturale (che era stato nutrito in abbondanza per assicurarsi che non li attaccasse). Vedendo il rettile, i roditori hanno reagito come fanno di solito: si sono raggruppati e si sono ritirati in un angolo . Ma quando i ricercatori hanno ripetuto l’esperimento con dei topi che avevano ingerito frammenti di polistirolo, questi sembravano non provare paura: invece di raggrupparsi, continuavano a esplorare la scatola e si avvicinavano addirittura al serpente. In natura, un comportamento simile sarebbe stato disastroso.
Studi recenti su altri animali stanno producendo risultati simili. Uno ha rilevato che dopo aver ingerito piccoli frammenti di polietilene, una specie di ciclide (Amatitlania nigrofasciata) aveva difficoltà a nuotare attraverso un labirinto molto semplice, nonostante i pesci fossero attirati dall’odore del mangime. Un altro studio ha dimostrato che i gamberi d’acqua dolce diventano iperattivi quando sono contaminati, mentre un terzo ha suggerito che le microplastiche danneggiano la memoria delle api mellifere. David Baracchi, dell’università di Firenze, ha fatto questa scoperta addestrando le api a rispondere a determinati stimoli olfattivi. Gli insetti sono stati intrappolati in un tubo in cui potevano percepire un odore, poi i ricercatori hanno toccato le loro antenne con dello zucchero, spingendole ad associare l’aroma alla ricompensa. “Dopo alcuni tentativi, hanno cominciato a rispondere all’odore”, sottolinea Baracchi. Ma gli insetti nutriti per giorni con una soluzione di saccarosio contaminata con microplastiche avevano problemi a imparare, e dimenticavano rapidamente ciò che avevano appreso, il che potrebbe creare gravi problemi in natura. “Le api hanno bisogno di riconoscere e ricordare quale tipo di fiore produce più nettare e di saper tornare a casa”, spiega Baracchi.
La convinzione che questi cambiamenti comportamentali siano provocati dal consumo di microplastiche risulta rafforzata osservando direttamente il cervello degli animali. Dopo aver nutrito le api mellifere con microplastiche fluorescenti, Baracchi e i suoi colleghi hanno notato la presenza di piccoli frammenti nel cervello degli insetti. Non è strano, dato che le api, come altri invertebrati, sono prive della barriera emato-encefalica, che impedisce alle tossine e ai patogeni di raggiungere il cervello. Più sorprendente è la scoperta della presenza di microplastiche nel cervello dei pesci. Inoltre è stato dimostrato che queste sostanze appaiono nel cervello dei topi appena due ore e venti minuti dopo l’ingestione.
Oltre la barriera
E i possibili effetti sugli esseri umani? Studi recenti dimostrano che il nostro cervello non è immune all’invasione della plastica. In uno studio pubblicato a febbraio, dei frammenti di tessuto prelevati dai cervelli di decine di cadaveri sono stati immersi nell’idrossido di potassio per renderli trasparenti. Esaminandoli al microscopio i ricercatori hanno scoperto che contenevano piccoli pezzi di plastica, soprattutto minuscoli frammenti di polietilene simili a schegge. “Una delle più importanti scoperte del nostro studio è l’elevata proporzione di nanoplastiche”, spiega il coordinatore Matthew Campen, dell’università del New Mexico. Inoltre il cervello delle persone morte nel 2024 conteneva circa il 50 per cento di plastica in più rispetto a quello dei soggetti deceduti nel 2016. Nel primo gruppo la quantità media era di circa sette grammi, equivalente a qualche tappo di bottiglia. “È preoccupante”, commenta la neuroscienziata Jamie Ross, dell’università del Rhode Island. “Significa che l’esposizione sta aumentando”.
A quanto pare la barriera ematoencefalica non è un grosso ostacolo per le microplastiche. Ci sono prove che i frammenti la rendono più permeabile, almeno nei topi. “Si pensava che la barriera ematoencefalica potesse fermare qualsiasi cosa, ma più cerchiamo e più microplastiche troviamo nel tessuto cerebrale”, spiega Galloway.
Che succede se la barriera è danneggiata? Quando le microplastiche penetrano nel cervello, incontrano la microglia, le cellule immunitarie cerebrali che assorbono e distruggono gli intrusi. A questo punto le cose vanno di male in peggio. Uno studio recente ha rilevato che consumando le microplastiche le cellule di microglia tendono a gonfiarsi e possono ostruire il flusso del sangue nel cervello umano, potenzialmente provocando disturbi neurologici.
Dopo aver assorbito le microplastiche, inoltre, la microglia innesca un’infiammazione nei neuroni vicini, danneggiandoli. Diversi studi sugli animali hanno individuato una correlazione tra questa infiammazione e una serie di disturbi comportamentali. Nei pesci zebra, per esempio, compromette la capacità di nuotare e provoca tendenze depressive. Inoltre le ricerche sui topi appena nati hanno rilevato che le microplastiche alterano il modo in cui la microglia regola le connessioni tra neuroni, un processo che solitamente contribuisce a modellare il cervello in via di sviluppo rendendolo più efficiente. Una volta cresciuti, i topi hanno avuto difficoltà nelle interazioni sociali.
Gli studi sugli animali indicano anche che le microplastiche nel cervello possono ridurre i livelli di neurotrasmettitori come l’acetilcolina, importante per la memoria e l’apprendimento, e l’ossitocina, spesso chiamata “ormone dell’amore”. In uno studio sui topi, dopo un’ingestione prolungata di microplastiche gli animali presentavano un livello ridotto di ossitocina nel cervello e apparivano meno sociali.
Inoltre sembra che le microplastiche non debbano nemmeno penetrare nel cervello per interferire con le capacità degli animali. Queste sostanze, infatti, possono provocare danni a distanza colpendo l’asse intestino-cervello, una via di comunicazione bidirezionale tra le due parti del corpo. Per esempio le microplastiche alterano l’equilibrio dei batteri intestinali benefici: è stato dimostrato che questo rende i topi asociali e può causare problemi alla memoria a breve termine. Anche in questo caso le prove di effetti specifici sul cervello vengono da esperimenti che non possono essere ripetuti sugli esseri umani. Tuttavia possiamo verificare che succede se si espongono le nostre cellule cerebrali alle microplastiche. Quando i ricercatori ne hanno riversato una grande quantità sulle cellule nervose, queste sono tutte morte. In dosi ridotte, invece, i neuroni hanno assorbito le particelle al loro interno, risultando danneggiati e deformati. Altri esperimenti di laboratorio confermano una scoperta chiave degli studi sugli animali: la microglia umana fagocita le microplastiche, provocando un aumento dell’infiammazione.
Ridurre l’esposizione
Nonostante i limiti agli esperimenti, abbiamo alcuni indizi sugli effetti delle microplastiche su esseri umani vivi. Uno studio pubblicato nel 2024 ha riscontrato che alcuni soggetti cinesi di età superiore ai 60 anni con un particolare rischio di esposizione alle microplastiche – dovuto all’uso prolungato di posate e piatti di plastica e al consumo regolare di acqua in bottiglie di plastica – avevano un’alta probabilità di sviluppare disturbi cognitivi. Gli effetti erano particolarmente evidenti nei soggetti che usavano regolarmente utensili di plastica, in cui il rischio aumentava del 24 per cento. Queste scoperte rispecchiano un altro risultato del lavoro di Campen, secondo cui le persone affette da demenza avevano maggiori quantità di microplastica nel cervello, il che ricorda in modo preoccupante i risultati degli studi sugli animali. Studi sui topi indicano che l’esposizione alle microplastiche può provocare cambiamenti nel cervello simili a quelli riscontrati su roditori modificati per avere una versione del morbo di Alzheimer. La squadra di Ross ha scoperto che somministrare microplastiche ai topi altera il loro comportamento “in modo simile alla demenza”. Diventavano stranamente irrequieti e incuranti della loro sicurezza.
Queste scoperte alimentano timori su altri possibili effetti neurologici delle microplastiche negli esseri umani, anche se ancora non esistono prove solide. Nonostante molti studi di laboratorio sugli animali usino quantità di microplastiche superiori a quelle che si trovano nell’ambiente, Galloway sottolinea che gli effetti sul cervello umano potrebbero essere più gravi che in altre specie perché siamo molto più esposti alla plastica, che usiamo perfino per confezionare gli alimenti.
La ricerca sugli effetti delle microplastiche negli umani è ancora agli esordi, ma possiamo comunque adottare alcune precauzioni per ridurne l’assorbimento. “Faccio tutto quello che posso per evitare l’esposizione superflua”, spiega Galloway. La ricercatrice non usa contenitori di plastica per cucinare o conservare il cibo e acquista prodotti biologici, perché è meno probabile che provengano da coltivazioni irrigate con fanghi da depurazione, un residuo del trattamento delle acque reflue che contiene elevati livelli di microplastiche. Alcune ricerche suggeriscono altri metodi per limitare i rischi. Assumere probiotici, per esempio, può servire a rafforzare la barriera ematoencefalica. Un altro studio sui topi indica che i problemi di memoria provocati dall’esposizione ai piccoli frammenti di polistirolo scomparivano con la somministrazione di vitamina E, un antiossidante che riduce l’infiammazione. Alimenti come mandorle, spinaci e broccoli sono ottime fonti di vitamina E.
Potrebbe essere presto per farsi prendere dal panico, ma in tutta questa incertezza una cosa è sicura: “Siamo pieni di plastica”, dice Galloway. “Non sappiamo ancora bene quali siano i rischi, ma dobbiamo scoprirlo”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati