La nostalgia può essere letale. Il termine, coniato alla fine del seicento, indicava una malattia provocata dal cambiamento e dallo sradicamento; i sintomi erano febbre, perdita dell’appetito e palpitazioni. Se non curata, poteva portare alla morte. Oggi la nostalgia non è più considerata una malattia. Anzi, è vista come un sentimento vago e ovattato, apparentemente innocuo, legato a un passato idealizzato. Le profonde turbolenze economiche degli ultimi mesi, tuttavia, potrebbero spingere gli esperti a ripensarci e a tornare a trattarla come una patologia grave, perfino potenzialmente mortale. Le politiche di Washington, fondate sul presupposto di restaurare una presunta grandezza perduta – quel mitico e opaco again (di nuovo) nello slogan “Make America great again” – hanno finito per peggiorare le condizioni di vita delle persone, negli Stati Uniti e altrove.
L’esempio più emblematico lo abbiamo avuto il 2 aprile 2025, quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato una serie di pesantissimi dazi, formalmente reciproci, con l’obiettivo dichiarato di tornare ai fasti dell’industria manifatturiera statunitense, provocando però un crollo dei mercati. “Stiamo riportando in vita un settore che era stato abbandonato”, ha dichiarato trionfante agli elettori, mentre obbligazioni e azioni precipitavano. “Rimetteremo i minatori al lavoro”, ha aggiunto. “Potremmo offrigli un attico sulla Quinta strada e un lavoro diverso, ma sarebbero infelici. Vogliono estrarre il carbone; è quella la cosa che gli piace fare”.
L’annuncio di Trump ha provocato un forte shock, non solo economico. Ma Trump non è certo il primo leader mondiale che ha tentato di isolare il proprio paese nella speranza di riportare indietro le lancette dell’orologio. Dal quattrocento all’ottocento la Cina tenne chiuse le porte del suo impero per timore delle influenze esterne. Il Giappone fece lo stesso per gran parte del seicento, del settecento e dell’ottocento, durante l’era dello shogunato. E vari stati europei hanno adottato, in epoche diverse, la politica della nostalgia. Pur mossi da contesti economici e scenari globali differenti, questi paesi erano accomunati dalla convinzione che chiudere le frontiere per preservare le tradizioni avrebbe portato benessere economico e perfino una sorta di salute spirituale.
Tutti questi esempi sono finiti male: la storia dimostra quanto può essere pericoloso strumentalizzare il passato. Gli stati che hanno abbracciato politiche nostalgiche hanno finito per abbandonarle o per cadere in rovina. La Cina, per esempio, uscì così indebolita dall’isolamento che nel novecento si ritrovò sempre più esposta ai diktat degli imperialisti occidentali. Lo stesso è successo al Giappone, che diventò più vulnerabile alle incursioni delle potenze occidentali in ascesa. In Europa il desiderio di tornare a un passato rurale dopo la prima guerra mondiale contribuì all’ascesa del fascismo. Washington, quindi, farebbe bene a non seguire queste strade: potrebbe scoprire a sue spese che la nostalgia può trasformarsi rapidamente in un tumore maligno.
Fermare il tempo
Nel 1688 il giovane medico svizzero Johannes Hofer scrisse un testo su uno stato mentale che sembrava affliggere il suo paese: il dolore per il fascino perduto della terra natìa. Gli svizzeri avevano già una parola di uso comune per questo tipo di malinconia: Heimweh, “mal di casa”. Hofer gli diede un nome scientifico, nostalgia, fondendo i due termini che, in greco antico, indicavano “ritornare a casa” e “dolore”. Alla definizione si accompagnava una descrizione clinica dell’origine e dell’evoluzione della malattia. La nostalgia colpiva soprattutto i giovani che lasciavano i villaggi rurali per cercare fortuna nelle città o all’estero, spesso come mercenari. Era considerata una patologia legata allo sradicamento e alla difficoltà di adattamento. La causa, secondo Hofer, era una “vibrazione continua degli spiriti animali” nel cervello, e l’unica cura possibile era il ritorno a casa. Ben presto, la diagnosi fu estesa all’intera nazione: questa nostalgia mortale venne ribattezzata schweizer Heimweh, il “mal di casa svizzero”. Nei due secoli successivi anche altre società europee e americane furono colpite da questa “nostalgia svizzera”, alimentata dalla globalizzazione, dalle migrazioni (spesso forzate) e dall’industrializzazione.
All’estremità opposta del continente eurasiatico, però, vari focolai di nostalgia avevano influenzato la politica già secoli prima che Hofer formulasse la sua tesi. La tendenza cominciò in Cina. Nel 1433 l’ammiraglio Zheng He fece ritorno in patria dopo le spettacolari spedizioni della flotta del tesoro. Le sue imponenti navi-drago avevano raggiunto coste lontane, fino all’Africa orientale, dove avevano distribuito doni raffinati ed eleganti in cambio di animali esotici, oltre a spezie e tessuti di cotone. L’imperatore, tuttavia, concluse che quell’apertura al mondo non era stata altro che un capriccio esotico, privo di benefici concreti. Decise allora che ogni tentativo di creare avamposti sarebbe stato troppo oneroso, perché avrebbe trascinato Zheng e i suoi ufficiali in una miriade di conflitti lontani, dove i sovrani locali avrebbero cercato di sfruttare la potenza cinese per prevalere sui rivali. Questi intrecci diplomatici rischiavano di compromettere i valori fondamentali e la missione storica della Cina. La globalizzazione, in altre parole, avrebbe avuto l’unico effetto di spingere gli altri ad approfittare della prosperità cinese.
La corte imperiale scelse quindi la via dell’isolamento: sospese i finanziamenti alle missioni e decise, in larga parte, di smettere di comprare beni all’estero. Permise comunque, di tanto in tanto, l’arrivo di visitatori stranieri, invitati ad ammirare la grandezza della Cina, magari in cambio di qualche oggetto curioso. I gesuiti portoghesi, per esempio, conquistarono il favore della corte portando in dono degli orologi finemente decorati.
La Cina, tuttavia, sapeva di essere più ricca di qualsiasi altro paese al mondo, e riteneva di potersi permettere una chiusura in se stessa. Questa convinzione scaturiva sia da un senso di superiorità culturale sia dalle sue tradizioni filosofiche. Le scuole taoista, wuxing, buddista, confuciana e neoconfuciana erano diverse tra loro, a volte perfino contraddittorie. Tutte, però, insistevano su un principio comune: la storia richiede, ciclicamente, un ritorno alle origini, una restaurazione.
Cina e Giappone persero l’occasione di approfittare delle innovazioni e della produttività portate dalla rivoluzione industriale
La Cina non cambiò atteggiamento neanche quando perse la centralità economica. Durante la dinastia Qing dei Manchu, gli sforzi espansionistici si concentrarono a est, nelle vicine regioni dell’Asia centrale, e non oltremare. Così, mentre la rivoluzione industriale faceva decollare l’economia in Europa e negli Stati Uniti, la Cina restò isolata, fino a ritrovarsi ampiamente superata, in termini sia di pil sia di potenza militare. La corte imperiale era al corrente delle innovazioni occidentali: nel 1793 una spedizione guidata da George Macartney portò in dono un planetario britannico e una macchina a vapore. Il planetario fu accolto come una curiosità interessante, ma il potenziale trasformativo dell’energia fossile, incarnato dalla macchina a vapore, non fu compreso. La macchina restò inutilizzata, chiusa nella sua cassa. “L’Impero celeste possiede ogni cosa in abbondanza e non manca di alcun prodotto entro i suoi confini”, dichiarò con fierezza l’imperatore Qianlong a Macartney. “Non c’è quindi bisogno d’importare le manifatture dei barbari stranieri in cambio dei nostri beni”.
La Cina non fu l’unico paese asiatico a tentare di fermare il tempo. Il Giappone, pur mantenendo più a lungo i contatti con l’esterno, nel 1603 fu travolto a sua volta dall’ansia da globalizzazione. Lo shogunato introdusse le disposizioni del Sakoku (letteralmente, “paese incatenato”), che vietavano ai giapponesi di uscire dai confini. Chi decideva comunque di partire, non poteva più fare ritorno. Il governo interruppe quasi tutte le relazioni diplomatiche, mantenendo solo qualche scambio commerciale con la Cina attraverso il porto di Nagasaki e permettendo l’ingresso di alcuni libri stranieri, provenienti soprattutto dai Paesi Bassi protestanti. Ma in linea di massima il Giappone si ritirò dal mondo. Alcuni funzionari giapponesi riconoscevano che il Sakoku avrebbe potuto privare il paese di importanti innovazioni, ma ritenevano che ne valesse la pena: l’influenza corruttrice del mondo esterno era troppo pericolosa. Il nuovo isolamento del Giappone rispondeva anche all’esigenza di contenere il potere dei grandi magnati del commercio, i signori feudali daimyo, che avevano approfittato dei legami economici con l’estero a scapito del governo centrale. Un altro obiettivo era fermare il deflusso di argento, che aveva fatto scendere i prezzi e, di conseguenza, aumentato il peso delle tasse. Ma al di là delle motivazioni economiche e politiche, c’era soprattutto una componente culturale: l’affermazione dei valori di una società tradizionale minacciata dal cambiamento. Il Giappone temeva in particolare i missionari cristiani, che secondo la classe dirigente favorivano la nascita di comunità autonome capaci di minare l’autorità dello shogunato.
Superiorità tecnologica
Sia in Cina sia in Giappone la politica della nostalgia si rivelò profondamente dannosa. Le due società restarono indietro, le loro economie si indebolirono e le istituzioni politiche diventarono via via più vulnerabili. Entrambe persero l’occasione di approfittare delle grandi innovazioni e della produttività portate dalla rivoluzione industriale. La superiorità tecnologica militare del Regno Unito, per esempio, determinò la sconfitta della Cina nella prima guerra dell’oppio (1839-42). Il paese fu costretto a concedere Hong Kong e un accesso estremamente vantaggioso ai mercati cinesi. Durante il successivo “secolo dell’umiliazione”, come lo definivano i cinesi, anche altre potenze europee riuscirono a sottrarre ricchezza all’impero sconfitto. Le conseguenze furono l’emergere di nuovi movimenti radicali nati con l’obiettivo di ristabilire la potenza del paese. Tra questi c’era il comunismo, che prese il potere negli anni quaranta.
Il Giappone seppe difendersi in modo molto più efficace. Ma nel 1853, dopo l’arrivo della flotta militare del commodoro statunitense Matthew Perry, fu costretto ad aprirsi al mondo e reagì adottando misure radicali per modernizzare l’economia. Con la restaurazione Meiji fu abolito il sistema feudale e lo shogunato. Poco dopo, emerse una nuova ideologia che puntava all’espansione imperialista.
A differenza di Cina e Giappone, l’Europa non cercò di sottrarsi allo sviluppo economico, ma comunque non fu insensibile al fascino della nostalgia. Con l’urbanizzazione del continente, molti osservatori cominciarono a preoccuparsi per il calo del numero di contadini, soprattutto durante la grande depressione degli anni trenta del novecento. La miseria diffusa di quell’epoca rese la vita rurale più seducente che mai, alimentando movimenti politici esplicitamente contadini, come il Partito agrario e contadino francese (Papf), che promettevano un ritorno a un passato agricolo e idilliaco.
Nell’Europa occidentale questi partiti non riuscirono mai a raccogliere un consenso sufficiente per arrivare al potere. L’ideale rurale, tuttavia, era profondamente radicato, e diventò un elemento centrale nella costruzione di nuove coalizioni populiste di destra. Anzi, i contadini rappresentavano una quota talmente ampia dell’elettorato che questi movimenti riuscirono a influenzare anche il centro e la sinistra. Il leader francese Édouard Herriot, per esempio, dichiarò che i contadini erano “i nostri padroni silenziosi” e “i più grandi filosofi di Francia”. Per conquistarne il favore, il suo governo adottò politiche di stabilizzazione dei prezzi, sovvenzioni e sostegno al mercato, con l’obiettivo di far crescere e proteggere l’agricoltura.
Fu però la Germania che fece l’uso più clamoroso e catastrofico del romanticismo agrario. Il Partito nazionalsocialista salì al potere sfruttando la crisi agricola e facendo ampio ricorso alla propaganda per conquistare il voto dei contadini tedeschi. “Dobbiamo riconoscere che senza la nostra terra, senza il nostro ceto contadino, non può esserci prosperità economica in Germania; che tutte le idee sull’esportazione, l’importazione e l’economia globale sono per noi concetti forse utili, ma non potranno mai sostituire il nostro spazio vitale e il nostro ceto contadino”, dichiarava Adolf Hitler nel 1932.
Oggi l’intelligenza artificiale minaccia il lavoro d’ufficio come le macchine minacciavano quello in fabbrica tra ottocento e novecento
L’espansione tedesca
Il principale artefice del programma politico rurale nazista era Walther Darré. Autore del saggio Nuova nobiltà di sangue e suolo, Darré era noto sia come studioso di questioni agricole tecniche sia come fervente sostenitore dell’espansione tedesca, che considerava essenziale per il benessere del popolo germanico. I tedeschi di sangue puro, sosteneva, avrebbero dovuto abbandonare le grandi città industriali, corrotte e malsane, per ritrovare una vita sana legata alla terra.
Questa commistione tra razzismo e nostalgia non era affatto rara. Anzi, storicamente i due elementi si erano intrecciati spesso. In un aggiornamento al suo celebre trattato Il tramonto dell’occidente, pubblicato dopo la prima guerra mondiale, lo scrittore tedesco Oswald Spengler osservava che “il baricentro della produzione” si stava spostando lontano dall’Europa, perché “il rispetto delle razze di colore per la razza bianca è venuto meno con la grande guerra”. Secondo Spengler, questa era “la vera e definitiva causa della disoccupazione che affligge i paesi bianchi”. Sentimenti analoghi riecheggiano nel personaggio di Tom Buchanan, ex sportivo e suprematista bianco, nel romanzo Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald.
Ma le politiche agrarie di Darré ebbero, in definitiva, scarso impatto sul potere materiale della Germania. Dopo essere diventato ministro dell’agricoltura, Darré caldeggiò l’idea che la Germania conquistasse nuovi territori affinché gli abitanti delle città potessero avere campi da coltivare e terre da colonizzare. Tuttavia, non fu certo lui il principale artefice dell’espansionismo tedesco. I suoi sforzi si concentravano sul progetto di una corporazione obbligatoria, una sorta di gilda per gli agricoltori, e sull’approvazione di una legge che vietava ai contadini tedeschi di suddividere o vendere le fattorie. Continuava anche con la propaganda, commissionando servizi fotografici che mostravano il fascino virile di aitanti contadini al lavoro nei campi, scintillanti di sudore. Ma nella realtà, gli agricoltori si sentivano più oppressi, abbandonati da un governo che puntava a un’industrializzazione rapida, soprattutto per scopi militari. Il numero di lavoratori agricoli in Germania continuò a diminuire.
Darré fu presto emarginato da Hitler. Una volta ottenuto il sostegno elettorale dei contadini, il leader nazista perse rapidamente interesse per le politiche rurali. Nel 1937 manifestò apertamente il suo disprezzo per le “filosofie contadine” e si rifiutò di ricevere Darré o di prendere in considerazione le sue richieste. Dopo il 1939 l’unica risposta del regime alle rivendicazioni degli agricoltori fu mandarli ai lavori forzati. Il sogno rurale al centro della nostalgia tedesca si rivelò, in ultima analisi, incompatibile con la spinta nazista per affermare una gerarchia razziale fondata sulla tecnologia e l’industrializzazione.
Vivere nel passato
Dopo la seconda guerra mondiale gli europei cominciarono a capire che la nostalgia aveva giocato un ruolo cruciale nell’ascesa del fascismo e nella distruzione della democrazia. Scelsero quindi una strada alternativa: incentivare l’abbandono delle campagne, pur continuando a versare consistenti sovvenzioni agli agricoltori rimasti. In un certo senso questa scelta rappresentava una forma di nostalgia garbata, simile a quella di Herriot in Francia nel periodo tra le due guerre. Ma in realtà era soprattutto un tentativo di tenersi buoni gli sconfitti della globalizzazione mentre si faceva progredire l’economia. Negli anni ottanta la politica agricola comune assorbiva più del 70 per cento del bilancio della Comunità europea. Oggi, invece, incide per poco più del 25 per cento. Le economie del continente sono riuscite a riprendersi rapidamente dalle devastazioni della grande depressione e della guerra, e la popolazione ha accettato che la vita contadina apparteneva ormai al passato ed era impossibile riportarla alla sua forma originaria.
Ma la nostalgia non è mai scomparsa del tutto, e oggi è tornata prepotentemente al centro della scena politica europea, alimentando nuove forme di populismo. Questa volta il sentimento nostalgico è legato al declino industriale. L’Italia, dove le fabbriche degli elettrodomestici, dei tessuti e dell’abbigliamento sono state fortemente danneggiate dalla concorrenza cinese, è stata la prima a cadere, dando vita a quello che oggi può essere considerato il primo governo populista del dopoguerra nell’Europa occidentale, con la nomina di Silvio Berlusconi a presidente del consiglio nel 1994. Da allora questa “infezione nostalgica” si è diffusa. Oggi perfino il motore industriale d’Europa, la Germania, vacilla: il partito populista Alternative für Deutschland (Afd) sta guadagnando consensi, soprattutto nei land orientali, quelli più visibilmente lasciati indietro.
Nessun paese, però, sembra vittima della nostalgia più degli Stati Uniti. In fin dei conti, la rabbia per la globalizzazione e per la crescente diversità del paese è stata una delle forze che ha spinto Trump alla Casa Bianca. Soprattutto in questo suo secondo mandato, Trump sta cercando di tenere fede alle sue promesse ataviche. Il presidente ha presentato i suoi dazi come un rimedio: il 2 aprile ha annunciato che quella sarebbe stata “la giornata della rinascita dell’industria americana”, “il giorno in cui il destino dell’America è stato riconquistato”. Anche il segretario al commercio, Howard Lutnick, ha parlato dei dazi come di un modo per Washington di rimpossessarsi del suo passato glorioso. La Cina, ha detto Lutnick, ha creato “un esercito di milioni e milioni di esseri umani che avvitano minuscole viti per assemblare iPhone”, posti di lavoro che un tempo sarebbero rimasti in casa. Ora, ha detto, “quel tipo di attività” tornerà.
Questi paesi erano accomunati dalla convinzione che chiudere le frontiere per preservare le tradizioni avrebbe portato benessere
Dopo il crollo della borsa, Trump ha sostituito la maggior parte dei suoi dazi con una tariffa fissa del 10 per cento. Ma in ogni caso è improbabile che riesca a recuperare i posti di lavoro persi, soprattutto ora che l’automazione è alle porte. Oggi l’intelligenza artificiale minaccia il lavoro d’ufficio come le macchine minacciavano quello in fabbrica tra l’ottocento e il novecento. La nostalgia politica, tuttavia, può portare a ignorare i risvolti negativi delle politiche economiche revansciste. Mentre il mondo intorno agli elettori statunitensi cambia, l’immagine familiare degli uomini al lavoro nelle miniere e delle mogli che preparano la cena a casa è così rassicurante da spingere molte persone a fare sacrifici enormi pur di riaverla. E così, il segretario al tesoro Scott Bessent descrive le sofferenze provocate dai dazi come un “periodo di disintossicazione”.
Questa cura, però, è un falso rimedio. L’economia della nostalgia non funziona mai, e il suo inevitabile fallimento genera una nostalgia culturale che può rivelarsi perfino più pericolosa dell’isolamento. Quando il Giappone perse terreno rispetto all’Europa occidentale, tra il settecento e l’ottocento, cominciò a rivendicare in modo sempre più insistente la sua identità culturale, avviandosi così sulla strada dell’imperialismo.
Se gli Stati Uniti non riusciranno a recuperare i posti di lavoro persi (e anzi ne perderanno altri a causa delle turbolenze provocate dai dazi) anche Washington potrebbe essere tentata di insistere con le rivendicazioni di superiorità nazionale e rilanciare sul terreno della guerra culturale, invece di accettare un compromesso. Dopotutto, qualcuno dovrà pur essere incolpato per il fallimento di politiche economiche che tanti cittadini statunitensi continuano a sostenere. La nostalgia, quindi, diventa sia la causa dei problemi sia lo strumento per mascherarli.
Non sorprende che la gente sia preoccupata per le tecnologie radicalmente innovative in arrivo oggi. Le forze congiunte della globalizzazione e del progresso tecnologico stanno stravolgendo il lavoro, le comunità, le famiglie e le relazioni sociali. L’idea di tornare a una versione patinata e idealizzata del mondo, quindi, esercita un forte fascino. Ma la storia ci insegna che la politica non può lasciarsi contagiare dal morbo della nostalgia.
Come sentimento individuale, la nostalgia può dare conforto; ma come ricetta politica avvelena il dibattito pubblico e disgrega il corpo sociale. La ripresa richiede tempi lunghi e dolorosi, e il ritorno a una patria perduta e immaginaria non è una via praticabile. ◆ fas
Harold James insegna storia e relazioni internazionali all’università di Princeton, negli Stati Uniti. Marie-Louise James è una ricercatrice dell’università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera, in Germania.
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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati
 
			 
	                 
	                 
	                 
            