Il modo di agire è quasi sempre lo stesso. In qualsiasi momento del giorno o della notte, con poco clamore, un convoglio di auto blocca gli accessi a un quartiere. Un commando di uomini armati scende in abiti civili, senza mandato d’arresto né di perquisizione. L’abitazione presa di mira è perlustrata da cima a fondo, gli effetti personali e i dispositivi elettronici di chi ci vive sono confiscati e la persona ricercata è arrestata senza poter contattare nessuno. Senza spiegazioni. La macchina della polizia segreta saudita, chiamata mabahith, è ben oliata. Da quando nel 2017 è diventata un’agenzia della sicurezza di stato, le sue squadre rispondono direttamente al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, detto Mbs. Il suo scopo è mettere a tacere, con il pretesto della lotta al terrorismo, qualunque voce scomoda per il potere.
I sauditi spariti da un giorno all’altro per aver chiesto riforme sociali e religiose o per aver espresso un’opinione critica del potere, spesso sui social network, sarebbero migliaia. “Sembrava che stessero arrestando Pablo Escobar”, ironizza Malek, parente di un prigioniero politico, che ha chiesto uno pseudonimo per motivi di sicurezza. Anche Rasha, amica di un prigioniero di coscienza, preferisce usare un nome di fantasia: “Non abbiamo mai saputo come le autorità abbiano scoperto la sua vera identità. Il suo account Twitter era anonimo e aveva solo qualche centinaio di follower. Non si aspettava che la faccenda assumesse queste proporzioni”.
La storia del regno è contrassegnata da ondate di arresti politici, ma il ritmo di queste operazioni si è intensificato e la loro natura si è evoluta in seguito alla nomina di Mbs a principe ereditario a giugno del 2017. Separata quello stesso anno dal ministero dell’interno saudita, la mabahith ha ampi poteri che le permettono di operare in totale impunità e di dirigere istituti penitenziari per detenuti politici al di fuori dell’apparato carcerario ordinario, come Al Hayer, la più grande prigione di massima sicurezza, a una ventina di chilometri da Riyadh; o il carcere di Dhahban, vicino a Jedda. “Tutti i sauditi sanno che ci sono poche speranze per chi viene portato via dagli agenti della sicurezza di stato”, si rammarica Rasha.
Rifiutandosi di rispondere alle richieste delle famiglie, le autorità di solito non comunicano le accuse. Quando queste sono rese pubbliche, spesso sono simili tra loro e rientrano nell’ambito della legislazione antiterrorismo saudita, che dà una definizione molto ampia di terrorismo e limita anche la libertà di espressione. I processi, politicizzati, si svolgono davanti al tribunale penale speciale, istituito nel 2008 e usato dal 2011 per soffocare ogni dissenso sull’onda delle primavere arabe.
I processi sono segnati da evidenti vizi di forma. “Il governo e il tribunale ammettono la presenza di un avvocato per questioni d’immagine e per dare l’impressione di rispettare la legge. In realtà il difensore fa solo da comparsa in una messinscena”, spiega Taha Alhajji, avvocato saudita che ha rappresentato molti prigionieri di opinione. “La maggior parte degli avvocati del paese cerca di stare alla larga da questi casi, soprattutto quando sono pubblicizzati sui mezzi d’informazione”, aggiunge Alhajji, che dal 2016 vive in esilio.
Senza precedenti
Spesso situati in zone remote, gli imponenti complessi carcerari gestiti dalla mabahith sfuggono a qualunque controllo e sono inaccessibili agli organismi indipendenti. Le poche informazioni che filtrano sulle condizioni di detenzione sono ottenute grazie ai parenti dei detenuti o alle testimonianze di ex prigionieri. “Non ci sono parole per descrivere quello che alcuni hanno subìto durante la detenzione. Uno di loro è arrivato a paragonare queste carceri ad Abu Ghraib o a Guantanamo”, ricorda Taha Alhajji.
Secondo un rapporto dell’ong indipendente Alqst for human rights pubblicato a luglio del 2021, “una delle caratteristiche dell’era di re Salman e del principe ereditario Mbs è l’uso sistematico della tortura a fini politici. La quantità di persone prese di mira recentemente e la durezza dei sistemi di tortura usati sono senza precedenti”.
Anche se violano la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, ratificata con riserva da Riyadh nel 2000, questi metodi sono stati usati durante le epurazioni del Ritz-Carlton nel 2017 (quando centinaia di uomini d’affari ed esponenti della famiglia reale sono stati imprigionati nelle stanze dell’albergo della capitale con l’accusa di corruzione) e poi nella serie di arresti di intellettuali e attiviste per i diritti delle donne. Il terribile omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi all’interno del consolato del suo paese a Istanbul nel 2018 ha portato alla luce del sole la violenza della macchina repressiva saudita, anche fuori dei confini del regno, ed è costato a Mbs la messa al bando dalla comunità internazionale.
In secondo piano
Ma la visita a Riyadh del presidente statunitense Joe Biden (il suo viaggio nella regione comincia il 13 luglio) conferma che è giunto il momento della riabilitazione. Già ad aprile la Turchia aveva permesso di rimuovere uno degli ultimi ostacoli al ritorno di Mbs sulla scena internazionale con la “chiusura” del processo in contumacia dei 26 cittadini sauditi accusati dell’omicidio di Khashoggi e il trasferimento del fascicolo alle autorità saudite.
Queste aperture incoraggiano l’impunità e fanno temere agli attivisti che la questione dei diritti umani nel regno sia passata in secondo piano. “Ogni volta che si vede di nuovo legittimato sul piano internazionale, il governo si accanisce contro i prigionieri di coscienza. C’è chiaramente un nesso tra le due cose”, sottolinea Lina al Hathloul, responsabile del monitoraggio e della comunicazione per Alqst e sorella dell’attivista saudita Loujain al Hathloul.
A marzo di quest’anno è stata eseguita la condanna a morte di 81 persone per accuse che andavano dal furto alla partecipazione a manifestazioni: una decisione senza precedenti nella storia moderna del regno, annunciata tre giorni prima della visita del primo ministro britannico Boris Johnson in Arabia Saudita. A giugno il tribunale penale di Tabuk ha confermato in appello la condanna a morte di Abdullah al Howaiti, proprio mentre era ufficializzata la visita di Joe Biden nel regno. Al Howaiti aveva quattordici anni quando è stato arrestato nel 2017, con l’accusa di furto e omicidio. Due anni dopo è stato condannato alla pena capitale sulla base di confessioni che secondo alcune organizzazioni per i diritti umani gli sarebbero state estorte con torture e maltrattamenti.
Visite negate, violenze verbali, isolamento, privazione del sonno, elettroshock, waterboarding, minacce di abusi sessuali, ingestione forzata o somministrazione di sedativi. Le autorità hanno sviluppato una vasta gamma di metodi repressivi per spezzare ogni velleità di opposizione. Secondo le testimonianze raccolte dall’Orient-Le Jour, questi metodi sono usati soprattutto nel periodo di carcerazione preventiva (che può durare fino a un anno), quando i prigionieri rischiano di finire in isolamento senza essere portati davanti a un giudice e senza poter parlare con un avvocato.
“Le guardie facevano irruzione in cella nel mezzo della notte per interrogarlo ed estorcergli confessioni senza avergli neppure comunicato di cosa lo accusavano”, racconta Malek parlando del suo parente in carcere. Quando il fascicolo del detenuto è stato presentato al giudice era chiaro che le accuse erano state fabbricate.
A maggio diverse ong hanno denunciato le violenze contro Mohammad Fahad al Qahtani, intellettuale e tra i fondatori dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici (Acpra), detenuto dal 2013. Al Qahtani è stato aggredito nel carcere di Al Hayer da un altro prigioniero che soffre di disturbi psichiatrici. “Sistematicamente e in modo deliberato, dal 2017 persone affette da malattie mentali sono trasferite in questa sezione dell’istituto, mettendo in pericolo la vita dei difensori dei diritti umani e di altri attivisti”, sottolineava l’Organizzazione europea saudita per i diritti umani (Esohr) in un comunicato pubblicato il 2 giugno. A marzo del 2021 Al Qahtani, insieme a una trentina di altri prigionieri di coscienza, aveva avviato l’ennesimo sciopero della fame per protestare contro gli attacchi e i maltrattamenti subiti in carcere, e contro il rifiuto delle autorità di permettere i contatti con le famiglie o l’accesso a libri e riviste.
“Quando non hanno più nulla, ai detenuti resta solo il proprio corpo per agire”, spiega Lina al Hathloul. “Le autorità non vogliono assumersi la responsabilità della loro morte e affrontare la pressione internazionale che ne deriverebbe. Tuttavia, i risultati degli scioperi della fame sono incerti e dipendono soprattutto dall’eco che hanno fuori delle frontiere saudite”, continua.
La morte del poeta e difensore dei diritti umani Abdullah al Hamid, avvenuta ad aprile del 2020, quando aveva 69 anni, dopo che le autorità gli avevano negato l’accesso alle cure mediche nonostante i molti avvertimenti dei medici e dei parenti sul peggioramento della sua salute, aveva suscitato una certa indignazione. Il 12 maggio 2021 Abdullah Jelan, che ha 29 anni e un disturbo bipolare diagnosticato, è stato arrestato a casa di sua madre a Medina e non ha più potuto prendere farmaci. Perseguito in base alla legge sul terrorismo e sul finanziamento al terrorismo per essersi lamentato della disoccupazione e per aver rivendicato alcuni diritti di base su Twitter, Jelan è stato tenuto in isolamento per le prime tre settimane di detenzione. In questo periodo sarebbe stato torturato e sottoposto a elettroshock mentre aveva piedi e polsi legati. In seguito è stato trasferito nel carcere di Dhahban.
Sotto sorveglianza
Queste circostanze sono ancora più inquietanti se si considera che un rapporto dell’Esohr pubblicato ad agosto del 2020 denunciava almeno una decina di morti sospette durante la detenzione o qualche giorno dopo la scarcerazione.
È il caso dell’atleta Makki al Arid, morto a marzo del 2016 nella stazione di polizia di Al Awamiyah, nella provincia di Qatif, roccaforte sciita nel mirino di Riyadh; e anche del giovane Mohammad Reda al Hassawi, morto l’anno dopo nella prigione di Dammam, nell’est del paese. Se si osservano le immagini pubblicate online, sui loro corpi si riconoscono chiari segni di tortura, nonostante le smentite delle autorità. Molte famiglie di prigionieri di coscienza morti in carcere sono state costrette a firmare dei documenti, senza poter vedere i corpi, in cui si attestava che i loro cari si erano suicidati o erano morti durante la detenzione per cause naturali.
Per rafforzare questa politica negli ultimi anni è aumentata anche la sorveglianza dei parenti dei prigionieri politici. “Questo è un fatto nuovo, cominciato con Mbs. Dal momento in cui una persona è incarcerata, tutta la sua famiglia diventa un bersaglio e subisce provocazioni”, sottolinea Abdullah Alaoudh, direttore di ricerca per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti dell’organizzazione non profit Dawn (Democracy for the arab world now) e figlio del teologo riformatore Salman al Odah, detenuto da settembre del 2017 per aver pubblicato un tweet a favore della riconciliazione tra i leader di Arabia Saudita e Qatar durante il blocco contro Doha lanciato da Riyadh. Lo zio di Alaoudh, Khaled al Odah, è stato arrestato qualche giorno dopo aver denunciato la detenzione del fratello in un tweet. È accusato di averlo fiancheggiato e di aver mischiato affari pubblici e privati.
◆ Fra il 13 e il 16 luglio 2022 si svolge il viaggio del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Medio Oriente, che prevede tappe in Israele, Palestina e Arabia Saudita. Alcuni attivisti hanno avvertito che una visita nel regno senza prima chiedere a Riyadh un impegno sulla difesa dei diritti umani potrebbe mandare ai leader sauditi il messaggio che non ci sono conseguenze per abusi e violazioni. Quando era candidato alla presidenza, Biden aveva promesso di rendere l’Arabia Saudita uno stato “paria” in risposta all’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, di cui il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, detto Mbs, è stato ritenuto responsabile. Ma ora Biden ha deciso di ristabilire le relazioni con il regno ricco di petrolio, in un momento in cui sta cercando di abbassare il prezzo dei carburanti negli Stati Uniti e isolare la Russia per l’invasione dell’Ucraina. A Riyadh Biden dovrebbe incontrare, oltre a Mbs, i leader di altri paesi arabi, tra cui Egitto, Giordania, Iraq ed Emirati Arabi Uniti. Al Jazeera
“Il tema dei prigionieri di coscienza è diventato una linea rossa. Nessuno vuole toccarlo, né da vicino né da lontano. I conoscenti dei detenuti si informano sulla loro sorte in privato”, dice Malek.
“Ogni volta che parlavamo del processo sui social network o sui mezzi di comunicazione arrivavano nuove complicazioni, come il rinvio delle udienze senza preavviso”, denuncia Sami, parente di un prigioniero politico. “Da allora, in attesa del verdetto, non condividiamo più nulla”.
Qualcosa da perdere
Per le persone che alla fine sono state rilasciate, spesso grazie alle pressioni internazionali, la liberazione ha un sapore amaro: oltre ai traumi vissuti in carcere, restano sotto sorveglianza, e la sentenza è quasi sempre accompagnata dal divieto di viaggiare per diversi anni – una misura che si può estendere anche ai parenti – e di esprimersi pubblicamente sulla detenzione.
È quello che è successo a Loujain al Hathloul e a Samar Badawi, arrestate nel 2018 per il loro impegno in favore dei diritti delle donne e liberate nel 2021. Oppure al blogger Raif Badawi, condannato nel 2012 a mille frustate per apostasia e oltraggio all’islam, e rilasciato a marzo del 2022.
A febbraio Citizen lab, il centro di sicurezza informatica dell’università di Toronto, ha rivelato che il cellulare di Loujain al Hathloul era stato violato da Pegasus, il software spia dell’azienda israeliana Nso, usato negli ultimi anni da vari governi autoritari per colpire figure politiche, giornalisti e attivisti.
“Molti sono più stressati quando escono dal carcere perché hanno qualcosa da perdere. Vivono in una paura costante che è difficile da gestire”, osserva Lina al Hathloul. Ufficialmente considerate terroriste, le persone scarcerate si ritrovano socialmente isolate: molte non lavorano perché nessuno vuole assumerle, alcune sono rinnegate dalle famiglie, mentre gli amici prendono le distanze. “In queste circostanze la liberazione è, in fondo, un’altra forma di prigione”, conclude Al Hathloul. ◆ fdl
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1468 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati