Alla vigilia del primo lockdown, durante la pandemia di covid-19, sono andato allo Hammersmith Apollo di Londra per assistere a un’esibizione di Whitney Houston. Era una notte gelida e minacciosa, e fuori del teatro la gente aspettava con gli occhi spalancati, emozionata per l’incontro imminente con la non morta. Ero lì per adempiere ai miei doveri d’inguaribile negromante. Non penso di aver mai creduto che i divi del pop e del cinema muoiano davvero – la morte gli dona, e le vere leggende hanno la tendenza a infestare il futuro come fantasmi – ma, nonostante tutto, temevo che Whitney, ufficialmente e certamente deceduta, non fosse all’altezza del compito. E se la sua famosa vitalità si fosse esaurita con la morte? Comunque, sono sempre a favore di questo tipo d’indagini, quindi ho saltato la bancarella del merchandising, con le sue magliette ectoplasmatiche, e sono andato dritto verso l’auditorium. O era il Valhalla, “la sala dei caduti”?
Dentro c’era un vuoto che parlava a tutti noi. E sul palco c’era Rob Green da Nottingham, con la sua camicia sgargiante. Suonava la chitarra e aveva una parlantina abbastanza sciolta da mettere in discussione il concetto fondamentale della serata, e cioè che il piacere e il divertimento, anche in un contesto dal vivo, possono arrivare in forma postuma. “Non mi prenderete sul serio”, cantava, e io ho chiesto alla signora di mezza età accanto a me, che stava piangendo in anticipo, se secondo lei il signor Green era in una posizione di svantaggio per il fatto di essere vivo. “Povero ragazzo”, ha detto la donna. “Chi al mondo vorrebbe stare vicino a una leggenda come Whitney Houston?”.
L’atmosfera a metà tra una messa e un rave è diventata ancora più intensa. Whitney era nella sua migliore vita ultraterrena e i fan dei non morti, in estasi, la trovavano bellissima
Io no. E, sospetto, nemmeno Whitney, che si presume sia morta nella vasca da bagno della suite 343 del Beverly Hilton hotel l’11 febbraio 2012. Eppure il sipario rosso alle spalle dell’artista di supporto fremeva di attività. Il pubblico si è alzato in piedi. Nessuno intorno a me stava pensando al 2012, quando Whitney passò le sue ultime ore a imbottirsi di cocaina, Xanax e tutto quello che era riuscita a trovare prima di una cerimonia di premiazione a Los Angeles. Questi erano dettagli di un mondo che qui non si credeva essere portatore di verità. La forza che il pubblico ammirava era dietro il sipario rosso, e non era fatta di carne. “Siete pronti per Whitney?”, ha gridato Green. Il mondo dello spettacolo è spietato. Insomma, non deve essere molto confortante scrivere sul curriculum che una volta hai aperto il concerto di un’artista a cui non batte più il cuore. “Siete pronti?”, ha ripetuto.
“Oh. Mio. Dio… Sì!”, ha risposto la mia vicina. Posso dire che almeno lei era vera perché mi è salita su un piede e io mi fido ostinatamente del nesso causa-effetto.
Come gli uccelli a Narnia, sono apparse svolazzando delle coppie di virgolette. I giganteschi altoparlanti hanno cominciato a vibrare di “vita”, poi Whitney è “entrata” indossando – o, meglio, “indossando” – un abito d’oro sbrilluccicante e, in ogni senso della parola, “essendo” Whitney. Il pubblico è impazzito completamente ed è scoppiato in lacrime. “Preghiamo per la pace”, ha detto Whitney, e tutti hanno chinato il capo per poi alzare le braccia al cielo quando l’ologramma è partito con una versione travolgente di I wanna dance with somebody (who loves me).
“I wanna feel the heat with somebody”, ho sussurrato.
“Canta più forte, figliolo!”, ha detto la madre della mia vicina.
Whitney era circondata da ballerini e coristi in carne e ossa. Non erano esattamente in scala, o forse non lo era lei, perché la facevano sembrare piccola ma, a meno che la realtà virtuale non fosse già passata al livello successivo, ho pensato che non se ne sarebbe lamentata con il suo manager. L’atmosfera a metà tra una messa e un rave è diventata ancora più intensa. Whitney era nella sua migliore vita ultraterrena e i fan dei non morti, in estasi, la trovavano bellissima. Si è toccato l’apice quando ha cominciato a cantare I will always love you e il teatro, be’, non è esploso, si è sciolto, e tutte le sedie e le pareti sono diventate liquescenti. Ci eravamo spostati in un luogo dove l’emozione e la fantasia dell’emozione erano estaticamente mescolate, innalzandosi per salutare il vibrato perfetto di Whitney e lasciando crogiolare il pubblico nella certezza inebriante che la vita è qualcosa d’inspiegabile. Nelle società tradizionali, questo è il tipo di situazione che porta la gente a pregare in lingue misteriose o a rivolgersi a dio. All’Hammersmith Apollo, prima della pandemia, la gente ha investito nel potere transustanziante di Whitney.
La sospensione universale del dubbio era cominciata a tutti gli effetti solo poche settimane dopo che Whitney era morta, grazie a Tupac Shakur. Gli ologrammi dipendono dall’illusione della profondità, e un tempo la profondità era ciò che si nascondeva negli occhi di Elvis Presley. Era la poesia di Sylvia Plath. Erano le appassionate assurdità spaziali di David Bowie o le verità del feedback delle chitarre dei Jesus and Mary Chain. Ma da quando il fu 2Pac apparve al Coachella valley music and arts festival, la profondità cominciò a segnalare qualcosa di sinistro e ultraterreno. Il processo sconveniente d’invecchiare e morire, comune a tutti noi, a un tratto poteva essere aggirato. Oggi, riportare in vita un artista è forse l’opportunità economicamente più vantaggiosa per un agente. Magari le ossa dell’artista sono al cimitero, ma il pubblico si aspetta e paga per la sua presenza. Michael Jackson dal vivo? Certo che sì. E in questo modo si assicura al cantante una sorta di esistenza più alta – la libertà dai cavilli della realtà – che il vero Jackson provò a raggiungere per tutta la vita, ma che poté solo sognare in una terrificante Neverland.
Il defunto 2Pac apparve al Coachella il 15 aprile 2012, di domenica. La sera prima, il palco era stato occupato da esseri umani visibilmente vivi. I Radiohead erano un po’ sonnolenti, ma sicuramente respiravano. La situazione si era animata con i riformati Buzzcocks, Noel Gallagher e il dj David Guetta. Ma la domenica sera, Dr Dre, Snoop Dogg e – liberate le sue vie neurali – un 2Pac decisamente scintillante erano dal vivo sul palco. Insomma, più o meno. Il compianto divo del rap aveva un bell’aspetto (per essere morto, intendo): gli addominali ancora più scolpiti, la camminata ancora più rimbalzante, la strizzata del pacco sempre disgustosamente pronunciata. Nonostante le difficoltà ontologiche, era lì, presente, sotto molti aspetti più in forma e ben più luminoso del suo amico Snoop Dogg che gli salterellava e gli ballava accanto. L’esibizione fu accolta con stupore dal pubblico, poi 2Pac scomparve in una nuvola di fumo proveniente dalla canna di una pistola Glock calibro 40, una di quelle trovate che sono sempre più divertenti nella pantomima che nella vita vera.
Sono tempi complessi per la realtà. C’è sempre qualcuno che richiede la nostra attenzione dall’oltretomba. Ovunque ci giriamo c’è una forza disincarnata che ci dice chi siamo, o chi potremmo essere, in un mondo di eterni. Una cosa è non morire, un’altra è lasciare che i computer vivano per noi mettendo in dubbio i nostri gusti, orientando i nostri comportamenti e costruendo dei personaggi per noi, e tutte queste cose insieme rendono molto difficile seppellire tutto ciò che ci riguarda. Don DeLillo ci aveva avvertiti (e gli avvertimenti sono la sua specialità) che la conservazione della vita rischiava di trasformarsi nel tipo di polizza di morte in vita che faceva venire gli incubi a Samuel Coleridge. In Zero K, il lungo romanzo profetico scritto da DeLillo nel 2016, facciamo la conoscenza di un uomo di nome Jeffrey mentre visita un laboratorio in un posto sperduto e segreto dove lo scopo è evitare la morte. In una delle stanze, le persone s’interrogano su questioni molto serie:
In un prossimo futuro, la morte diventerà inaccettabile proprio nel momento in cui la vita del pianeta diventa più fragile.
L’immortalità letterale comprime le nostre forme d’arte più durature e le nostre meraviglie culturali fino a ridurle al nulla?
Cosa succederà alla storia? Cosa succederà al denaro? Cosa succederà a Dio?
Vogliamo credere che ogni malattia che affligge la mente e il corpo sarà curabile nel contesto della nostra illimitata longevità?
Quando si smette di essere chi si è?
Per Peter Pan la morte era un’avventura terribilmente grande. Per Saul Bellow era il nero che si forma sullo specchio e ci permette di vedere ogni cosa.
“Niente di bello muore davvero”, mi ha detto un uomo di mezza età in fila per le bevande allo spettacolo Abba voyage a Stratford. “Torna semplicemente più forte”. Era un giovedì sera, quasi cinque anni dopo il giorno della mia seduta spiritica con Whitney all’Hammersmith Apollo. L’arena era gremita e i colori dell’arcobaleno sembravano attirare il pubblico da ogni direzione. La prima volta che ho visto Agnetha Fältskog, Björn Ulvaeus, Benny Andersson e Anni-Frid Lyngstad, cioè gli Abba, erano in tv, nell’angolo del soggiorno di mia madre, e cantavano Waterloo mentre io e i miei fratelli ci domandavamo come sarebbe stata la vita se fossimo stati così puliti. Penso che la nostra sia stata la prima generazione a vivere in un Regno Unito immerso in una cultura giovanile capace di definire un’epoca. I nostri genitori erano già sposati quando uscì il primo album dei Beatles; magari avrebbero potuto appassionarsi ai mod e ai rocker, invece preferivano Perry Como. Ma per noi la cultura pop è ineludibile, impressa nelle nostre menti come un aspetto della memoria e come un indicatore del carattere. Nella mia preadolescenza, tutto questo sembrava un esperimento dell’era spaziale sulla personalità. Ma si è impresso nella nostra pelle, e questo forse spiega perché spettacoli come Abba voyage sono così popolari: promettono di restituire alla gente un pezzo della sua essenza sentimentale, un barlume di un sé idealizzato. Se Freud credeva che i sogni fossero puzzle d’immagini, oggi sembra che le canzoni e i volti famosi siano elementi attivi del nostro subconscio, che tengono tutti noi – a volte un’intera generazione – incredibilmente alla loro mercé.
Il programma di Abba voyage avrebbe potuto semplicemente raccontare i cinque anni di lavoro – di artisti digitali, modellisti, disegnatori, “artisti della cattura facciale” – che ci sono voluti per produrre lo spettacolo, e invece sembra l’album dei ricordi della vita di qualcuno, con matrici di biglietti, riproduzioni di Polaroid e di ritagli di giornali. La produzione di scena usa un’amplificazione audio da 870mila watt, con trentamila punti luce controllabili singolarmente, 291 altoparlanti separati e 65 milioni di pixel. Per far funzionare il tutto servono cento chilometri di cavi e 846 argani separati per l’automazione teatrale, più 120 terabyte di memoria sparati sullo schermo a una velocità di 25 gigabyte al secondo. “Io non sono semplicemente un fan degli Abba”, dice il regista, Baillie Walsh. “Loro sono nel mio dna. Sono parte di me. Per questo mi emoziono tanto quando ne parlo. Li ho visti vincere all’Eurovision nel 1974 e da allora fanno parte della mia vita”.
Dopo aver attraversato una galleria di luci al neon sono entrato in un auditorium con tremila persone, alcune sedute sulle gradinate e altre stipate su una pista da ballo. Sullo schermo scorrevano le immagini di un bosco svedese di querce sotto la neve. Di tanto in tanto, tra gli alberi spuntava una figura umana. Fan in stivali glitterati e ombretto blu bevevano da bicchieri di plastica. Alcuni si sistemavano i capelli con unghie finte e si scattavano dei selfie. Quando è apparso il gruppo, i quattro componenti erano molto più reali di quanto li ricordassi. La loro pelle non era mai stata così perfetta. Non li avevo mai visti così coordinati. Il suono era più nitido, i costumi più eleganti, l’apparente sincronicità di persone, spazio, memoria e musica non sembrava tridimensionale, ma più che tridimensionale, un intreccio perfetto dei diversi piani. Vedevamo gli Abba al loro apice degli anni settanta. Non c’era una luce che non si accendesse, non un attacco sbagliato. Sul palco c’erano perfino le ombre: oggi i prodotti della fantasia proiettano anche le ombre.
“Chi è che andrebbe in tour a ottant’anni”, ho detto alla donna vicino a me, “quando si può fare questo e far pagare il biglietto?”.
“I Rolling Stones”, mi ha risposto.
Quando dopo Chiquitita è apparsa l’aurora boreale il pubblico è completamente impazzito. Il volume dei cori del pubblico era incredibile e l’emozione non era normale, neanche per gli standard del momento. O comunque, non normale nel vecchio senso del termine. Eravamo a un comizio politico o al raduno di una setta? Era una fiera o una rivoluzione? “Ci stiamo solo divertendo”, hanno detto due donne dietro di me, con i loro cappelli Stetson bianchi. Incapace di sfuggire alle vecchie restrizioni ontologiche, non riuscivo a capacitarmi della magnitudine dell’applauso. A chi stavano battendo le mani? Insomma, chi avrebbe dovuto sentirlo? O forse stavano applaudendo se stessi? Battere le mani per l’esibizione di quella sera era come alzarsi in piedi e applaudire Claudette Colbert dopo una proiezione di Accadde una notte per poi girarsi e congratularsi con le altre persone in sala per la loro saggezza e il loro sentimento: un applauso non solo per Claudette Colbert, Clark Gable e Frank Capra, ma per la memoria condivisa e per sé.
La gente a Stratford si comportava come se il passato fosse sempre stato così, mai morto e mai veramente passato. La mia zietta Famie nel 1980 andò a una specie di raduno musicale alla Eastmuir masonic hall, e ora è incorniciata sopra il caminetto, colta a metà canzone. C’è ma non c’è. Forse tutto quello che abbiamo fatto è stato aggiungere la deep animation e il pubblico dal vivo. La vera esistenza, alla fine, non è come ce l’hanno raccontata, e quelli che dicevano che Elvis non era morto forse hanno sempre avuto ragione. Presto potremmo avere vicino a noi uno stadio con trentamila punti luce controllabili separatamente, che ci offrirà un posto a un tavolino per vedere Elvis dal vivo a Las Vegas, o i Beatles allo Shea stadium di New York, o i Sex Pistols allo Screen on the green di Islington, o gli Oasis al King Tut’s wah wah hut di Glasgow (anche se il tour annunciato per questa estate fa somigliare gli Oasis ai Rolling Stones). Presto ci potrebbero essere dei gabbiotti dove vedere la mia zietta Famie nel suo circolo di Glasgow che canta con tutto il cuore, come se non si fosse mai fermato. Noi che abbiamo sempre guardato al passato come a un luogo da fiaba potremmo metterci materialmente in fila per vedere gli Smiths “suonare” al G-Mex di Manchester, ancora una volta, come se non fossimo mai cambiati, come se Andy Rourke non fosse morto e Morrissey e Johnny Marr non si detestassero. “Non saremo mai più quelle persone”, ho scritto una volta di quel particolare momento, ma forse ero stato un po’ frettoloso. Leopold Bloom pensa alla sua vecchia vita come se fosse abitata da un fantasma di se stesso che passa davanti a uno specchio. “Ero più felice allora. Ma ero io quello? E sono io adesso?”. Forse il futuro sarà un luogo dove ognuno di noi potrà ripetere se stesso in quella che immagina la sua versione migliore, in loop, finché qualcuno non spegnerà l’interruttore dopo aver osservato che la “vita” contribuisce troppo al riscaldamento globale per andare avanti senza finire mai.
L’altro giorno ho fatto una risonanza magnetica. “Avevo sperato d’infilarmi in qualcosa di più comodo”, ho detto alle infermiere. “Come l’incoscienza”.
“Be’, quella non possiamo offrirgliela, ma le possiamo dare questi”, ha risposto una di loro, passandomi un paio di calzini e il camice.
Pochi minuti dopo mi sono steso sul tavolo, un’infermiera ha inserito una cannula e mi ha preparato per il mio ingresso nella galleria bianca. L’altra mi ha dato un paio di cuffie e mi ha chiesto cosa volevo ascoltare. “Radiohead”, ho detto. “The bends”.
“Ah, sì”, ha risposto (le erano già capitati uomini di mezza età).
Stare in quella macchina è la migliore vacanza del mondo. Nessuno può mandarti messaggi, tirarti per un braccio, assillarti per una dichiarazione o accusarti di essere in ritardo (mi era venuta voglia di chiedere se per caso fosse disponibile per tutto agosto). Sdraiato, circondato dalla grande rotondità della plastica, ho avuto la certezza che quella fosse l’esperienza più vicina alla morte che i medici potessero offrirmi mentre mi tenevano cosciente. Hanno ignorato la mia richiesta, e hanno messo in rapida successione Nirvana, Red Hot Chili Peppers e Fontaines D.C.. Quando l’infermiera mi ha parlato nella cuffia per chiedermi se andava tutto bene, le ho detto che avevo cambiato idea. Volevo Whitney Houston. La musica è cambiata e il tavolo è entrato più in profondità dentro la macchina. Non era Whitney: erano gli Smiths, come prescritto dalle leggi della selezione naturale e da quelle dell’assurdità. Quello che diceva la canzone degli Smiths era vero: era da tanto tempo che non facevo un sogno. Ma forse la vita è il sogno, che ritorna all’infinito, come la canzone. ◆ fas
Andrew O’Hagan è uno scrittore e giornalista britannico. È nato a Glasgow, in Scozia, nel 1968. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Caledonian road (Bompiani 2024). Questo articolo è uscito sulla London Review of Books con il titolo “Whitney lives!”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati