Kouba Bouli Diatta ha gli occhi arrossati, come se avesse appena finito di piangere. Seduto su una tanica di benzina, cerca di non pensare all’afa della boscaglia della Guinea-Bissau. Ha appena fumato un po’ d’erba, gustandosi uno dei piaceri semplici della sua nuova vita senza armi. Questo ex combattente del Movimento delle forze democratiche della Casamance (Mfdc) ha 63 anni e ha ormai abbandonato una lotta a cui partecipava da “prima di avere la barba”. In quest’area a pochi chilometri dal villaggio di Cassalol – da cui prende il nome il gruppo dell’Mfdc di cui Kouba faceva parte – ha passato gran parte della sua vita a studiare il nemico e a combattere le forze di sicurezza senegalesi. Ma oggi non ha più la forza di continuare.

Kouba fa parte della prima generazione del movimento indipendentista della Casamance, nato nel 1983, la più vecchia rivolta africana ancora attiva. Questa regione verdeggiante del Senegal meridionale, stretta tra il Gambia a nord e la Guinea-Bissau a sud, è il teatro di uno scontro infinito, in cui si alternano sporadici episodi di violenza a lunghi periodi di calma. Il bilancio ufficiale delle vittime è uno dei più bassi tra i conflitti del continente: si stima che ci siano stati tra i tremila e i cinquemila morti, di cui ottocento a causa delle mine antipersona.

Nelle foto di queste pagine, alcuni leader e combattenti del Movimento delle forze democratiche della Casamance (Mfdc). Casamance, Senegal, 2012 (Michael Zumstein)

Gli ordigni sono disseminati un po’ ovunque lungo le strade sabbiose, i sentieri e i campi della Casamance, dove secondo il Centro nazionale d’azione contro le mine del Senegal (Cnams) un’area pari a 1,2 milioni di metri quadrati deve ancora essere sminata. Il 15 giugno 2020 due soldati senegalesi sono stati uccisi e altri due feriti nell’esplosione di una mina anticarro nell’est della Casamance. Incidenti simili ricordano che questo è un territorio ancora carico di tensioni, e l’Mfdc continua a reclamarne l’indipendenza.

Tra le palme e gli alberi di anacardi, insieme a Kouba vive una ventina di ribelli. In una radura dove aleggia l’odore di terra bruciata, tre capanne di paglia formano il quartier generale e alcuni kalashnikov arrugginiti sono appoggiati contro un muro, all’ombra. Per ora le armi tacciono. Kouba è silenzioso, malinconico. Eppure in questo pomeriggio di febbraio si festeggia il suo coraggio di combattente, con del vino di palma servito in bicchieri di plastica. Intorno a lui ci sono i “ragazzi”, alcuni quarantenni dall’aria giovanile e dai vestiti consunti. Il giorno prima i “ragazzi” hanno spillato la linfa di palma per preparare il vino. Incarnano la nuova generazione di una rivolta che si sta esaurendo, la speranza per chi ha le barbe grigie e i sorrisi sdentati di poter un giorno vedere finalmente la Casamance “libera”.

Dopo aver bevuto, abbandonando la retorica bellicosa, il ribelle in pensione confida di non aver mai pensato che la lotta sarebbe durata tanto. “Non avevo previsto una cosa simile”, mormora Kouba. E i “ragazzi” pensano un po’ preoccupati alla possibilità di invecchiare come lui, all’ombra delle palme.

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Vestito con una maglietta del Manchester United, Jacob Diatta – che non è parente di Kouba – sembra un tifoso che si è perso nella foresta più che un guerrigliero. Ma le sue parole fugano ogni dubbio: “Certo che sono un ribelle! Per quale motivo i militari occupano ancora i nostri villaggi? Che vengano a cercarci nella foresta!”.

Fuga oltre il confine

Dal 1983 Atika (“Combattente”, in diola, una delle lingue locali), il braccio armato dell’Mfdc, si batte contro le forze di sicurezza senegalesi nella Casamance, potendo contare solo su qualche migliaio di ribelli scarsamente armati e addestrati, ma determinati. Il loro credo è: indipendenza o morte.

“L’esercito ha distrutto le nostre case, il bestiame, tutto…”, racconta Jacob con la voce incrinata dalla rabbia. Dietro la bandiera indipendentista ci sono vite segnate dalle sofferenze, dalle persecuzioni, dal sentimento di essere stati abbandonati da Dakar e dall’assenza di futuro per i giovani. Molti di loro si sono uniti alla rivolta della Casamance, dove quasi il 70 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.

Negli anni novanta il presidente senegalese Abdou Diouf scelse la risposta militare per soffocare la guerriglia della Casamance. I successivi accordi di cessate il fuoco (nel 1991, 1993 e 1995) furono violati, aprendo la strada a una nuova serie di scontri. Nel sud della Casamance molti villaggi furono distrutti, i loro abitanti uccisi, sequestrati o costretti a scappare. Travolti dalla guerra, nel 1995 Kouba, Jacob e altri fuggirono in Guinea-Bissau, seguiti dalle loro famiglie, per poi decidere di partecipare alla rivolta.

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“Le motivazioni personali sono molto importanti per capire l’impegno dei combattenti dell’Mfdc. Molti hanno perso le loro terre, hanno visto familiari uccisi, sono stati denunciati all’esercito dai vicini in quanto ribelli”, spiega Paul Diédhiou, antropologo all’università di Ziguinchor, la capitale storica della Casamance.

Oggi l’amarezza e la frustrazione sono ancora evidenti tra i combattenti. “Non ci tengono in considerazione”, dice Boubacar Diatta, 43 anni. “Il motivo è semplice, è perché siamo della Casamance”. L’idea che le élite senegalesi nutrano un disprezzo “culturale” verso i diola, il gruppo etnico maggioritario in Casamance e tra i ribelli, è servita per molto tempo a giustificare il ricorso alla violenza da parte degli indipendentisti. “Il Senegal non vuole liberare le nostre terre”, denuncia Jacob.

In quasi quarant’anni di rivolta la visione del mondo dei combattenti e le loro condizioni di vita non sono cambiate molto. Nella boscaglia la rete elettrica e quella telefonica sono spesso inesistenti, e solo pochi possiedono un’auto. I più fortunati vanno in giro su vecchie motociclette cinesi Jakarta, adatte a circolare sulle strade dissestate. Praticamente isolati dal resto del mondo, i ribelli si sono affezionati alla loro routine: i giri di perlustrazione con indosso le armi, la manutenzione dell’accampamento, la coltivazione degli anacardi, delle arachidi e della marijuana.

“Non siamo scoraggiati, ma vivere nella boscaglia è duro. Manca spesso da mangiare. Ma la nostra sofferenza è utile alla popolazione della Casamance, alla sua unità”, dice rassegnato Jacob Diatta.

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Le divisioni interne

L’Mfdc non è certo un modello di armonia. Dalla fine degli anni novanta il braccio politico e quello armato dell’organizzazione si accusano reciprocamente di corruzione e di tradimento dell’ideale indipendentista. “Le divisioni sono cominciate negli anni duemila, dopo l’uccisione di Léopold Sagna. Sagna era stato designato come nuovo capo dell’ala armata dal leader storico del movimento, l’abate Augustin Diamacoune Senghor”, spiega l’antropologo Paul Diédhiou.

Da allora due leader dell’Mfdc, César Atoute Badiate e Salif Sadio, si affrontano in una lotta fratricida, nel tentativo di prendere il posto dei capi scomparsi. Il primo si è insediato a Cassalol, alla frontiera tra il Senegal e la Guinea-Bissau, e nel 2006 è riuscito a respingere Sadio e i suoi combattenti sul fronte nord, vicino al confine tra il Senegal e il Gambia.

Queste rivalità si sono inasprite ai tempi in cui Abdoulaye Wade era presidente del Senegal (2000-2012). “Wade ha accentuato le divisioni tra i ribelli della Casamance distribuendo molto denaro”, spiega Ibrahima Gassama, giornalista e conduttore del programma radiofonico domenicale Il crocevia della pace, dedicato al conflitto. Milioni di franchi cfa sono stati distribuiti a comandanti e a intermediari per comprare la pace, ma questa strategia ha alimentato l’avidità dei combattenti e approfondito le divisioni.

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“Oggi si possono individuare una ventina di accampamenti lungo la frontiera”, continua l’antropologo Diédhiou. La divisione del movimento armato ha favorito la nascita di due nuove fazioni: quella guidata da Fathoma Coly, detto Diakaye, attiva tra i palmeti a nordest di Ziguinchor, e quella di Ibrahima Compass Diatta, a sudest della stessa città, vicino al villaggio di Sikoune.

Jacob Diatta e i suoi compagni assicurano che le tensioni tra i leader dell’Mfdc appartengono ormai al passato. “Ci sono state divisioni, ma ora è finita”, afferma Jacob, rimanendo molto evasivo sulle intenzioni del suo comandante, César Atoute Badiate. “Siamo uniti, non ci sono problemi. Atoute parla con tutti”.

Nel 2014 sono cominciate delle trattative fra le fazioni di César Atoute Badiate, Fathoma Coly e Ibrahima Compass Diatta allo scopo di riunire l’ala armata, una condizione fondamentale per avviare dei negoziati di pace con lo stato senegalese. Ma l’intesa è fragile. Alla fine di aprile Ibrahima Compass Diatta è stato accusato di tradimento e destituito dalle sue funzioni.

Intanto quest’atmosfera di relativa calma ha permesso ai combattenti di farsi una famiglia. Alcuni si sono sposati e sono diventati padri, mescolando la vita da ribelle con quella di civile. “Ho un sacco di figli!”, scherza Jacob. Tra le risate, racconta che almeno una settimana al mese la trascorre insieme a loro. “Ma non si può lasciare l’accampamento senza permesso”, avverte.

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“Sono pochi quelli che non lasciano mai il campo”, afferma Mokhtar Niang, che in passato ha lavorato con il Centro per il dialogo umanitario (Hd), un’ong svizzera specializzata in “diplomazia privata”, che nel 2014 ha organizzato dei negoziati tra le fazioni in lotta. “La maggior parte dei ribelli dell’Mfdc si sposta tra la boscaglia, la città di Ziguinchor, il Gambia e la Guinea-Bissau. Anche i capi delle fazioni, fatta eccezione per Salif Sadio, si spostano molto. Hanno compagne e figli in diverse parti della regione”.

Appoggiato a una capanna, Eugène Diédhiou fissa lo schermo del suo telefono. A 38 anni è il più giovane del gruppo. Per lui la Casamance è sempre stata una regione in guerra. Quando aveva tredici anni ha dovuto abbandonare il suo villaggio, Youtou, per andare in Guinea-Bissau, poi a 18 anni si è unito ai ribelli. Oggi afferma di volere una cosa sola: “Vendicarsi dell’esercito”, sempre presente nei villaggi della Casamance. La sua rabbia non stupisce nessuno. A piedi nudi, si alza, si sgranchisce e torna a sedersi. Jacob prende la parola con solennità: “Negozieremo con lo stato senegalese per avere la pace”. Qualche anno fa anche solo pensare a una tregua sarebbe stato considerato un tradimento. Così come abbandonare la rivolta criticando la lotta armata.

A Ziguinchor, il centro economico e politico della Casamance, Louis Tendeng è una personalità importante. Questo sessantenne ha fatto parte del primo gruppo di ribelli, guidato dal comandante storico di Atika, Sidy Badji. Sul piazzale davanti alla Maison de la paix, su viale Ibou Diallo, con il panama e la camicia a fiori, ha l’aria di un dandy. Non ha difficoltà ad ammettere che “il conflitto è durato troppo”. Da quando ha lasciato la lotta armata nel 1996, Louis s’impegna per convincere i ribelli a negoziare con Dakar. “All’inizio mi consideravano un corrotto, anche se non lo ero!”, afferma. Oggi collabora con alcune ong coinvolte nei negoziati e usa la sua rete di conoscenze e la sua esperienza di ribelle per parlare sia con i rappresentanti del governo senegalese sia con i combattenti: “In questo conflitto ho perso gran parte del mio tempo e della mia vita. La sola cosa che rimpiango è che non siamo ancora arrivati a una soluzione”.

Intenzioni poco chiare

Nel 2012 l’elezione a presidente di Macky Sall – ancora al potere – aveva fatto ben sperare. Il nuovo capo di stato del Senegal ha detto di voler negoziare con l’Mfdc. Ma solo Salif Sadio, il comandante della fazione Nord, ha colto questa opportunità. Da allora i negoziati sono diretti dalla Comunità di Sant’Egidio, un’associazione cattolica con sede a Roma, che negli ultimi otto anni ha organizzato una decina d’incontri tra i rappresenti delle due parti. Tuttavia il governo senegalese è reticente a rivelare i contenuti delle trattative. L’ultima si è svolta il 28 e 29 febbraio, dopo due anni di pausa.

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Approfittando di questo silenzio, nella primavera del 2019 Salif Sadio ha organizzato una serie di incontri pubblici nella sua roccaforte del Fogny, una piccola regione a nord di Ziguinchor. Ufficialmente doveva parlare dei progressi nei negoziati di pace ma, come testimonia un video che Le Monde ha potuto visionare, il leader indipendentista ha usato questi eventi per ribadire idee molto radicali. Circondato da uomini armati, il 29 giugno si è rivolto a centinaia di persone riunite nel villaggio di Baye Peul. “Il Senegal ci ha spinto alla rivolta. È l’esercito che ci ha attaccato per primo. Per quale motivo non abbiamo il diritto di sparargli?”, ha chiesto Sadio in mandinka (una lingua dell’Africa occidentale), suscitando gli applausi della folla.

Nel suo boubou immacolato, il settantenne ha ripetuto per due ore i suoi argomenti a favore dell’indipendenza. Un intervento che fa riflettere sui progressi delle trattative di Roma. Queste manifestazioni organizzate da Salif Sadio inizialmente avevano l’autorizzazione delle autorità locali. L’esercito controllava la zona per prevenire eventuali problemi. Ma alla fine i “comizi”, considerati troppo sovversivi, sono stati vietati. Alcuni collaboratori di Salif Sadio sono stati anche arrestati per le loro affermazioni sediziose. Da allora il comandante non si è più espresso in pubblico, e alcune fonti ufficiali affermano che lui e César Atoute Badiate sono gravemente malati.

Il declino dei leader dell’Mfdc ha coinciso con la scomparsa dei regimi del Gambia e della Guinea-Bissau che in passato avevano sostenuto la ribellione. Nel 2017 la caduta del dittatore gambiano Yahya Jammeh, costretto all’esilio in Guinea Equatoriale, ha tolto a Salif Sadio il suo principale supporto politico e finanziario. A Jammeh è succeduto Adama Barrow, vicino a Macky Sall, che è presidente dal 2016 anche se aveva promesso di rimanere al potere solo tre anni.

In Guinea-Bissau l’elezione di Umaro Sissoco Embalo nel dicembre del 2019 ha rappresentato la fine di un’era. Anche lui amico di Macky Sall, ha idee liberali ed è il primo presidente a non far parte del Partito africano per l’indipendenza della Guinea e di Capo Verde (Paigc), una formazione che ha dominato la vita politica del paese fin dall’indipendenza nel 1974. Gli stretti legami del Paigc con i ribelli della Casamance avevano contribuito ad aggravare l’instabilità politica della Guinea-Bissau.

Per il Senegal il nuovo contesto è particolarmente positivo. “Lo stato senegalese è in una posizione di forza sia sul piano militare sia su quello politico”, fa notare Jean-Claude Marut, geografo e specialista del conflitto della Casamance. “Perché dovrebbe negoziare con un movimento che sta per esaurirsi? Il Senegal gioca la carta del logoramento nella speranza che la rivolta si spenga da sola”.

A Dakar i vertici dello stato sono convinti che le rivendicazioni indipendentiste finiranno per sparire insieme alle persone che le hanno formulate. “Il Senegal non ha mai considerato la situazione della Casamance un conflitto o una guerra regionale. Per le autorità è sempre stata una crisi interna. Ancora oggi alcuni rappresentanti dello stato affermano che i ribelli sono i figli smarriti della nazione”, osserva Mokhtar Niang.

Persone sperdute che le autorità cercano in qualche modo di riportare nei ranghi. “L’obiettivo è che i combattenti dell’Mfdc lascino le armi per tornare progressivamente alla vita civile”, conferma Marut. Per ridare ossigeno a questa regione, un tempo molto apprezzata dai turisti, e alla sua economia in crisi, si sono moltiplicati i progetti di sviluppo. Dall’inizio del 2019 “un centinaio di combattenti” avrebbe espresso la volontà di deporre le armi, dice Robert Sagna, ex sindaco di Ziguinchor e presidente del Gruppo di riflessione per la pace in Casamance, che cerca di far procedere i negoziati.

Quanti sarebbero invece quelli che ancora oggi si uniscono alla lotta? Non ci sono dati affidabili, ma tutto fa credere che siano sempre meno. “Certo che ce ne sono! Del resto io ne sono la prova vivente”, afferma Eugène Diédhiou tradendo una certa irritazione. Ma cosa vanno a fare in una lotta armata che si trova a un punto morto?

Da sapere
La ferita senegalese

**1982 **Le forze dell’ordine senegalesi reprimono con la violenza una manifestazione a Ziguinchor del Movimento delle forze democratiche della Casamance (Mfdc) per chiedere la fine dell’emarginazione della regione.

**1983 **Il movimento si radicalizza e rivendica l’indipendenza. Nasce Atika, il braccio armato dell’Mfdc, guidato dall’abate Augustin Diamacoune Senghor.

1991 Un primo cessate il fuoco mette fine a quasi un decennio di scontri tra i ribelli in clandestinità e l’esercito senegalese. Ma, come succederà con quelli successivi, non viene rispettato.

2004 Si apre un periodo di relativa calma dopo la firma di un accordo di pace tra il governo di Abdoulaye Wade e l’abate Diamacoune.

2007 Muore Diamacoune. La battaglia per la successione apre nuove fratture tra i ribelli.

2012 Macky Sall, appena eletto presidente del Senegal, rilancia i negoziati.

2020 **A Roma, presso la Comunità di Sant’Egidio, s’incontrano i rappresentanti di Macky Sall e della fazione dell’Mfdc guidata da Salif Sadio. **Radio France International


Nel limbo

“Né guerra né pace”. L’espressione è regolarmente evocata per descrivere la situazione della Casamance e i suoi effetti perversi. La rivolta ha costruito un’economia parallela che permette ai guerriglieri di mantenere il controllo di certi territori. Il contrabbando di legni pregiati, di marijuana, di anacardi e di altri prodotti è molto attivo nelle zone di frontiera vicino agli accampamenti dell’Mfdc. Queste attività illegali danno lavoro a molti ribelli.

Lo stato senegalese sembra chiudere un occhio. A marzo un’inchiesta condotta da Bbc Africa Eye ha rivelato che nella Casamance dal 2014 sono stati abbattuti illegalmente quasi diecimila ettari di foresta di palissandro. “La regione è abbandonata a se stessa, nelle mani dell’Mfdc e dei banditi di frontiera. Quando finirà questa situazione?”, s’interroga il giornalista Ibrahima Gassama.

I traffici illegali offrono soprattutto delle opportunità di guadagno ai comandanti. “I leader si preparano al momento inevitabile in cui la situazione precipiterà. Allora spariranno nel giro di ventiquattr’ore, perché avranno già preparato il loro futuro. La maggior parte di loro possiede dei documenti di identità del Senegal, della Guinea-Bissau o del Gambia”, rivela Mokhtar Niang.

Ma i combattenti di Cassalol non parlano di riconversione né di deporre le armi. Tutti si aggrappano alla loro verità. “Se il Senegal non vuole risolvere il nostro problema, noi rimarremo qui fino alla morte. Non abbandoneremo mai la rivolta”, afferma Jacob. “Siamo noi ad avere perduto di più in questa guerra”, continua il ribelle tirando fuori dalla tasca una cartina e una bustina di marijuana. “Ma non è grave. Se accettano di darci la Casamance, li perdoneremo”.

Dieuredieuf (‘grazie’ in lingua wolof) Senegal”, conclude Jacob avvolto dal fumo. “E non ci si pensa più” . ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1375 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati