Per sette anni, durante i lavori di costruzione dell’hotel Torre K23 all’Avana, i residenti hanno protestato. Sostenevano che l’edificio avrebbe rovinato il quartiere, un’area verde vicino al lungomare. Del resto, facevano notare, c’era già un ottimo hotel poco più in basso: l’Habana Libre, l’ex Hilton trasformato da Fidel Castro nel suo quartier generale dopo la rivoluzione. Ma Cuba, nel pieno di una crisi economica ormai cronica, cercava di attirare valuta estera. Inoltre, il nuovo hotel era opera di un apparato intoccabile: il ramo commerciale delle forze armate rivoluzionarie, noto come Gaesa, che controlla i settori chiave delle costruzioni, del turismo, della finanza e dell’import-export. Inaugurata a febbraio, la Torre K23 è l’edificio più alto dell’isola: un anonimo rettangolo di vetro e acciaio di 42 piani, con circa cinquecento camere che quasi nessun cubano può permettersi. Ma è per lo più vuota, come il resto di Cuba. Il turismo, un tempo la principale fonte di reddito del paese, si è più che dimezzato nell’ultimo decennio. In parte a causa della pandemia, che ha paralizzato la vita pubblica per quasi due anni. Ma già prima la situazione era peggiorata, tra le sanzioni imposte dall’amministrazione Trump e un crescente senso di declino. Durante una recente visita, ho trovato il centro storico dell’Avana quasi deserto, a parte qualche venditore improvvisato che offriva sigari, rum e sesso a prezzi stracciati. Sui marciapiedi, uomini senza fissa dimora giacevano riversi.
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Fervore politico
La vera causa del vuoto dell’isola non è la fuga dei turisti, ma quella dei suoi abitanti. L’esodo è cominciato nel 2021, quando le strade si sono riempite di persone che protestavano contro le politiche oppressive e la carenza di generi alimentari e medicinali. Castro era morto da cinque anni, ma il partito comunista è rimasto al potere reprimendo la contestazione, incarcerando e picchiando centinaia di dimostranti. Da allora si stima che circa il 18 per cento dei cubani, fino a due milioni di persone, abbia lasciato il paese. È la più grande ondata migratoria nei 66 anni di storia della rivoluzione.
Alcuni hanno cercato di attraversare lo stretto della Florida su zattere o imbarcazioni di fortuna: nel 2024 almeno 140 sono morti in mare. Ma la maggior parte è partita in aereo, vendendo la casa, spesso a prezzi irrisori, per pagarsi il viaggio. Decine di migliaia di cubani hanno preso voli charter per il Nicaragua, dove il regime autoritario di Daniel Ortega gli ha permesso di transitare in cambio di generosi compensi. Da lì sono risaliti verso nord, spesso affidandosi a reti di trafficanti. Si stima che negli ultimi tre anni almeno 850mila siano entrati negli Stati Uniti, molti per stabilirsi a Miami e nei suoi dintorni.
Ho incontrato uno di loro qualche settimana dopo il mio viaggio all’Avana, un uomo di mezza età che chiamerò Aldo. Era partito nel 2021 con la moglie incinta e il figlio di quattro anni. “Tutti se ne stavano andando”, mi ha detto. “Era come una febbre”. La famiglia aveva viaggiato per settimane attraverso l’America Centrale. Dopo aver raggiunto a piedi il confine con gli Stati Uniti, erano stati presi tutti in custodia dalla polizia di frontiera. Un agente li aveva rassicurati: erano al sicuro e i loro diritti sarebbero stati rispettati. Aldo e la moglie erano scoppiati a piangere. Questo succedeva prima che Trump tornasse alla Casa Bianca, con un programma incentrato sulla lotta all’immigrazione.
Per decenni i cubani hanno considerato gli Stati Uniti una sorta di terra promessa: un luogo dove scappare dal potere autoritario, dalla minaccia di punizioni per aver criticato il governo, da una giustizia piegata agli interessi del partito. Oggi chi arriva lì scopre che l’atmosfera è molto simile a quella che si è lasciato alle spalle. Dopo essere stato costretto all’esilio in Florida, lo scrittore dissidente Reinaldo Arenas descrisse così il rapporto tra la sua vecchia casa e la nuova: “Se Cuba è l’inferno, Miami è il purgatorio”.
Generazioni di immigrati hanno contribuito a plasmare la città a immagine della loro patria. C’è una Little Havana, con negozi e ristoranti che ricordano quelli dell’isola, e un parco dove gli uomini giocano a domino accanto a un monumento che commemora lo sbarco fallito alla baia dei Porci. Ci sono strade e giardini dedicati agli eroi cubani.
L’anno scorso, poco dopo le elezioni presidenziali, la commissione della contea di Miami-Dade ha deciso che un tratto di Palm avenue si sarebbe chiamato President Donald J. Trump avenue. In Florida vivono più di un milione e seicentomila cittadini cubano-statunitensi, e il 68 per cento di loro ha votato per Trump: sperando che li aiutasse nella loro lunga battaglia per “riconquistare” l’isola, lo hanno sostenuto con un entusiasmo straordinario.
Lo scrittore cubano in esilio Abraham Jiménez Enoa, dopo alcuni anni in Spagna, è tornato di recente a Miami e mi racconta di essere rimasto colpito dal fervore politico della comunità. “Il mio cervello è andato in tilt”, mi dice. “Hanno sostituito Castro con Trump. Se sei di sinistra a Miami, ti massacrano sui social e ovunque ti trovino, come sull’isola fa il regime con i dissidenti. E se non sei trumpiano, allora sei un comunista, e il comunismo è il male. Molti cubani di Miami vedono Trump come i rivoluzionari cubani vedevano Fidel: un salvatore, l’uomo capace di tirarci fuori dalla miseria”.
Il presidente statunitense sembra consapevole che i suoi sostenitori si aspettano da lui una linea dura con il regime. Durante il suo primo mandato aveva inserito Cuba nella lista degli stati che finanziano il terrorismo, insieme a nazioni come Iran e Corea del Nord; la motivazione, considerata da molti debole, era che l’isola aveva dato rifugio a dieci affiliati di un gruppo ribelle colombiano. Joe Biden aveva rimosso Cuba dalla lista, ma Trump l’ha inserita di nuovo appena rieletto, impedendo alle aziende statunitensi di fare affari con l’isola. Ha anche annullato varie misure di distensione introdotte dal suo predecessore e a giugno ha imposto sanzioni a diverse aziende straniere legate all’esercito cubano e al gruppo Gaesa.
Priorità assoluta
Ma i sostenitori cubano-statunitensi di Trump hanno dovuto accettare un compromesso scomodo. Nell’ambito della nuova stretta sull’immigrazione, l’amministrazione ha eliminato le tutele per i cubani senza documenti, una comunità che godeva di un trattamento speciale dai tempi della guerra fredda, quando gli Stati Uniti avevano ancora un interesse ideologico nel proteggere chi scappava dal comunismo. Nel 1966 il Cuban adjustment act concedeva agli immigrati cubani la possibilità di chiedere la residenza permanente dopo un solo anno. Più di recente Biden aveva avviato un programma di “permesso umanitario” che ha garantito l’ingresso a 110mila cubani. Ora queste persone rischiano di essere espulse.
In Florida il governatore Ron DeSantis ha rilanciato la campagna contro gli immigrati, autorizzando la polizia locale ad assistere l’Immigration and customs enforcement (Ice) nelle retate. Anche partecipare a un’udienza legale può essere pericoloso. Il tribunale per l’immigrazione nel centro di Miami ha in arretrato quasi 150mila richieste d’asilo di cubani, e a volte gli agenti li aspettano fuori per arrestarli.
Chi crede che per migliorare la situazione politica di Cuba serva più dialogo con gli Stati Uniti sta perdendo le speranze. Joe Garcia, ex deputato democratico della Florida, ha lavorato come mediatore tra L’Avana e Washington durante le amministrazioni Obama e Biden. Mi riceve in una tipica veranda di Miami beach. Secondo lui, i politici stanno tradendo gli immigrati. Il sud della Florida ha tre rappresentanti cubano-statunitensi al congresso: Carlos Giménez, Mario Díaz-Balart e María Elvira Salazar. Sono tutti repubblicani, e nessuno è intervenuto con decisione contro le espulsioni.
“María Elvira Salazar ha detto di essere ‘profondamente delusa’ dall’amministrazione Trump”, ammette Garcia. Ma ha anche firmato una proposta di legge, chiamata Dignity act, che offrirebbe protezione ai cubani arrivati prima del 2021, consentendo invece di espellere i nuovi arrivati. “È una scelta difficile: abbandonare un gruppo di cubani per salvarne un altro”, ha detto Garcia. “Qual’è la differenza? Alcuni sono arrivati durante l’amministrazione Biden”.
Garcia nota una mancanza preoccupante di solidarietà tra le varie ondate di immigrati. La prima, quella degli anni sessanta, era per lo più bianca e benestante, e disprezzava chi era arrivato vent’anni dopo, in gran parte poveri e neri. Chi si è aggiunto negli ultimi decenni oggi ripete lo stesso schema: “I cubani privilegiati, quelli che ce l’hanno fatta, pensano: ‘Non sono come noi’. Questa comunità nata sull’idea di libertà oggi tollera la possibile espulsione di mezzo milione di connazionali”. Secondo lui, i repubblicani della Florida hanno deciso di chiudere un occhio sulle espulsioni se Trump farà crollare il governo all’Avana.
Carlos Giménez ha 71 anni ed è arrivato dall’Avana. Prima di essere eletto alla camera, è stato capo dei vigili del fuoco di Miami e sindaco della contea di Miami-Dade. Mi riceve nel suo ufficio. Quando accenno ad alcuni cartelloni pubblicitari che lo definiscono un traditore, sorride con aria beffarda. “Sono cose del Partito democratico, ormai è quasi irrilevante”, dice.
Esagera, ma non troppo. A mano a mano che il predominio repubblicano si rafforzava in Florida, il Partito democratico locale è stato indebolito da conflitti interni e non è andato bene alle elezioni. I militanti più fedeli si sono defilati, mentre i moderati hanno virato a destra. Nel 2016 Giménez appoggiava Hillary Clinton; oggi sostiene Trump. Quando gli parlo della prospettiva di espulsioni di massa, usa parole caute: “La situazione negli Stati Uniti è colpa del presidente Biden, perché oltre alle persone oneste, ha fatto entrare anche i criminali”. Spera che le regole sull’immigrazione siano allentate “per le persone oneste”, aggiungendo che lui e i colleghi repubblicani stanno “lavorando dall’interno”.
Non è chiaro se il loro lavoro stia dando risultati. Nella prima metà di quest’anno più di quattromila cubani sono stati rimandati sull’isola e molti altri sono stati trasferiti in Messico. Circa 42mila hanno ricevuto un ordine di espulsione definitivo e aspettano solo di essere allontanati. Quando Cuba ha cercato di imporre limiti, rifiutando di accettare persone con precedenti penali negli Stati Uniti, l’amministrazione le ha dirottate altrove. Uno di questi trasferimenti è stato annunciato in un comunicato stampa intitolato: “Otto barbari clandestini criminali finalmente deportati in Sud Sudan dopo settimane di ritardi causati da giudici attivisti”.
Per Giménez la priorità assoluta è far cadere il governo cubano: “Applaudo il presidente Trump per la pressione che sta esercitando. La soluzione per Cuba è il cambio di regime”. Secondo lui, se l’isola diventasse abbastanza povera, la popolazione si solleverebbe per rovesciare il governo. Vorrebbe “bloccare tutti i voli, i generi alimentari e le medicine, e il movimento di persone che fanno circolare merci e denaro”. Propone anche d’interrompere le rimesse dagli Stati Uniti e di smantellare il programma che consente al regime di raccogliere fondi “noleggiando”, di fatto, medici cubani a paesi poveri. Bisogna imporre queste restrizioni nei prossimi due anni, prima che le elezioni di metà mandato possano dare al congresso una maggioranza democratica.
“Il regime è più debole che mai”, dice. “Ha bisogno di supporto esterno anche solo per fornire alla popolazione i beni essenziali. Tutto ciò che vogliamo è vedere la democrazia a Cuba”.
Il tipo di intervento proposto da Giménez e dai suoi alleati è rischioso. Di solito i regimi totalitari falliti non lasciano il posto a democrazie, ma a stati mafiosi. Ma lui è convinto che lasciare Cuba nelle condizioni attuali sarebbe peggio: “È come aver tirato i dadi e aver fatto tre. Possiamo rilanciare e magari uscirebbe due, peggiorando le cose? Sì, è possibile. Ma possiamo anche avere un risultato migliore”, continua. “La mia speranza è che la diaspora intervenga quando sarà il momento. In ogni fase della transizione dev’esserci un piano per mantenere l’ordine sull’isola. Qui abbiamo le risorse per aiutare”. Riconosce che affamare il regime provocherebbe sofferenze al popolo cubano, ma aggiunge: “A volte, se hai un cancro e vuoi curarti, devi soffrire”.
Trump e il segretario di stato Marco Rubio, figlio di immigrati cubani, hanno lasciato intendere che prenderanno ulteriori misure per “promuovere la libertà a Cuba”. Ma Ric Herrero, direttore del Cuba study group, un’organizzazione che sostiene il dialogo con l’isola, dubita che l’amministrazione farà di più che mostrare fermezza a parole. A parte le sanzioni contro Gaesa, la Casa Bianca non si è impegnata molto per cambiare lo status quo. Ha imposto sanzioni ai funzionari dei paesi che impiegano medici cubani, per esempio, ma non ha interrotto i voli verso l’isola, perché sono popolari tra i cubano-statunitensi. “Per Rubio Cuba non è una priorità”, dice Herrero. “Il suo obiettivo numero uno è dimostrare che lui e il presidente sono perfettamente allineati”.
Giménez è fiducioso di poter spingere l’amministrazione ad agire quando arriverà il momento. Mi racconta di aver incontrato Kristi Noem, segretaria per la sicurezza interna, e di averle chiesto misure più severe contro Cuba. “È stata disponibile e ha ascoltato, ma è molto impegnata”, spiega. “Nessuno sta guardando da questa parte dell’emisfero. Ci sono altre priorità”.
Un incubo a occhi aperti
È dai tempi del crollo dell’Unione Sovietica che chi lo critica prevede la fine del regime dell’Avana. Ma l’ultima volta che sono andato nel paese la situazione mi è sembrata insolitamente precaria, come se la convergenza di miseria, inefficienza e declino fosse ormai impossibile da ignorare.
La recente ondata migratoria ha causato un’imponente fuga di cervelli
Cuba soffre di molti problemi cronici, ma il più grave è che la sua economia non riesce a soddisfare i bisogni della popolazione. Dopo essersi dimesso da presidente nel 2008, Fidel Castro ammise con rara franchezza l’incapacità del suo governo di gestirla: “Il modello cubano non funziona più neanche per noi”. Castro era rimasto al potere per 49 anni. Il fratello Raúl prese il posto per altri nove, e dal 2019 il potere è nelle mani di un loro protetto, Miguel Díaz-Canel. Nessuno è riuscito a invertire la rotta.
Cuba, che un tempo era tra i maggiori produttori mondiali di zucchero, ha lasciato deteriorare la sua base agricola al punto che oggi deve importare zucchero grezzo. La rete elettrica è al collasso, con frequenti blackout di varie ore che colpiscono tutto il paese. Quasi tutta la benzina è importata, il che la rende costosa e difficile da reperire; in molte zone rurali, biciclette e carretti trainati da cavalli hanno sostituito le auto. La vita è particolarmente dura per i pensionati, che ricevono circa sei dollari al mese, appena il 5 per cento di quanto servirebbe per sopravvivere. All’Avana i mendicanti sono ovunque.
Lo scrittore cubano Leonardo Padura mi ha detto: “Il sogno della rivoluzione si è trasformato in un incubo a occhi aperti”. Padura, settant’anni, è la voce di una generazione che ha combattuto la guerra in Angola e ha vissuto le privazioni seguite al crollo sovietico. Il suo ultimo romanzo, Come polvere nel vento, riflette quel senso di spossessamento. “Non c’è luce in fondo al tunnel”, ha commentato. “Non si vedono nemmeno le pareti del tunnel”.
La recente ondata migratoria ha causato un’imponente fuga di cervelli. La maggior parte di chi è partito è giovane e istruito, e ha deciso di scappare da un paese dove lo stipendio medio di un professionista qualificato non supera i 30 dollari al mese.
Una mia amica cubana, Dolores, ex psicologa infantile oggi ottantenne, vive grazie alle rimesse dei due figli che abitano in Florida. “Siamo rimasti solo noi vecchi”, mi ha detto con una risata stanca. Un tempo sostenitrice della rivoluzione, oggi passa buona parte delle sue giornate resolviendo, cioè cercando di soddisfare i bisogni quotidiani, come fanno molti cubani: trovare benzina per la sua vecchia Lada, se il distributore vicino ne ha; pagare qualcuno per tenerle il posto in fila, che può durare giorni; andare in uno degli agromercados statali a comprare verdura, se un amico la avvisa che è arrivato qualcosa di buono. Se non hai un generatore, come la maggior parte delle persone, il cibo si guasta in fretta e le serate le passi al buio; senza un ventilatore, dormire è quasi impossibile.
Fino a pochi anni fa Cuba era considerata uno dei paesi più sicuri dell’emisfero occidentale. Oggi le aggressioni, le rapine e gli omicidi sono in aumento. Ladri, a piedi o in moto, strappano i telefoni di mano ai turisti distratti. Altri si muovono con più astuzia, come all’aeroporto dell’Avana, dove hanno escogitato un sistema ingegnoso. Un visitatore abituale mi ha raccontato di aver preso un taxi e di aver ricevuto un servizio insolitamente attento: un facchino lo aveva fatto accomodare sul sedile anteriore e aveva caricato le valigie nel bagagliaio; all’arrivo l’autista gliele aveva restituite. Solo più tardi aveva capito che un complice nascosto nel bagagliaio aveva rovistato tra le sue cose, rubandogli qualche migliaio di dollari in contanti.
I funzionari cubani attribuiscono spesso le difficoltà economiche del paese all’embargo commerciale imposto dagli Stati Uniti nel 1962, dopo che Castro aveva cominciato a espropriare le aziende statunitensi. Ma molti problemi dell’isola sono di natura interna. Nel 2021 il presidente Díaz-Canel ha cercato di allentare il controllo statale sull’industria, permettendo la nascita di una nuova categoria di imprese. Ma i conservatori del Partito comunista, per paura di perdere il controllo a favore del settore privato, hanno irrigidito le norme. Anche i militari che gestiscono Gaesa, la holding statale, hanno reagito con ostilità alla concorrenza e centinaia di aziende sono state punite per presunte irregolarità. Un’inchiesta del Miami Herald ha rivelato che Gaesa dispone di circa diciotto miliardi di dollari in contanti, molto più del governo civile. Un importatore ben introdotto mi ha raccontato che la banca cubana dove teneva i suoi risparmi li ha prestati allo stato, e non è riuscito a recuperarli. Alcuni osservatori temono che, se il governo si indebolirà ulteriormente, l’esercito potrebbe muoversi per consolidare il suo potere.
Segnali di fragilità
A giugno una giovane giornalista cubana, Delia Proenza, ha pubblicato un articolo e un video denunciando le condizioni del paese. “È dura, e la cosa peggiore è che non se ne vede la fine”, ha scritto. “Quello che sopportiamo da tempo non è vita: con queste terribili ondate di caldo e senza elettricità per gran parte della giornata non si può essere sicuri di avere da mangiare né di poter dormire. Ciò di cui abbiamo bisogno non sono altre spiegazioni, ma soluzioni concrete”.
Proenza lavora per Escambray, un giornale controllato dal Partito comunista, quindi ha usato la consueta ambiguità del linguaggio ufficiale cubano. Ma le critiche pubbliche al governo restano rare e le sue parole sono diventate virali online. Alcuni hanno ipotizzato che avesse ricevuto un tacito permesso per parlare, forse come valvola di sfogo o per spostare la colpa sui funzionari locali. Nonostante l’apparente compattezza, il partito è attraversato da fazioni spesso in conflitto.
“Per decenni la comunità dell’esilio a Miami è esistita in opposizione a Cuba”
Un altro segnale di fragilità è arrivato a luglio. Durante una sessione parlamentare la ministra del lavoro e della sicurezza sociale, Marta Elena Feitó Cabrera, ha detto: “A Cuba non ci sono mendicanti. Ci sono persone che fanno finta di esserlo per guadagnare soldi facili”. La reazione pubblica è stata furiosa: la ministra si è dimessa, mentre Díaz-Canel ha esortato i suoi funzionari a non “avere un atteggiamento paternalistico verso il popolo” e a non “essere scollegati dalla realtà”.
Durante la mia visita, il giornale del partito ha pubblicato un messaggio rassicurante del presidente: “Nonostante le macchinazioni dei nostri avversari, supereremo le difficoltà”. Un editoriale celebrava il compleanno di Karl Marx ed esaltava il suo genio per “aver saputo sintetizzare come nessun altro quel meccanismo complesso che è il capitalismo e, dopo averlo capito, aver spezzato l’incantesimo su chi ne era stato sedotto e sfruttato”. Dopo 66 anni di governo autoritario, l’unica cosa che il regime cubano continua a offrire alla popolazione, ormai sempre più ridotta, è la stessa di sempre: ovunque i cartelloni proclamano “continuità”.
La disputa tra Miami e L’Avana, con il suo interminabile elenco di vecchi torti, somiglia a una lite di famiglia che si trascina da anni. Una delle sorelle di Fidel e Raúl Castro, Juanita, per decenni ha denunciato i fratelli dall’esilio a Miami.
Il più combattivo tra i rappresentanti cubano-statunitensi della Florida, Mario Díaz-Balart, è il nipote della prima moglie di Fidel. Di recente su X ha chiesto “misure forti per togliere ossigeno al regime”. Ma Herrero, del Cuba study group, sostiene che sia puro opportunismo elettorale. Gli esponenti repubblicani anti-Cuba “sono guidati dalla propaganda e dal fare scena. Quando tutto il resto fallisce, dicono agli elettori della Florida che stanno ancora facendo pressione sul regime e promettono che lo ‘metteranno in ginocchio’. Non servono risultati: devono solo tenere la base abbastanza motivata da votare a novembre”.
Sorveglianza
María Elvira Salazar, deputata della Florida, ha abbracciato la causa di un rapper cubano, Eliéxer Márquez Duany. Noto come el Funky, Márquez è uno degli interpreti di Patria y vida, la canzone diventata l’inno delle proteste del 2021. Dopo la repressione, i rapporti con il governo sono diventati più tesi e così, quando è stato invitato ai Latin grammy awards, è volato negli Stati Uniti e non è più tornato indietro. Márquez è diventato un sostenitore di Trump – “se potessi votare, voterei per lui”, ha detto a Politico – e una celebrità per la diaspora di Miami. Tuttavia la sua richiesta di soggiorno è stata respinta all’inizio di quest’anno e gli sono stati dati trenta giorni per lasciare il paese. Salazar è intervenuta presso le autorità federali dichiarando che “el Funky è un rifugiato politico che merita la piena protezione prevista dalla legge sull’immigrazione degli Stati Uniti”. Le autorità gli hanno permesso di restare.
Giménez ha lanciato un’iniziativa meno spettacolare di quella di Salazar, ma più ambiziosa. A marzo ha pubblicato una lista di 108 “repressori” – ex funzionari del Partito comunista, giudici, pubblici ministeri, agenti dei servizi segreti e dell’intelligence – che vivono negli Stati Uniti. Ha anche scritto a Kristi Noem chiedendo che fossero espulsi. Un mese dopo il dipartimento per la sicurezza interna ha annunciato l’arresto a Miami di uno di loro, Daniel Morejón García. Giménez ha diffuso un messaggio trionfante: “È da tempo che denuncio l’ingresso nel nostro paese, con false credenziali, di agenti del regime comunista cubano che vivono tra noi e nascondono il loro oscuro passato”.
Le persone nella lista di Giménez sono state identificate dal progetto Represores cubanos, un gruppo di investigatori dilettanti affiliati a una ong di Miami chiamata Foundation for human rights in Cuba. Alcuni sono stati trovati quasi per caso, riconosciuti da altri cubani per strada, al supermercato o in foto sui social media. Altri sono stati rintracciati dopo indagini più lunghe. Ho contattato uno dei membri del gruppo, Maikel Bencomo, che ha accettato d’incontrarmi a Hialeah, una città popolare della grande Miami, in un parco accanto alla nuova Donald J. Trump avenue.
Bencomo, 44 anni, indossa orecchini di diamante, anelli d’oro e occhiali da sole che non si toglie mai. Mi racconta di essere cresciuto a Las Cañas, un piccolo paese agricolo alle porte dell’Avana, “da sempre un luogo ribelle”. Nel 2014 è arrivato negli Stati Uniti e gli è stato concesso l’asilo politico, ma ha continuato a concentrarsi su Cuba, raccogliendo informazioni sul regime. Mi mostra il suo telefono e dice: “Mi dedico a pubblicare post sui repressori della mia città”.
Tra questi c’è appunto Morejón, responsabile di un impianto statale che produce mangimi per animali, era noto a Las Cañas come un teppista del regime, un tipo duro che frequentava la polizia locale. In un video girato durante le proteste del 2021 lo si vede mentre aggredisce un uomo sulla sessantina che stava guidando una moto accanto ai manifestanti: Morejón gli si avvicina e lo picchia fino a farlo cadere a terra. Dopo l’intervento di alcuni passanti per fermarlo, la polizia è arrivata e ha arrestato la vittima, insieme a due uomini e a due donne che avevano preso le sue difese. Morejón ha testimoniato contro di loro al processo. L’anno scorso si è unito all’esodo verso gli Stati Uniti e le persone che lo conoscevano hanno segnalato i suoi movimenti al progetto Represores. È stato arrestato.
I tribunali erano sommersi di richieste e la sua udienza è stata fissata tre anni dopo
Un lusso impensabile
In un elegante grattacielo a Coral Gables, nella contea di Miami-Dade, incontro Rolando Cartaya, responsabile del progetto Represores presso la Fondazione per i diritti umani a Cuba. Mi racconta che, prima di trasferirsi negli Stati Uniti, aveva lavorato per il quotidiano giovanile del Partito comunista, Juventud Rebelde. Cartaya ha organizzato una videochiamata su Zoom con altri due membri attivi del gruppo, Luis Domínguez e Samuel Rodríguez Ferrer. “I miei antenati combatterono per l’indipendenza di Cuba contro la Spagna”, mi dice Domínguez, 62 anni. “Si rivolterebbero nella tomba se vedessero cosa abbiamo lasciato succedere sulla nostra isola”. Mi spiega di aver imparato da solo le tecniche di sorveglianza online per rintracciare i repressori e mettere in difficoltà il regime. Ha usato Google earth per confermare che Díaz-Canel ha una piscina nel giardino di casa, un lusso impensabile sull’isola. E ha fondato un forum online, Secretos de Cuba, che rende pubbliche le accuse di malversazione tra l’élite del partito.
Il collega Ferrer, invece, è un testimone di Geova, una comunità perseguitata da tempo a Cuba. È stato arrestato prima di riuscire a emigrare via mare a metà degli anni novanta. Dopo le proteste del 2021 ha denunciato il governo sui social media e ha creato un’organizzazione chiamata Funds for the victims of communism (fondo per le vittime del comunismo) per raccogliere donazioni. Uno dei bersagli di Ferrer è stata Melody González Pedraza, una giudice cubana fermata mentre tentava di entrare negli Stati Uniti nella primavera del 2024. Aveva condannato quattro giovani a vari anni di carcere per aver lanciato molotov contro l’auto di un capo della polizia e contro la casa di un ufficiale dell’intelligence a Encrucijada, dove vive la famiglia di Ferrer. Lui sosteneva che fossero innocenti e che uno non si trovasse neanche a Cuba in quel momento.
Dagli Stati Uniti, González Pedraza ha detto di aver emesso la sentenza sotto le pressioni della sicurezza di stato cubana. In un’intervista, ha ricordato che durante un’udienza aveva definito il partito “un peso per la maggior parte dei suoi membri e una condizione necessaria per sopravvivere”, ma aveva aggiunto che opporsi ai suoi dettami “significa perdere ogni diritto, compreso quello di scegliere la propria professione”. Ferrer ha testimoniato contro di lei, citando i passaggi più duri della sentenza. La richiesta d’asilo di González Pedraza è stata respinta e lei è finita in un centro dell’Ice in Louisiana. Poi è stata espulsa. Secondo Ferrer se l’è meritato, perché ha “servito volontariamente un sistema ingiusto che ha incarcerato migliaia di cubani come prigionieri politici”.
Tra due estremi
Una sera incontro Aldo, sua moglie e i loro due figli piccoli nel modesto complesso residenziale dove vivono, a Hialeah. L’appartamento, poco più grande di una roulotte, ha una camera da letto e un lungo spazio stretto che funge da soggiorno, cucina, spazio giochi per i bambini e postazione computer. All’Avana Aldo lavorava come ricercatore; negli Stati Uniti ha trovato un impiego semplice in un campo del tutto diverso. Vive con la paura di essere rimandato a Cuba e incarcerato. Dai tempi dell’università, negli anni novanta, ha sempre frequentato ambienti dissidenti. Nel 2021 le forze di sicurezza cubane gli hanno ordinato di lasciare il paese, o sarebbe stato arrestato. Quando lui e la famiglia hanno attraversato il confine, gli agenti lo hanno portato in un ufficio dell’Ice per essere interrogato. Ha cercato di spiegare i motivi della fuga, ma gli ufficiali gli hanno detto di stare zitto: avrebbero fatto loro le domande.
A Miami ha trovato un avvocato e ha presentato domanda d’asilo. Ma i tribunali erano sommersi dalle richieste: la sua udienza è stata fissata più di tre anni dopo. Quando è arrivata la data, lo scorso maggio, Trump era tornato alla Casa Bianca e il clima era più ostile. Aldo ha portato con sé un fascicolo pieno di prove delle persecuzioni subite. L’udienza lo ha turbato: “Mi hanno fatto domande del tipo: ‘Se Cuba è un regime totalitario, come sostiene, com’è riuscito a laurearsi?’”. Ha spiegato che le sue azioni, stampare volantini contro il governo e organizzare concerti di protesta, erano state concepite per essere difficili da dimostrare. Sta ancora aspettando di sapere se i funzionari gli hanno creduto. “Il mio problema, come quello di molti altri cubani, è che siamo stretti tra due estremi”, dice. “L’amministrazione Biden era un estremo. Li abbiamo implorati di risolvere la mia situazione, ma non è successo nulla. Poi è arrivato Trump dall’altro estremo e ha ordinato all’Ice di raggiungere una quota. Ma se chiedi a un’agenzia come l’Ice di rispettare una quota, che a quanto pare è di tremila persone al giorno, è ovvio che non stai facendo giustizia”.
Gli alligatori
Quest’estate Trump ha guidato una delegazione in visita ad Alligator Alcatraz, un centro di detenzione per migranti in costruzione nelle Everglades, nel sud della Florida. La struttura, situata su una pista d’atterraggio nella Big cypress national preserve, è costata quasi mezzo miliardo di dollari, ma è stata costruita in fretta. I dormitori sono grandi tende riempite di gabbie di rete metallica, simili a canili. Il centro è stato progettato per ospitare cinquemila detenuti nel mezzo di una palude infestata dalle zanzare.
Per i cubani il richiamo è evidente. Alla fine dell’ottocento, durante la guerra d’indipendenza contro la Spagna, il governo coloniale internò migliaia di sospetti ribelli nei reconcentrados, dei campi di concentramento. Le condizioni erano brutali e c’erano insetti portatori di malattie. Per Trump, i pericoli di quel luogo sembravano eccitanti: “I serpenti sono veloci, ma gli alligatori lo sono di più”, ha detto ai giornalisti. “Gli insegneremo”, ai detenuti, “come scappare da un alligatore. Non correte in linea retta, no: così” e faceva gesti a zig-zag con le mani. “E sapete la verità? Le vostre probabilità di sopravvivere sono dell’1 per cento”.
La settimana successiva ho guidato verso ovest, da Miami al golfo del Messico, il golfo d’America di Trump. Oltre l’ultima fila di centri commerciali e villette cominciavano le Everglades: un’immensa distesa di paludi subtropicali. Nella riserva indiana dei miccosukee sono passato davanti a baracche da cui partivano escursioni per vedere gli alligatori. Con me c’era Thomas Kennedy, analista politico della Florida immigrant coalition. Ha 34 anni, è figlio di argentini arrivati con un visto turistico e poi rimasti. Dopo aver passato gran parte dell’infanzia come immigrato senza documenti, ha preso la cittadinanza e ha dedicato la vita alle questioni migratorie. Pochi giorni prima aveva accompagnato un gruppo di deputati democratici che avevano tentato di ispezionare Alligator Alcatraz. “Gli hanno detto che non avevano il diritto di entrare, anche per la loro sicurezza”, ha raccontato Kennedy. Uno dei parlamentari aveva fatto notare che lo aveva visitato il presidente degli Stati Uniti, ma gli agenti non avevano cambiato idea. Mentre la strada penetrava sempre più nella Big cypress preserve, sono comparsi i cartelli che indicavano l’ingresso della prigione. Ci siamo fermati davanti a un posto di blocco sorvegliato da due agenti armati con giubbotti antiproiettile. Uno ci ha detto che i visitatori non autorizzati non potevano entrare, ma era disposto a parlare qualche minuto con noi. Aveva il viso arrossato dal caldo: ha ammesso che non era il luogo più confortevole dove stare di guardia. “Ma non posso lamentarmi”, ha aggiunto. “Ho acqua, crema solare e repellente per gli insetti”.
I detenuti erano trattati peggio. Kennedy era in contatto con una cubana il cui figlio, asmatico grave, era stato tenuto ad Alligator Alcatraz per una settimana e trasferito solo quando le sue condizioni erano peggiorate. Un altro cubano, con emorroidi acute, era stato operato e subito rimesso in detenzione, nonostante il dolore costante. Kennedy ha spiegato che i casi di abuso si accumulavano: un ragazzo di quindici anni era stato trattenuto per una settimana prima che qualcuno si accorgesse che era minorenne; un altro, in sciopero della fame, era stato incatenato sulla pista d’atterraggio per ore sotto il sole.
All’ingresso, alcuni furgoni con i vetri oscurati consegnavano nuovi detenuti. Kennedy ha indicato un punto della palude dove, durante una visita precedente, aveva visto degli alligatori. Il carcere era destinato a migranti con precedenti penali, ma secondo il Miami Herald solo un terzo dei detenuti aveva commesso reati negli Stati Uniti. Kennedy ha sottolineato che Alligator Alcatraz esisteva in un limbo giuridico: il dipartimento per la sicurezza interna, l’Ice e lo stato della Florida si rimbalzavano la responsabilità. “Gli avvocati non sanno a chi rivolgersi per presentare i ricorsi”, ha detto. “È un campo di concentramento. Opera fuori da qualsiasi quadro legale e le persone rimangono intrappolate in una zona grigia senza via d’uscita”.
Più tardi mi ha presentato Betty Osceola, un’attivista miccosukee tra le voci più forti contro il centro. Osceola mi ha spiegato che gli abusi nel carcere sono evidenti, ma nessuno al potere sembra interessarsene: “Cerco di sensibilizzare la gente, anche i deputati locali. Purtroppo in Florida e nel resto degli Stati Uniti il clima è talmente avvelenato che, se parli solo dei problemi umani, non ti ascoltano”. Così, lei e i suoi alleati hanno cominciato a sollevare questioni ecologiche. Il carcere era stato costruito nel mezzo di una riserva nazionale senza nessuno studio d’impatto ambientale. “Quello che stanno facendo alle persone lì dentro non è giusto, ma stanno danneggiando anche le pantere, le cicogne e le lucciole, a causa dell’inquinamento luminoso”, ha detto. Sembrava stupita che il governo avesse potuto anche solo cominciare i lavori: “Se fosse stato un altro gruppo o un privato, li avrebbero arrestati”. Ad agosto un giudice ha ordinato di sgomberare il carcere per motivi ambientali. Mentre DeSantis lo definiva “un giudice attivista che vuole fare politica dal tribunale”, lo stato ha presentato ricorso ottenendo la sospensione della sentenza. I detenuti, però, sono stati trasferiti in altre strutture.
Senza futuro
Da Miami, parlo al telefono con una delle donne arrestate a Las Cañas dopo l’incidente con Morejón. Alina, come chiede di essere chiamata, ha 55 anni, una figlia e un figlio adulti. Ha scontato tre anni di lavori forzati, tra una piantagione di banane e le pulizie in un ufficio. Descrive Morejón come “un essere umano spregevole”, e non crede che abbia pagato per i suoi crimini né per il tentativo di fuga negli Stati Uniti. È tornato a Las Cañas. “Abbiamo sentito che gli affideranno un negozio accanto al mattatoio”. Dopo le proteste del 2021 a Las Cañas è stata costruita una nuova stazione di polizia, e gli agenti pattugliano spesso il quartiere. “Vogliono mandare il messaggio che, se qualcuno pensa di nuovo di fare qualcosa del genere, finirà in prigione per molto tempo”, conclude.
Quest’estate l’agenzia statale delle telecomunicazioni ha aumentato i prezzi del traffico internet, una decisione interpretata come un tentativo di frenare il flusso d’informazioni. Durante la detenzione di Alina, la figlia si è occupata della casa mentre studiava biomedicina; il figlio frequentava agraria. Entrambi sono poi fuggiti dal paese. Tutti i giovani se ne vanno, dice Alina: “Non c’è futuro qui, quindi partono. Vanno in Brasile, nella Repubblica Dominicana, in Uruguay, ovunque tranne che negli Stati Uniti”.
Durante il processo di Alina, Morejón aveva rivelato di appartenere alle brigate di risposta rapida del regime, una forza in borghese spesso impiegata contro i manifestanti. Ad agosto Trump ha firmato un ordine esecutivo per creare un’entità molto simile: una forza di risposta rapida della guardia nazionale per sedare i disordini civili. Una clausola dell’ordine consente agli “statunitensi con esperienza nelle forze dell’ordine o in altri ambiti rilevanti” di arruolarsi tramite un portale online, creando di fatto una milizia composta da veterani ed ex poliziotti fedeli a Trump.
Joe Garcia parla con amarezza del declino politico su entrambe le sponde dello stretto di Florida: “Diciamolo chiaramente: sia L’Avana sia Miami stanno morendo”, afferma. “Per decenni la comunità dell’esilio a Miami è esistita in opposizione a Cuba. Ma ora? Cosa rappresenta Cuba oggi? Niente. Almeno prima c’era Fidel, una figura mitica. Oggi Cuba è una nazione fallita. E lo è anche questa città, costruita sull’idea di libertà e di rifugio per chi scappa dalla persecuzione. Tutto questo è svanito”.
Durante il mio soggiorno all’Avana ho visitato il centro Fidel Castro Ruz, il museo dedicato al defunto leader cubano. Si trova in una villa sfarzosa vicino alla Torre K23, che un tempo apparteneva a una delle famiglie più ricche dell’isola. Una guida stava accompagnando un gruppo di donne di mezza età attraverso le sale. Erano affascinate da ogni cosa. In una stanza si sono fermate davanti a una vetrina che esponeva le armi e le uniformi di Castro. Più avanti, una mappa elettronica mostrava i paesi visitati dal jefe máximo; un’altra quelli che aveva “aiutato” militarmente, come il Vietnam, l’Angola e il Nicaragua. C’era anche una selezione di libri su di lui in varie lingue, per presentarlo come una figura di rilievo mondiale. A metà della visita si è unito al gruppo il ministro del lavoro cubano, che si è fermato a parlare con le donne per qualche minuto. Ho scoperto che erano dipendenti statali premiate per il buon rendimento con un viaggio all’Avana. Era difficile non pensare che il loro impiego pubblico gli avrebbe impedito di entrare negli Stati Uniti, se avessero cercato di scappare. Ma a Cuba, nonostante le privazioni sopportate, la loro fedeltà gli è valsa un incontro con un ministro della rivoluzione. ◆ svb
Jon Lee Anderson è un giornalista statunitense. Dal 1999 scrive per il New Yorker. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Che. Una vita rivoluzionaria (Feltrinelli 2017).
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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati
 
			 
	                 
	                 
	                 
            