Gli ospiti sono stati invitati per festeggiare la buona notizia: i risultati degli esami della loro amica Lina sono negativi. Il cancro non è tornato. Tra un bicchiere di vino e l’altro, la padrona di casa racconta che l’esame è stato anticipato perché la persona che aveva l’appuntamento quel giorno non è riuscita ad arrivare: era rimasta imbottigliata tra posti di blocco e checkpoint (la differenza è che i secondi sono più strutturati e permanenti).
Inizialmente l’esame di Lina (uno pseudonimo, come quello di altri intervistati) era stato fissato per la fine dell’anno, ma l’ospedale di Ramallah l’aveva messa in lista d’attesa per due date diverse. L’esperienza insegna che a causa dei blocchi – o di soldati insolitamente lenti, o di un’incursione militare in un quartiere o villaggio vicino – capita che qualcuno non si presenti. Alla prima data non c’erano state cancellazioni. Circa due settimane dopo, l’ospedale l’ha chiamata intorno alle 10 del mattino dicendole di andare lì immediatamente. “Eravamo felici, ma abbiamo anche pensato alla frustrazione e alla preoccupazione di una persona che non conosciamo e che non è riuscita ad andare all’appuntamento”, dicono Lina e il suo compagno.
E loro sanno bene quanto sia rischioso saltare una pet-tc come quella a cui si è sottoposta Lina. Il macchinario di Ramallah (disponibile solo in un altro ospedale in Cisgiordania) può esaminare al massimo dieci pazienti al giorno. Richiede un materiale radioattivo, che è acquistato in Israele e portato in ospedale in quantità contate per gli esami del giorno. Dato che la maggior parte dei pazienti non viene da Ramallah, la lista è composta anche considerando le restrizioni al movimento imposte da Israele.
Più lunghi e più lenti
Secondo i documenti ufficiali e i dati dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), ci sono 877 checkpoint e posti di blocco sparsi intorno alle enclave palestinesi della Cisgiordania (note come aree A e B). Circa un quarto (220) sono stati creati dopo l’ottobre 2023; tra febbraio e settembre di quest’anno ne sono stati allestiti 28. Un’indagine della Commissione palestinese per la resistenza al muro e agli insediamenti realizzata a settembre ne ha contati 911 totali, di cui ottanta costruiti dall’inizio del 2025. Questa leggera discrepanza indica la grande quantità dei blocchi, la loro diffusione e la facilità con cui sono allestiti, quindi il loro numero a volte dipende dal giorno.
Inoltre, ci sono posti di blocco temporanei a sorpresa: i soldati sostano per una o due ore tra i villaggi o all’ingresso di un villaggio, fermando tutte le macchine e controllando il documento d’identità di autisti e passeggeri, a volte anche fotografandoli. La loro posizione varia, ma la pratica è sempre la stessa. Secondo il dipartimento per i negoziati dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, a settembre sono comparsi 495 checkpoint temporanei e dati simili si erano registrati nei mesi precedenti.
Questi vari blocchi stradali delineano i contorni artificiali delle “sacche” territoriali palestinesi A e B, che costituiscono il 40 per cento della Cisgiordania. Allontanano – o escludono del tutto – i palestinesi dalle strade più veloci all’interno della Cisgiordania, usate prevalentemente dagli israeliani. Così per i palestinesi i tragitti in auto diventano più lunghi e a volte il traffico si blocca. L’incertezza è un fattore costante di ogni itinerario.
Tirare a indovinare
Mentre era in attesa, Lina ha incontrato una giovane paziente oncologica che vive in un villaggio a sud di Nablus. Avrebbe potuto sottoporsi alla chemioterapia all’ospedale dell’università Al Najah, a un quarto d’ora da casa sua, in tempi normali. Tuttavia, dall’ottobre 2023 l’accesso sud alla Route 60 (la superstrada principale) per Nablus è bloccato da quello che è conosciuto come il checkpoint di Hawara. Per lei la strada per Ramallah non è più breve né la più veloce, ma almeno è sicura di arrivare.
Il checkpoint di Hawara è noto per essere chiuso, ma ci sono anche cancelli metallici dove i soldati giocano a fare “apri e chiudi”, senza una regola precisa, sicuramente non per i palestinesi. In altre parole, molti possono solo provare a indovinare quale situazione troveranno: i soldati non ci sono e il varco è aperto; i soldati non ci sono ma il varco è chiuso; i soldati ci sono e il varco è chiuso; i soldati ci sono e il varco è aperto, ma fermano e controllano i conducenti con una lentezza che sembra voluta. Tuttavia, a un varco aperto può seguirne uno chiuso, o può esserci un ingorgo stradale creato dal balletto di chiusure e deviazioni forzate attraverso i villaggi su stradine che non sono pensate per il traffico interurbano.
“Dille quanti dossi stradali incontri ogni giorno” suggerisce Abu Nihad, un tassista di Ramallah, al suo amico che guida sulla strada per Tulkarem. Invece di prendere la strada Nablus-Anabta, che è bloccata dal checkpoint di Einav, deve destreggiarsi tra le vie sterrate e non asfaltate dei villaggi circostanti. “A volte passo per un checkpoint e il traffico scorre normalmente”, spiega Abu Nihad. “Quando torno indietro, dieci minuti dopo, il cancello è chiuso e devo fare un altro percorso, oppure aspettare mezz’ora prima che riapra”. Abu Nihad considera questi ritardi un’umiliazione. Come molti altri palestinesi ha il sospetto che il vero motivo per creare blocchi a determinati orari sia che i soldati hanno ricevuto l’ordine di tenere le strade libere per i veicoli israeliani, così da ridurre gli ingorghi delle ore di punta al mattino e nel pomeriggio. “Non è solo umiliante”, aggiunge Lina. “Ogni volta che ci mettiamo in macchina – o decidiamo di non farlo – ho la sensazione che ci venga rubato il tempo”.
In uno studio recente il Palestine economic policy research institute (Mas) ha calcolato quanto tempo è rubato. Sulla base di un campione di cento veicoli pubblici che passavano quasi tutta la giornata in strada per cinque giorni a settimana nell’ottobre 2023, lo studio ha rilevato che ogni tragitto breve nel distretto di Nablus comportava in media un ritardo di 23 minuti a causa di posti di blocco e sbarramenti. Il dato è stato ottenuto confrontando questi viaggi con quelli dei “giorni normali” (cioè prima della guerra).
Il tragitto verso e da Gerico comportava 43 minuti persi, mentre per la tratta da Nablus alla Cisgiordania centrale o meridionale i ritardi si allungavano di circa un’ora. Tuttavia, la portata di questo tempo perso diventa evidente quando si guarda al quadro generale: secondo la stessa ricerca ogni giorno erano perse 191.146 ore lavorative a causa dei checkpoint e dei posti di blocco. Le ore perdute costavano all’economia palestinese circa 764.600 dollari (660mila euro) al giorno, più o meno 16,8 milioni di dollari al mese. Questi costi derivavano non solo dalle attese ma anche dai tentativi di aggirare i blocchi: i conducenti che preferivano cercare tratte alternative spendevano di più in carburante e questa quotidiana spesa supplementare ammontava a circa 19.200 dollari, che sommati diventavano 6 milioni all’anno.
Ogni automobilista lo sperimenta in prima persona. Abu Nihad non si prende più la briga di calcolare le sue perdite; conta solo i motivi che le hanno causate. Le persone viaggiano meno; le attese ai posti di blocco fanno sprecare gasolio; sulle strade sterrate gli pneumatici si consumano più velocemente e si usa più carburante; i guasti ai veicoli sono più frequenti.
◆ Decine di coloni israeliani a volto coperto hanno attaccato i villaggi palestinesi di Beit Lid e Deir Sharaf in Cisgiordania l’11 novembre 2025: hanno distrutto proprietà e aggredito gli abitanti, ferendone alcuni. La polizia israeliana ha detto di avere arrestato quattro coloni. Secondo la Commissione palestinese per la resistenza al muro e agli insediamenti, a ottobre l’esercito e i coloni israeliani hanno compiuto 2.350 attacchi in Cisgiordania. Al Jazeera
Lina ha saputo dal medico che una delle sue pazienti, che vive a nord di Ramallah, ha smesso di andare in ospedale per le terapie. Quando il medico l’ha chiamata per chiederle spiegazioni, lei ha detto che non poteva permettersi il trasporto pubblico e preferiva risparmiare il poco che aveva per sfamare i figli. Allora lui le ha mandato i soldi per coprire le spese di viaggio per i tre mesi, ma lei li ha dati ai suoi figli.
La rinuncia a viaggiare in auto è un fenomeno generale ed è uno dei sintomi della crisi economica in Cisgiordania. Decine di migliaia di famiglie hanno perso la loro fonte primaria di sussistenza quando Israele ha vietato l’ingresso dei lavoratori palestinesi dopo il 7 ottobre 2023. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) non è in grado di pagare interamente i salari ai dipendenti pubblici, perché Israele confisca una quota significativa delle entrate del ministero delle finanze dell’Anp ottenute con i dazi sulle importazioni. Gli impiegati lavorano in ufficio solo pochi giorni a settimana, gli insegnanti tengono le lezioni su Zoom due o tre giorni a settimana, quando è possibile.
Regole più severe
Daliya, un’abitante di Gerusalemme Est che lavora in Cisgiordania, conosce bene i posti di blocco. “È evidente come contribuiscono a frammentare il nostro territorio, ma è difficile spiegare come hanno preso il controllo delle nostre vite”. Agli occhi di un osservatore esterno, ogni blocco è un “non-evento”. “Quando il traffico è congestionato al checkpoint di Qalandiya puoi lamentarti dell’aumento delle auto private e della cultura consumistica, dimenticando che tre corsie convergono in un unico posto di blocco e che questi posti di blocco di fatto separano i palestinesi tra loro”. E offre altri esempi: “Quando il tragitto alternativo comporta una salita ripida, chi sente il cuore degli autisti martellare nei loro veicoli grossi e ansimanti? Quando un varco è chiuso, l’immobilità non si vede: l’insegnante che non arriva in classe, la riunione che si svolge senza alcuni partecipanti. Quando in una strada asfaltata vuota e fatiscente spuntano un’estate dopo l’altra rovi e cardi, non vedi il trattore o il carretto trainato da un asino che un tempo passavano qui per raggiungere gli uliveti o le sorgenti d’acqua. Non vedi la vita che c’era una volta”.
Questi non-eventi determinano e invadono la vita quotidiana, non solo nel luogo in cui accadono – cioè sulle strade – ma anche nelle conversazioni di ogni giorno, a scuola, al supermercato, in famiglia; condizionano le decisioni su dove vivere (a nord o a sud di un checkpoint), le spese, i conti in banca e la pressione sanguigna. Questa era la realtà anche sette anni fa, quando i checkpoint e i posti di blocco erano 706, o nel 2023 quando il numero era sceso a 645. Da due anni però la situazione sta peggiorando. Questa realtà porta i palestinesi a trovare nuove definizioni di disperazione. “Quando muore uno di noi, per loro è un sollievo, è un peso in meno”, dice Abu Nihad. “Ma noi siamo reclusi senza essere ufficialmente incarcerati. Io muoio ogni giorno”.
Le forme di questa reclusione sono molte, l’unico limite è l’immaginazione di chi stabilisce i blocchi: cubi di cemento o cumuli di terra e pietre in mezzo a una strada, fossati costeggiati da terrapieni; varchi metallici sempre chiusi, o aperti a intermittenza; quelli chiusi e aperti a distanza; quelli che i soldati vengono ad aprire e chiudere con una chiave; i posti di controllo presidiati dai soldati 24 ore su 24 sette giorni su sette e quelli chiusi quando i soldati tornano alla base a mezzogiorno; quelli chiusi a orari fissi, e quelli chiusi al traffico in base a qualche oscura decisione o, come sostengono i palestinesi, “all’umore del soldato di turno”.
Il medico di Lina, che arriva dalla zona di Betlemme, passa ogni giorno da quello che viene chiamato il checkpoint Container a Wadi Nar: tutto il traffico palestinese tra il sud e il nord della Cisgiordania passa da lì. Una breve pausa degli agenti della polizia di frontiera per andare in bagno o mangiare un panino è sufficiente a paralizzare il traffico per mezz’ora o più.
Di fatto, è sufficiente che la polizia di frontiera chieda a ogni auto di fermarsi per cinque secondi, senza dare neppure un’occhiata al documento di identità del conducente o senza aprire il portabagagli, per formare un serpentone di auto dalla cima della collina fino alla vallata, che si muove di cento metri all’ora.
In passato capitava che l’esercito israeliano alleggerisse la pressione dopo alcune settimane o mesi di restrizioni più rigide. Oggi la tendenza è imporre politiche più severe. L’Ocha ha constatato che vent’anni fa circa tre quarti dei vari blocchi stradali erano costituiti da cumuli di terra e barriere di cemento, quindi erano temporanei e facilmente rimovibili. Oggi si tende a usare più spesso infrastrutture stabili, il che indica un’istituzionalizzazione dei limiti al movimento.
A maggio di quest’anno c’erano 94 checkpoint presidiati dai militari sempre, sette giorni su sette, mentre altri 153 erano sorvegliati per poche ore al giorno. Sui 223 varchi metallici contati dall’Ocha a settembre, 127 erano abitualmente chiusi. Il loro scopo evidentemente non è solo bloccare: sopra ogni struttura ci sono videocamere per il riconoscimento facciale, che registrano anche tutte le targhe. In questo modo, dice Daliya, “ci muoviamo tra una sensazione di claustrofobia in ogni enclave circondata da checkpoint, blocchi, postazioni militari, avamposti e insediamenti e la consapevolezza di essere costantemente sotto sorveglianza”.
L’esercito israeliano non ha risposto alla richiesta di Haaretz sul numero di varchi metallici e su chi decide quando chiuderli e aprirli, o ordina ai soldati di fotografare i conducenti palestinesi. Si è anche rifiutato di commentare se i ritardi hanno lo scopo di facilitare il movimento dei cittadini ebrei dagli insediamenti al territorio israeliano vero e proprio. “Le decisioni sulla creazione dei posti di blocco”, ha detto un portavoce, “così come le loro aperture e chiusure sono prese sulla base di valutazioni operative e per motivi di sicurezza. La loro disposizione serve a consentire il controllo operativo e una difesa efficace dell’intera area. La politica sui posti di blocco cambia a seconda della situazione sul campo, unendo le necessità in materia di sicurezza con la possibilità di viaggiare nell’area”. Nell’ambito delle attività militari, ha concluso, “dispositivi tecnologici sono usati nel rispetto del diritto internazionale per tutelare la sicurezza. L’uso di questi dispositivi ha consentito di sventare decine di attentati terroristici, in parte grazie ai posti di blocco”. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1640 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati