Quando un paradigma scientifico crolla, gli scienziati devono fare un salto nell’ignoto. Come diceva il fisico e filosofo statunitense Thomas Kuhn negli anni sessanta, sono momenti rivoluzionari: una visione del mondo diventa indifendibile e le verità di una disciplina sono messe in discussione. Spiegazioni valide per secoli vengono accantonate. Le grandi rivoluzioni scientifiche – come quelle avviate da Niccolò Copernico, Galileo Galilei, Isaac Newton, Antoine-Laurent de Lavoisier, Albert Einstein e Alfred Lothar Wegener – sono fasi d’incertezza in cui la sola ragione, fredda e distaccata, non aiuta gli scienziati ad andare avanti, perché molte ipotesi sul funzionamento della loro disciplina si sono rivelate sbagliate. Quindi gli scienziati devono fare un salto senza sapere dove atterreranno. Ma come?

Il filosofo della scienza olandese Bas van Fraassen prova a spiegarlo nel suo libro del 2002 The empirical stance ispirandosi a Idee per una teoria delle emozioni di Jean-Paul Sartre, del 1939. Sartre era insoddisfatto delle teorie principali dell’epoca sulle emozioni, considerate semplici stati passivi. Sembrava che le emozioni accadessero senza alcun intervento da parte nostra. Invece secondo Sartre le emozioni sono intenzionali e hanno uno scopo. Per esempio quando ci arrabbiamo, lo facciamo per cercare una soluzione. Scrive Sartre: “Quando i sentieri davanti a noi diventano troppo difficili o quando non riusciamo a vedere la strada, non possiamo più sopportare un mondo così esigente e impegnativo. Tutte le strade sono sbarrate eppure dobbiamo agire. Allora proviamo a cambiare il mondo”.

Sartre si riferisce al mondo della nostra esperienza soggettiva, dei nostri bisogni, dei nostri desideri, delle nostre paure e speranze. Secondo lui, le emozioni trasformano il mondo come per magia. Così come gli incantesimi e le magie modificano i nostri desideri e le nostre speranze, anche le emozioni cambiano la nostra visione e il modo in cui interagiamo con il mondo. Prendiamo l’esempio dell’uva portato da Sartre: visto che l’uva è irraggiungibile, decidiamo che “è comunque troppo aspra”. Anche se non abbiamo modificato le proprietà chimiche dell’uva, il nostro mondo è diventato un po’ più sopportabile. Anticipando le teorie contemporanee sulla cognizione incarnata, Sartre ipotizza che le azioni fisiche ci aiutano a produrre emozioni. Stringiamo i pugni con rabbia. Piangiamo di tristezza.

Applicando questa tesi alla pratica scientifica, Van Fraassen sostiene che gli scienziati, quando si trovano davanti idee nuove e sconcertanti, attingono alle loro emozioni. Se il paradigma vacilla, devono cambiare il modo in cui vedono il mondo, quindi devono cambiare sia ciò che sono sia ciò che sanno. Solo dopo averlo fatto potranno accettare una teoria che credevano stravagante o ridicola.

Ma Van Fraassen non specifica quali emozioni possono aiutare gli scienziati. È sufficiente essere affascinati da una nuova teoria o esserne entusiasti o incuriositi? O essere arrabbiati per il fallimento del vecchio paradigma? E non è chiaro come gli scienziati possano usare le emozioni per cambiare idea. A volte Sartre sembra presumere che le emozioni siano sotto il controllo diretto della nostra volontà. Ma a prima vista questo sembra poco plausibile. Di certo non tutte le nostre emozioni sono sotto il nostro diretto controllo.

Un modo per salvare la tesi di Sartre e di Van Fraassen è proporre che le emozioni siano sotto il nostro controllo indiretto. Possiamo adottare pratiche che nel tempo ci aiutano a gestire il modo in cui rispondiamo emotivamente a una varietà di situazioni. Per quanto riguarda l’emozione che più di altre aiuta gli scienziati, io ne ho in mente una in particolare: lo stupore.

Nella loro teoria classica sullo stupore, gli psicologi statunitensi Dacher Keltner e Jonathan Haidt lo definiscono un’emozione spirituale, morale ed estetica. Tutti i casi evidenti di stupore hanno due componenti: un’impressione di vastità e un bisogno di adattamento cognitivo a questa vastità. Possiamo provare soggezione per le cose fisicamente grandi, ma anche per le idee concettualmente ampie.

Fuori dai soliti schemi

La necessità dell’adattamento cognitivo ci rende consapevoli che ci sono molte cose che non sappiamo. Ci sentiamo piccoli, insignificanti e parte di qualcosa di più grande. Lo stupore è un’emozione che trascende se stessa, perché allontana la nostra attenzione da noi e la dirige verso il nostro ambiente. È anche un’emozione epistemica, perché ci fa capire le lacune nella nostra conoscenza. Guardando il cielo notturno possiamo sentirci sopraffatti e consapevoli delle tante cose che ignoriamo sull’universo. I partecipanti a uno studio recente hanno citato la natura come il primo elemento verso cui provano un timore reverenziale, seguita dalle teorie scientifiche, dalle opere d’arte e dai risultati della cooperazione umana.

Una teoria scientifica non viene annunciata e accettata una volta per tutte

Secondo il filosofo canadese Adam Morton, le emozioni epistemiche svolgono un ruolo fondamentale nella pratica scientifica. Immaginate uno scienziato che conosca le ultime tecniche di ricerca e sia intelligente e analitico. Se gli mancano la curiosità, lo stupore e le altre emozioni epistemiche, non avrà la motivazione a diventare un bravo scienziato che può cambiare idea sulla base delle prove, esplorare nuove ipotesi o prendere in considerazione risultati inaspettati. Come sostiene Van Fraassen, per modificare il nostro campo di ricerca o accettare cambiamenti radicali in quel settore dobbiamo modificare la nostra visione del mondo. Lo stupore ci spinge a ragionare al di fuori dei soliti schemi mentali.

Nei loro scritti autobiografici molti scienziati hanno sottolineato che è stato proprio il senso di stupore a guidare il loro lavoro. Per l’ambientalista statunitense Rachel Carson lo stupore era una fonte di resilienza in tempi difficili. Riecheggiando la teoria delle emozioni di Sartre come fonte di rifugio, nel 1956 Carson insisteva sul fatto che dovremmo incoraggiare i bambini a mantenere e sviluppare il loro senso di stupore in modo che non diminuisca nel tempo.

L’evidenza empirica fa pensare che lo stupore svolga un ruolo anche nell’apprezzamento della scienza. Alcuni studi hanno aperto uno spiraglio sul rapporto tra stupore e scienza anche se non si concentravano sugli scienziati. Nel 2018 gli psicologi Dacher Keltner, Sara Gottlieb e Tania Lombrozo hanno scoperto che tra i non scienziati la tendenza a provare stupore è positivamente associata al pensiero scientifico. Nel loro studio, i partecipanti più propensi allo stupore mostravano una comprensione relativamente migliore della natura della scienza, erano più disposti a rifiutare il creazionismo e a respingere spiegazioni teleologiche infondate dei fenomeni naturali.

In uno studio recente ai partecipanti è stato mostrato un montaggio della serie tv della Bbc Planet Earth, che conteneva vedute di cascate, canyon, foreste e altri panorami mozzafiato. Ai partecipanti di un altro gruppo sono stati mostrati video divertenti di animali che facevano cose buffe. Le persone del primo gruppo, che hanno visto le immagini che stupivano per la loro bellezza, sono risultate più consapevoli delle lacune della loro conoscenza rispetto a quelle del secondo gruppo.

Antidoti

Questo fa pensare che lo stupore potrebbe essere utile per la pratica scientifica. Come possiamo evocarlo? Abraham Joshua Heschel, teologo e filosofo polacco naturalizzato statunitense, sostenne l’importanza dello stupore in due brevi libri: L’uomo non è solo, del 1951, e Dio alla ricerca dell’uomo, del 1955. Secondo Heschel, gli esseri umani danno il mondo per scontato, hanno perso la capacità di viverlo con profondità e rispetto. Abbiamo sviluppato una specie di autocompiacimento e pensiamo che la scienza possa risolvere tutti i problemi, senza soffermarci a riflettere sulle meraviglie che ci ha rivelato. “L’essere umano moderno è caduto nella trappola di credere che tutto può essere spiegato, che la realtà sia una cosa semplice che, per essere compresa, va solo organizzata”, scrive. Gli antidoti, secondo lui, sono lo stupore e la meraviglia. Per Heschel, come per Sartre, le emozioni sono una sorta di tecnologia cognitiva, qualcosa che facciamo in modo intenzionale per cambiare il mondo. Ma a differenza di Sartre, Heschel non crede che il principale effetto trasformativo delle emozioni sia di rendere sopportabile un mondo conflittuale. Per lui, invece, le emozioni possono farci vedere il mondo come qualcosa di prezioso in sé, pieno di meraviglie. Una conoscenza profonda come quella raggiunta dall’intuizione scientifica o, per Heschel, dalla saggezza religiosa, ci impone di vedere il mondo come un fine bello in sé. E per questo ci vuole lo stupore.

Come viene evocato? Heschel sostiene che i rituali ebraici favoriscono il timore reverenziale: ci sono formule che gli ebrei ortodossi pronunciano in occasioni particolari, per esempio quando vedono un arcobaleno, notano i primi fiori sugli alberi da frutto, incontrano una persona saggia o ascoltano una buona notizia. Queste benedizioni sono azioni fisiche che si compiono per sottolineare certi stati emotivi in risposta all’ambiente. La ripetizione di pratiche rituali allena la mente e il corpo a rispondere con stupore e meraviglia al mondo che ci circonda. Pronunciando una benedizione, diventi più consapevole di quanto sono preziose e fugaci queste cose. Per Heschel, i rituali non sono una forma di adattamento al mondo, ma al contrario esprimono un disadattamento: “Lo stupore e l’estrema meraviglia, lo stato di disadattamento a certe parole e concetti, è quindi il prerequisito per un’autentica consapevolezza di quello che è”. Concepiti in questo modo, i rituali ebraici sono un antidoto alla routine e aiutano a vedere il mondo sotto una nuova luce. Se da una parte è facile comprendere come i rituali possono aiutarci a infondere stupore verso la religione, non è altrettanto chiaro come possano ottenere lo stesso risultato nella pratica scientifica. Heschel era scettico sul fatto che gli scienziati potessero usare le pratiche rituali per stimolare lo stupore: “Una volta annunciata e accettata, una teoria scientifica non ha bisogno di essere ripetuta due volte al giorno”. Ma questo modo di liquidare la questione è troppo affrettato. L’aumento del negazionismo scientifico testimonia che una teoria non viene annunciata e accettata una volta per tutte. Anche una teoria a lungo screditata, come quella della Terra piatta, può riemergere sulla scia delle campagne di disinformazione.

Nella pratica scientifica alcuni elementi rituali contribuiscono a infondere stupore. Per esempio, gli scienziati che replicano un esperimento spesso si attengono fedelmente ai dettagli del protocollo iniziale. Ma in realtà, secondo il filosofo Nicholas Shea, “potrebbe non esserci un buon motivo per usare dieci millilitri di solvente invece di venti o cinque. Potrebbe essere solo il modo in cui è stato fatto la prima volta, e poiché ha funzionato nessuno si è preoccupato di verificare se la quantità poteva essere modificata. Alcuni esperimenti sono così difficili da realizzare nel modo giusto che le persone mostrano un’aderenza quasi religiosa al protocollo già noto”.

Un subacqueo davanti a due megattere, in Messico (Rodrigo Friscione, Getty Images)

Lo stupore svolge un ruolo importante nel lavoro di tutti i giorni, che Kuhn chiama la “scienza normale”, quando gli scienziati ritoccano le proprie opinioni, invece di cambiarle. Ma come ho suggerito all’inizio, lo stupore è particolarmente importante nella scienza rivoluzionaria, quando gli scienziati sono alle prese con idee e concetti nuovi. In questi casi i rituali danno un aiuto limitato.

Strada per la saggezza

Oltre al rituale c’è un altro modo per coltivare lo stupore. Possiamo sperimentarlo indirettamente, leggendo gli scritti di altri. Il filosofo Edmund Burke, che nel 1757 scrisse un’opera fondamentale sul sublime, osservava: “Ci sono molte cose la cui natura è particolarmente emozionante che di rado si verificano nella realtà, ma le parole che le rappresentano spesso lo fanno, quindi hanno l’opportunità di lasciare un’impressione profonda e di mettere radici nella mente, mentre l’idea della realtà è transitoria”.

Questo è rilevante per la scienza, perché spesso le teorie scientifiche includono cose che non possiamo sperimentare direttamente, i cosiddetti inosservabili: gli elettroni, l’origine dell’universo, i dinosauri e i neandertal ne sono un esempio. Come accettano gli scienziati questi inosservabili se non ne hanno mai la prova definitiva? Lo psicologo Benjamin Sylvester Bradley afferma che _L’origine delle specie _di Darwin ha stabilito un nuovo paradigma, anche perché si basa su una nozione romantica o kantiana del sublime. Anche se Darwin non è stato il primo a usare la teoria evoluzionistica per spiegare come sono nate le nuove specie, il suo lavoro ha combinato in modo insolito rigore scientifico e riflessione poetica sulla vastità e complessità della natura. Darwin menziona spesso la nostra scarsa conoscenza, la difficoltà a immaginare i lunghi intervalli di tempo in cui avviene l’evoluzione, che provocano stupore. Lo stupore aumenta la capacità di tollerare l’incertezza e ci rende ricettivi a idee nuove, fondamentali per il cambiamento di paradigma. Il libro _ On the connexion of the physical sciences _(Sulla connessione delle scienze fisiche, 1834) di Mary Somerville costituì una sintesi molto popolare della scienza di quel tempo, e anticipò molte nuove idee. Per esempio molto prima che si potesse vederlo al telescopio anticipò l’esistenza del pianeta Nettuno sulla base di alcune anomalie orbitali. Allo stesso modo si ipotizza l’esistenza di esopianeti e di altra materia astronomica non ancora individuata. Somerville faceva spesso appello al senso di stupore dei lettori: “Così numerosi sono gli oggetti che il nostro sguardo incontra nei cieli, che non possiamo immaginare una parte di spazio in cui una luce non colpisca l’occhio: innumerevoli stelle, migliaia di sistemi doppi e multipli, ammassi che fiammeggiano con le loro decine di migliaia di soli e nebulose ci stupiscono per la stranezza delle loro forme e l’incomprensibilità della loro natura, finché a un certo punto, a causa dei limiti dei nostri sensi, anche questi eterei fantasmi svaniscono in lontananza. Se quei corpi remoti risplendessero di luce riflessa, non dovremmo accorgerci della loro esistenza. Ogni stella deve quindi essere un sole e si può presumere che abbia il suo sistema di pianeti, satelliti e comete, come il nostro; e, per quanto ne sappiamo, nello spazio possono vagare miriadi di corpi invisibili al nostro occhio, della cui natura, e ancor meno del ruolo che svolgono nell’economia dell’universo, non abbiamo idea”.

Questa fusione di poetico e scientifico è ciò che la studiosa e scrittrice statunitense Kathryn Neeley, nella sua biografia di Somerville, ha chiamato il sublime scientifico, cioè “la capacità della visione della natura rivelata dalla scienza di evocare lo stesso senso di maestà e forza che gli esseri umani provano in presenza di dio”.

Lo stupore è necessario non solo per il lavoro quotidiano della scienza, ma per aiutare a riorientare il pensiero degli scienziati quando cambia il paradigma. Fornisce ai ricercatori una motivazione emotiva costante per proseguire il loro lavoro e suscita nel pubblico un’apertura maggiore verso le idee scientifiche. La precisione e il rigore sono importanti ma, come ha ipotizzato Heschel, la spinta emotiva dello stupore forse è l’unica strada per la conoscenza e la saggezza. ◆ bt

Helen De Cruz insegna filosofia alla Saint Louis university, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro è The challenge of evolution to religion, scritto insieme a Johan De Smedt.

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Questo articolo è uscito sul numero 1378 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati