Nel settembre del 2020, il calciatore uruguayano Luis Suárez si è presentato all’università per stranieri di Perugia per sostenere un esame d’italiano. Questo difficile test di conoscenza della lingua – un requisito indispensabile per chiunque aspiri alla cittadinanza italiana – è stato introdotto nel 2019 da Matteo Salvini, il leader della Lega, un partito di estrema destra ostile ai migranti, quando era ministro dell’interno. Suárez è stato promosso. Circolava la voce che stesse per firmare con la Juventus, il club più grande d’Italia, vincitore del campionato di serie A per nove anni di fila. La Juventus aveva già ingaggiato il massimo numero consentito di calciatori extracomunitari, perciò per entrare in squadra Suárez aveva bisogno di un certificato d’italiano di livello B1. Qualcuno sosteneva che l’esame fosse stato truccato e la magistratura ha aperto un’indagine. In una dichiarazione, il procuratore capo di Perugia ha affermato che gli argomenti dell’esame “erano stati preventivamente concordati con il candidato e il punteggio attribuito prima ancora del suo svolgimento”. Le intercettazioni telefoniche della polizia sono arrivate alla stampa. In una conversazione intercettata, la professoressa di linguistica che aveva seguito Suárez ammetteva che “non spiccica una parola di italiano”, ma “sarà promosso, perché non possiamo bocciare una persona che guadagna dieci milioni di euro l’anno”. In seguito, la docente ha postato su Twitter una sua foto insieme al calciatore, affermando che essere la sua insegnante era stato un “piacere”. Le indagini continuano, ma l’esito non avrà alcuna importanza per Suárez, che ha firmato con l’Atlético Madrid.
La vicenda ha fatto scalpore solo perché il protagonista era una star del calcio mondiale. Io ho vissuto in Italia per vent’anni, giorno più giorno meno, e anche se non ho mai lavorato a tempo pieno in un’istituzione italiana ho avuto abbastanza a che fare con le sue università da non sorprendermi per le accuse di corruzione nel caso Suárez. Per fare carriera in un’università italiana bisogna affiancare assiduamente un professore ordinario, di solito un uomo, di solito di una certa età. Questi personaggi immensamente potenti sono noti come baroni, e possono essere di destra o di sinistra. Tutti gli incarichi e gli altri privilegi passano per le mani dei baroni: senza un barone dalla vostra parte potete anche gettare la spugna. In genere all’università le docenze sono assegnate con un concorso pubblico aperto a chiunque abbia le qualifiche necessarie. La mia non è una critica alla qualità della ricerca o delle persone che lavorano nelle università, ma in pratica di solito i concorsi sono manovrati. Sono concepiti in funzione di una sola persona, di solito un candidato interno, che aspetta quel particolare concorso da anni. Il nuovo ricercatore o professore associato deve il suo lavoro al barone, e gli resterà fedele. Con il tempo e un po’ di fortuna, i nuovi arrivati potranno a loro volta diventare baroni. Il contrasto tra le regole ufficiali e la loro applicazione è una caratteristica tipica dell’Italia. Queste reti di potere e clientelismo sono state studiate anche dagli antropologi: in alcune facoltà dell’università di Bari, per esempio, le reti di rapporti familiari e parentali si estendono per generazioni. Le controversie e le divisioni spesso ruotano intorno ai baroni principali. In un’università sono stati creati due dipartimenti autonomi ma sostanzialmente identici intorno a due studiosi potentissimi ed enormemente influenti.
Molti accademici rimangono nella stessa università dove hanno studiato (e che spesso ha sede nella loro città natale). Studiano argomenti che in genere sono legati alla regione in cui si trovano: gli storici che lavorano in un’università di Firenze hanno una buona probabilità di specializzarsi in storia fiorentina e così via. Non esiste un sistema che regoli l’attribuzione di periodi sabbatici, perciò le opportunità di fare ricerca all’estero, o anche solo fuori dalla propria università, sono poche. Trasferirsi, tagliare i legami con l’istituzione madre equivale a un suicidio per la carriera.
Un accademico affermato usa spesso un giovane ricercatore per fare il lavoro che non ha avuto il tempo o la voglia di portare a termine di persona. Tu continui a restare lì, con la testa bassa, sapendo che i meriti del tuo lavoro saranno attribuiti ai grandi professori, fino a quando arriverà il momento tanto atteso e sarai ricompensato con un incarico assegnato tramite concorso. Ma anche dopo dovrai porgere i tuoi rispetti al barone in ogni occasione favorevole, organizzare eventi speciali in suo onore e citarlo continuamente nel tuo lavoro.
L’ultimo romanzo di Tim Parks, Italian life: una fiaba moderna di amori, tradimenti, speranze e baroni universitari (Rizzoli 2021), racconta l’università italiana, un settore in cui l’autore ha lavorato per più di vent’anni. Sarebbe facile identificare Parks con il suo antieroe, James, che osserva il caos e la corruzione intorno a sé ma fa ben poco per cambiare le cose. Parks anticipa questo accostamento nel prologo, intuendo che il lettore dirà “questo è Parks”, e aggiunge di aver mescolato realtà e fantasia. Il dipartimento descritto da Parks è presieduto dall’orribile, pomposo Beppe Ottone, ma il vero disprezzo di Parks è riservato alla tirapiedi di Ottone, Bettina Modesto, che è un esempio di promozione per niente meritocratica: la sua carriera non ha nulla a che vedere con il talento accademico, ma solo con la sua capacità di tessere rapporti sociali e la sua incrollabile fedeltà a Ottone.
In un passaggio feroce, un’aula di studenti e colleghi è costretta ad ascoltare, ed elogiare, la terribile prolusione tenuta da Modesto all’inaugurazione dell’anno accademico:
Modesto bevve un sorso d’acqua, spostò il peso da un tacco all’altro, annunciò “quindi, per concludere” per la terza volta e si lanciò in un’altra frase tanto lunga quanto informe e insulsa. Le parole “mise-en-scène” lacaniana fenderono l’aria. James era smarrito, ma anche sbalordito. Fosse stato un pubblico di individui liberi e indipendenti, si sarebbe sbellicato dalle risate. In effetti, un bel numero di studenti se la stava svignando. La pesante tenda nera che dava sul retro si agitava di continuo, spostata da mani impazienti. Ma i professori erano costretti a rimanere seduti in un silenzio solenne, mentre Modesto annunciava di essere arrivata alla conclusione per la quarta volta, senza concludere.
Dopo di che, un eminente politico e “vecchio amico” di Ottone, invitato per l’occasione, la ringrazia per “l’eccellente analisi dell’odierna immagine dell’Italia nel mondo. Devo dire che raramente si sentono discorsi di questo livello al senato”.
Parks è molto bravo nel cogliere il tribalismo e le peculiarità della realtà italiana. I suoi libri precedenti descrivevano gli ultrà del calcio, le ferrovie e molto altro. Qui mostra con grande abilità come la vita universitaria – conferenze, lezioni, progetti di ricerca – sia concepita per rafforzare le strutture di potere esistenti e assicurare onori a chi si trova in una posizione di autorità. Un esimio accademico italiano una volta mi chiese di “venire a parlare” ai suoi studenti. L’incontro sarebbe dovuto durare tre ore. Lui parlò per due ore e tre quarti, chiamandomi “Foot” quando di tanto in tanto si voltava o faceva dei gesti nella mia direzione. Io dovevo solo annuire o sorridere con aria d’intesa. Concluse chiedendo se c’erano domande o “contributi”, ma non c’era più tempo. In un’altra occasione fui invitato a visitare un dipartimento universitario. Vari professori mi fecero accomodare in piccoli studi traboccanti di libri. Uno dopo l’altro, m’impartirono delle mini-conferenze sul mio ultimo libro. Ci misi un po’ a rendermi conto di cosa stava succedendo. Si collegavano alla mia ricerca, s’inserivano nella mia storia. Alla fine della visita organizzarono una “presentazione” del libro a cui partecipò l’intero dipartimento. Per alcuni docenti si rivelò un’ottima occasione per criticare ferocemente il mio lavoro mentre io ero seduto tra il pubblico. Stavo quasi per andarmene. Ma sostenni l’attacco con stoicismo. Sembravano tutti deliziati.
Ho avuto esperienze simili girando le università italiane per presentare il mio libro sui movimenti della psichiatria radicale degli anni sessanta e settanta, che trasformarono l’assistenza ai malati psichiatrici in Italia. Sul palco prendeva posto un nutrito gruppo di esperti, prevalentemente o interamente maschile, per lo più in giacca e cravatta. Un personaggio autorevole (un politico, uno psichiatra o un accademico) diceva “qualche parola” e poi spariva per “altri impegni”. Ben pochi avevano aperto il libro, e tanto meno lo avevano letto, tranne che per controllare se c’era il loro nome nell’indice. Molti approfittavano dell’occasione per illustrare il loro ruolo nel “movimento”. Alcuni erano furibondi perché non li avevo citati (gli indici analitici possono essere pericolosi). Nessuno nel pubblico aveva mai l’opportunità di parlare. Dopo ci sarebbero stati un pranzo o una cena fantastici, ottimi vini, e tutti avrebbero potuto rilassarsi e spettegolare.
Nel suo romanzo Tim Parks mostra con grande abilità come la vita universitaria sia concepita per rafforzare le strutture di potere esistenti
Nessuno ha colpa per questo genere di tradizione: è l’istituzione che non va, non gli individui che ci lavorano. Nel 1968, gli studenti cercarono di cambiare le cose. Occuparono l’università, organizzarono dei contro-corsi, chiesero l’abolizione degli esami. A Torino, il carismatico leader studentesco Guido Viale prese a schiaffi un professore e si mise in piedi sulla sacra cattedra dell’aula magna per arringare i compagni dell’occupazione. Si ottennero alcune concessioni. Gli esami diventarono pubblici, si poteva rifiutare un voto e sostenere di nuovo l’esame, fu liberalizzato l’accesso a tutte le facoltà. Ma l’istituzione in quanto tale non fu riformata. Le gerarchie non sono mai state messe davvero in discussione. Le università sono rimaste esamifici (come le scuole). Il “voto politico” degli anni settanta, quando i professori davano a tutti lo stesso punteggio per “appianare” le disuguaglianze sociali e istituzionali, fu un esperimento di breve durata.
Ovviamente non tutti stanno al gioco dell’istituzione. Franco Basaglia aveva passato molti anni come assistente all’università di Padova, ma era considerato troppo radicale per fare carriera. Nel 1961 accettò l’incarico di direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, al confine con la Jugoslavia. All’epoca per gli psichiatri più ambiziosi un lavoro del genere significava un fallimento. Quando si sedette per la prima volta alla scrivania nell’ospedale di Gorizia, gli portarono dei documenti da firmare, tra cui alcuni moduli che autorizzavano il personale a legare al letto i pazienti. Le autorizzazioni erano a posteriori. Con grande sorpresa di tutti, Basaglia non firmò.
Diciassette anni dopo l’Italia diventò il primo paese a emanare una legge che ordinava la chiusura di tutti i grandi ospedali psichiatrici. Ma erano tempi diversi. Un uomo come Basaglia non diventerebbe mai il pezzo grosso di un’università.
Parks sa che gran parte della vita universitaria è teatro, forse soprattutto in Italia, e che l’apice è rappresentato dalla discussione della tesi. I professori in toga sono seduti dietro la cattedra in una piccola aula. Uno studente sta appollaiato su una sedia davanti a loro. Familiari e amici sono raggruppati in uno spazio riservato agli spettatori. Forse sì e no uno dei professori ha veramente letto la tesi (potrebbe anche non essere la persona designata come relatore del candidato), ma sono tutti provvisti di una copia rilegata. C’è una rapida presentazione della tesi da parte dello studente, qualche domanda. Poi lo studente e il suo gruppo escono dall’aula. A questo fa seguito una discussione privata che in realtà è un gioco di potere. Tutti gli studenti sono promossi, perciò il dibattito riguarda solo il voto finale. Il massimo è 110 e lode, e questo riconoscimento ha spesso a che fare più con la politica interna della facoltà che con la qualità del lavoro dello studente. Ben presto tutti vengono richiamati nell’aula. Se i professori sono in piedi significa che è un 110 e lode. Ci sono applausi, e poi tutti si riversano in un cortile spesso magnifico. Si apre il prosecco, si depone una corona di alloro sulla testa del neolaureato. A volte gli amici cantano un motivetto: “Dottore! Dottore! Dottore del buco del cul, vaffancul, vaffancul”.
Una volta ho esaminato una tesi di dottorato in un’università dell’Italia centrale, una delle più antiche e prestigiose del mondo. Mi è sembrato che, parlando con lo studente, i professori in realtà si rivolgessero al pubblico. Alcuni si erano preparati con cura, altri si erano limitati a scribacchiare qualche appunto sul retro della tesi. La prassi non prevede una relazione ufficiale. Per qualche motivo, il relatore dello studente cercò di abbassare il voto. Non capii perché. La spuntò, anche se lo studente non saprà mai per colpa di chi.
Poi andammo a un pranzo leggermente alticcio. Lavoro finito. Lo studente non aveva ambizioni accademiche e quindi, in un certo senso, il voto non importava. In ogni caso, come nel Regno Unito, i posti di lavoro degni di questo nome all’università sono quasi impossibili da trovare, soprattutto per le discipline umanistiche. La maggior parte degli studenti che ottengono il dottorato si metterà a fare altro invece di restare a lavorare gratis o con contratti a termine. Così il sistema rafforza il ruolo dei baroni, con un gran numero di aspiranti accademici che competono per un numero di cattedre sempre più esiguo.
Queste istituzioni possono cambiare? Di tanto in tanto scoppiano degli scandali, ci sono degli arresti, inchieste su casi come quello di Suárez. Ma finisce tutto nel nulla. Le regole non sono state violate. Si sono seguite quelle non scritte. I favoritismi e l’esercizio del potere non sono illegali o non possono essere dimostrati. Vale per il Regno Unito come per l’Italia. Ho visto tante volte eminenti professori del mio paese favorire i loro studenti nelle commissioni di nomina o per fargli ottenere delle borse di studio. Forse il potere sarà sempre in mano ai Beppe Ottone di questo mondo. ◆ gc
John Foot è uno storico britannico. Il suo ultimo libro è L’Italia e le sue storie 1945-2019 (Laterza 2019). Questo articolo è uscito sulla London Review of Books con il titolo Vaffanculo barone!
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1405 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati